Illegittimo impedimento

La democrazia è in pericolo, si discute e ci s’infervora sui treni fermi. Ormai non c’è più gusto nel prendersela con le ferrovie dello stato, o le nord, o con il Padre Eterno. La periferia di Parabiago, desolata e annebbiata, con la neve che copre parzialmente il grigio, non trasmette che poche e fugaci emozioni: dentro uno scompartimento che manda odore di chiuso, la fantasia non riesce ad andare oltre le pagine di un giornale, al massimo arriva a sbirciare nella scollatura lontana di una viaggiatrice disorientata e accaldata, tre file di sedili più in là. La giusta distanza per non dare dell’occhio. Cellulari che squillano con musichette di ogni tipo, gente che non ha più voglia d’incazzarsi e guarda il vuoto pensando al nulla o alla democrazia a rischio: «Ma quale democrazia – grida un viaggiatore -, mi salta un esame universitario, e non c’è decreto che mi aiuti». La ferrovia era simbolo di progresso, correva la locomotiva, oggi è simbolo di un Paese fermo, contro il quale i pendolari non hanno più nemmeno la voglia di reagire.
Mille vite con mille strade diverse, che messe su foglio farebbero lo scarabocchio di un bambino. Mille righe che convergono nello stesso punto e lì si fermano, senza nulla da dirsi. Ognuno avrebbe occasioni irripetibili per conoscere chi gli sta di fronte e parlare un po’ di sé: comunicare. In treno, non si comunica, ci s’imbarazza della propria immobilità. Si sta fermi dentro una realtà circoscritta da un abitacolo di plastica e lamiera, riscaldato dall’aria viziata da troppe persone con ancora il mattino in bocca, quell’odore misto di sonno e caffè.
C’è un docente di non so quale materia che annuncia via sms a un preside di Milano che, stamane, non arriverà: e già m’immagino la festa di una classe di studenti che si ritrova un paio d’ore buche per attività extra. C’è una studentessa che ripete ad alta voce nozioni di economia politica, come stesse recitando un rosario: non mi ha mai interessato la materia, ma in mancanza di altri spunti cerco di carpire qualche concetto. C’è chi sonnecchia davanti a un libro di Don Andrea Gallo, “Come in cielo, così in terra”, e leggendo in modo clandestino qualche riga di sfuggita, mi accorgo di avere oggi qualcosa di che spartire con gli ultimi e i dimenticati citati dal sacerdote genovese. Io soltanto per una mattina, però. Mentre i più attrezzati picchiettano sulle tastiere di minuscoli computer portatili, una signora compila la lista della spesa e alla prima voce, intravvedo, ha messo carta igienica.
Tra quelli che viaggiano in coppia, qualcuno legge ad alta voce le ultime notizie, recuperate su internet grazie all’I-phone: quello là, quello del legittimo impedimento, ci invita all’ottimismo, stamane. Il capotreno, che in quel momento rappresenta le istituzioni (quelle ferroviarie) ci annuncia con il sorriso fiero che il nostro localaccio sarà il primo treno a partire dalla stazione di Parabiago, non appena la linea verrà ripristinata: tutti, istintivamente, si affacciano ai finestrini per constatare che, in realtà, il nostro primo treno è anche l’unico lì fermo.
C’è pericolo per la democrazia? A leggere i giornali, a leggere le ultime dichiarazioni, il problema non esiste già più: tutto è ottimismo, democraticamente imposto per decreto. E allora, comincio a pensare che i 130 minuti di ritardo annunciati per il mio treno si possano facilmente ricomporre con il mio capoufficio grazie a un provvedimento interpretativo che mi consenta di affermare che, spiritualmente, anche questa mattina ho fatto il mio ingresso in ufficio alle 8, come sempre, e non alle 10,45 come probabilmente avverrà. Nella vita l’opinioni ad effetto fanno girare il mondo, i fatti non contano più.
Come diceva Flaiano, in Italia non esiste una verità, ma infinte versioni: e così, a bordo di un treno immobile e sperduto nel mezzo di una provincia, Parabiago non è poi così male, se soltanto pensassi a un pendolare di Calcutta, in questo momento.
E in un mondo ossessionato, anzi addirittura surriscaldato dal movimento, restare fermi su un binario fa addirittura bene al pianeta: grazie a me e a una carovana di sfigati, questa mattina Milano sarà un po’ meno inquinata. Quando si dice ottimismo…

