Opera del pittore Kirka
La fabbrica era disposta su due piani e divisa in diverse stanze. In ogni stanza dormivano circa sette persone. Dormivamo al piano superiore e mangiavamo in quello inferiore. Non c’erano né brandine, né letti, ma dormivamo sui cartoni con coperte molto leggere. Il capannone era senza corrente elettrica e senza acqua. Se volevamo fare la doccia a pochi metri dal dormitorio c’erano alcuni ragazzi africani che vendevano l’acqua calda a 50 centesimi al litro. Se volevamo l’acqua della fontana, c’erano quasi sempre degli uomini che con la loro auto ci portavano alla fontana per 5 euro.
Per mangiare facevo la spesa nel market del paese e per arrivarci serviva il “servizio taxi”, che costava 10 euro. Solo ogni tanto passava una signora anziana della Caritas a portarci vestiti e cibo. Vicino alla fabbrica si potevano acquistare sigarette di contrabbando o ci si poteva tagliare i capelli.
Un giorno un amico mi ha detto che delle persone italiane avevano sparato a dei lavoratori africani e che c’erano delle proteste nella piazza del paese. Io ero alla fabbrica, poco dopo è arrivata la polizia e ha portato via tutti gli stranieri presenti.
Sono stato stato accompagnato a Bari, alloggiato presso la tendopoli predisposta dalla Croce Rossa Italiana, lì ho potuto presentare regolare denuncia per sfruttamento da lavoro. Poi sono stato inviato a Varese, accolto dalla Cooperativa Lotta contro l’emarginazione, in attesa di un parere da parte del Pubblico Miinistero che mi permetta di prendere il permesso di soggiorno e intraprendere il percorso di protezione sociale, in modo da regolarizzarmi e affrancarmi dalla precedente situazione di sfruttamento.
Sono stanco di lavorare in nero, costretto ad accettare le ingiuste condizioni di lavoro che vengono proposte a chi, come me, non può rivendicare dei diritti, perché non in regola coi documenti.
Sono preoccupato, ma spero che prima o poi il giudice valuti la mia storia e mi riconosca il diritto ad accedere all’art. 18 del Testo Unico sull’immigrazione.