Soppresso

Guardi lo schermo, unico segno di civiltà delle tua stazione, e leggi una parola sola: soppresso. «Ah! E quello dopo?» Soppresso. «E quello dopo ancora?». Forse soppresso, forse no, tanto c’è tempo. E resti lì sul binario, fermo come il semaforo che all’uscita della stazione è acceso sul rosso. Nelle stazioni in centro, c’è abbastanza vita per tirare due o tre vadavialcù in faccia a qualcuno, ma sulla banchina dimenticata di un avamposto di periferia, hai solo l’aria fredda che ti sbatte in faccia a cui imprecare, quella sollevata dai treni “vip” che passano, vanno e lì non fermano mai.
Ci sono tanti modi per trascorrere una serata, si dice: poi, la routine quotidiana spinge quasi tutti o davanti a un televisore o davanti a un piatto di pasta, ma poi ci si riduce a fare entrambe le cose nello stesso momento. Fine della giornata.
Se invece sei pendolare, c’è il sorteggio della soppressione quotidiana da mettere in conto: negli slanci di devozione, infatti, ogni viaggiatore delle linee “hot” attorno a Milano inserisce d’abitudine nella litania anche “non darci oggi la soppressione quotidiana”.
Ma se il sorteggiato sei tu, allora la serata cambia; il tempo diventa metafisico, scorre, e non serve a nulla starsene a brontolare. Hai tempo per pensare, tanto. E magari dare una sbirciatina ai quotidiani stropicciati del mattino, visti e rivisti, ma sui quali c’è sempre qualcosa di non letto. «Bisognerebbe sempre avere qualcosa di sensazionale da leggere in treno», diceva Oscar Wilde: ma quando il treno non c’è, ti rimane ben poco in mano.
Nelle pagine di economia, distrattamente, t’imbatti in un nome: Innocenzo Cipolletta, presidente delle Ferrovie dello stato, illustre economista e cavaliere di Gran croce. E pensi alla tua gran croce, mentre t’immagini il signor Innocenzo seduto in un lounge restaurant di lusso, con in mano un calice di champagne, a parlare di economia e di alta velocità. E tu lì, fermo, senza velocità: ma con una gran voglia di pisciare, senza speranza di trovare una toilette aperta o un angolo buio. Cipolletta parla di alta velocità, davanti a un caminetto e a uomini in giacca Armani: lo dipingi così, circondato da manager che viaggiano solo in aereo; mentre tu, con il giubbotto sgualcito e l’ultimo chewing gum ormai consumato e stramasticato, hai la sola certezza che il signor Innocenzo non sta pensando a te.
No, meglio non soffrire e immaginare altro, mentre sfogli quel che resta di un quotidiano ormai vecchio per tutti, tranne che per te: e c’è l’oroscopo, là in fondo, ormai scaduto. Dai una sbirciatina al tuo segno, quello dei pesci, per vedere cosa aveva previsto per oggi: “In amore sarà la tua grande giornata, le stelle prevedono per te grandi e caldi momenti, soprattutto in serata”. E ti vedi circondato da quattro soubrette, sempre in quel lounge restaurant, ma con saletta riservata… Chissà quale trionfo di virilità ti sarebbe toccato, se il tuo treno non fosse stato soppresso. E, senza volerlo, mentre ormai trattieni a stento la pipì, ti vien soltanto un pensiero: chissà se Cipolletta è del segno dei pesci…

Tramonto con castorino maggiorato

Il tramonto di febbraio ha qualcosa di magico, visto dal treno. A chi ha ancora la lucidità per accorgersene, guardando oltre il vetro sporco o scarabocchiato dai writers, quel rosso fuoco, che quasi t’illumina il viso, mentre dalla città sali verso la provincia, cambia l’umore. Aiuta a pensare. Del resto, sulle carrozze dei localacci, c’è tanto tempo per pensare. E le alternative sono poche: o rimani con la testa ancora impegolata a quel che hai lasciato alle spalle, ovvero a una scrivania sempre zeppa di magagne, o vai oltre, a quello che ti aspetta una volta sceso dal treno. E se quel che ti attende è proprio là, dove scende il sole e incendia il cielo, allora vien la voglia di fare un bel respiro e pensare positivo.
Il senso di alienazione che spesso ha la meglio, in quel monotono andare e venire, sembra allentarsi e aprire nuove prospettive: già, perché ora non si torna più con il buio. Si rientra a casa quando ancora ci è concesso di catturare gli ultimi fotogrammi di luce, quelli più caldi e suggestivi. C’è il Monte Rosa, là all’orizzonte, che sembra un gigante e il bagliore del tramonto quasi gli dà vita: certo, ma soltanto, agli occhi di un pendolare che abbia ancora fantasia.
C’è una signora impellicciata, seduta due sedili più in là. Un fagotto di donna, con permanente old style e doppiomento. Sembra lei stessa il castorino che ha indosso: di fronte ha un giovane cingalese, con in mano un mazzo di rose, diretto a un semaforo di un paese di provincia, dal quale proverà a fare piccoli affari per San Valentino, contando sugli innamorati squattrinati e sbrigativi. Due euro a rosa e la questione è risolta. Perché è il pensiero che conta.
La signora “castorina”, ha un cellulare incollato all’orecchio e parla a “macchinetta”, tralasciando ogni contegno. E così, senza nemmeno essere amici su Facebook, ognuno dei presenti finisce per farsi inevitabilmente gli affari di quella pelliccia parlante.
«No perché sai, cara… l’altra sera da Vespa si è detto che il regalo più “in”, quest’anno è il seno nuovo…»
Tutti i presenti, senza volerlo, hanno cominciato a immaginarsi un castoro riccioluto con due enormi tette, trattenute a stento da un bottone sofferente. C’è chi cerca rifugio nelle pagine dell’ultimo libro di Dan Brown, chi spulcia gli annunci economici di un quotidiano e finisce per consultare quelli delle astrocartomanti, c’è chi gioca a solitario sul cellulare e chi prova a prenotare le vacanze: ma la mente fa brutti scherzi e non riesce a rinunciare a prefigurarsi un roditore peloso con la permanente che avanza minaccioso, ancheggiando come Belen Rodriguez. Forse è anche per questo che il desiderio sessuale dei pendolari è un fenomeno raro che si manifesta, nei casi più fortunati, soltanto nei fine settimana. Colpa dell’immaginazione e dello stress. Ma per fortuna, c’è il tramonto che riconcilia ogni pensiero con la natura.
Mentre la signora impellicciata continua a borbottare di protesi e regali, il giovane cingalese ha come un sussulto, non rivolto all’improbabile maggiorata, bensì all’orizzonte, arancione e meraviglioso. Il treno sta rallentando, sta per entrare in stazione, mentre i binari lambiscono i centri commerciali: come d’istinto, prima di alzarsi dal posto e scendere dalla carrozza, indica alla signora lo spettacolo del cielo.
Lei, improvvisamente, si zittisce, rimanendo con il cellulare sempre attaccato all’orecchio, si sporge dal sedile per vedere fuori dal finestrino, si china quanto basta per far comparire un triplo mento. Un istante e ritorna ad appoggiarsi allo schienale riprendendo la sua chiacchierata: «Ah sì scusa, mah non è niente, un extracomunitario mi ha indicato un’insegna, fanno gli sconti sullo yogurth magro. Ma dimmi tu, non sanno più come importunarti…».

L’assalto al treno

Una volta lo facevano gli indiani, a cavallo. Ora è roba da pendolari incazzati. A Lodi, finisce in gazzarra: se ne discute anche sulle carrozze sderenate dei locali che da Varese scendono a Milano. «Là sì che hanno gli attributi», commenta un ragazzo ad alta voce. Qui, invece, c’è più rassegnazione, scappa qualche parolaccia, ma la metropoli di Milano, per noi che scendiamo dalla provincia, non infonde la stessa carica. «A me interessa che sto trenaccio mi riporti a casa stasera, per il resto…», interviene un impiegato scampato alla cassa integrazione.
Si leggono pochissimi quotidiani, soltanto qualche freepress con le solite notizie della paura. Noi, peggio di Gotham city, siamo in balìa di catastrofi, epidemie o peggio, a giudicare dai titoli sempre più rasserenante dei giornali gratuiti. La stampa a pagamento è diventata rara, sulle carrozze: del resto, è normale. Il Corriere della sera di stamane, per esempio, dedica le prime otto pagine alle schermaglie del cortile della politica, vicende lontanissime dalla realtà quotidiana che vivono i cittadini, a cominciare da quelli che ogni giorni prendono un treno all’alba e sbarcano il lunario in una città difficile, sempre più difficile.
Nel silenzio generale, oltre l’odore di sporco che ristagna sui vagoni, c’è una voce che emerge: è quella di una signora che si lamenta con il capotreno. Carrozza troppo fredda, vecchia storia, alla quale ogni controllore si difende come può… su queste carrozze si tira a campare, invece di protestare, meglio fare da sé e scegliere tra la carrozza “tropical”, 42 gradi, e quella “igloo”, meno 5. Giù in fondo, dimenticata, c’è anche la carrozza “eolo”, quella con le porte che rimangono aperte una stazione sì e una no. Gira sullo stesso treno, ormai da mesi, senza che nessuno alzi più nemmeno una voce d’indignazione: è per il ricambio d’aria. E, tutto sommato, in caso di assalto al treno, è l’ideale.

Sì, sono un “saponista”: aria nuova sui treni!

In dodici ore, tra un ritorno e un’andata, sera tardi e mattina presto, due treni guasti, due soppressi, due coincidenze perse per strada, quattro ore e trenta minuti di viaggio in tutto. Un bollettino di guerra sulla linea Milano-Domodossola. Ed è in quei momenti, ovvero quando il pendolare è sotto stress, che il training autogeno dell’ottimismo non funziona più, lo scudo di positività (come il karma della formica) s’infrange e filtrano soltanto magagne: nel senso che, in balìa di un treno che non va avanti, un pendolare scaricato come un baule da una banchina all’altra, si accorge di un sacco di altre cose che fanno incazzare.

Stamani, su tutte, l’ascella putrefatta di un paio di viaggiatori era da mani in faccia: in nessun caso, e a maggior ragione alle 6,45 del mattino, gli pseudocaproni non dovrebbero essere autorizzati a viaggiare sui treni affollati. I treni fanno schifo ed è cosa nota, ma non ha senso lamentarsi per la scarsa pulizia delle carrozze senza prima una sana dose di sapone abbondantemente utilizzata su se stessi. Sbaglio? Ho sempre diffidato dei movimenti di protesta “codificati”, ma ora mi converto: voglio fondare il movimento dei “saponisti”. Sì sono un saponista, per motivi di sopravvivenza, ovviamente.

La linfa vitale di Milano scorre nelle vene delle linee dei trasporti e io ne sono parte con altre centinaia di migliaia di persone, come globuli rossi che dovrebbero portare ossigeno all’organismo e all’economia della città: l’effetto, però, è quello di un pugno in pancia, per il fetore. Altro che manifesti culturali: il rinnovamento cominciamolo da una sana doccia quotidiana.

Letture da treno: l’orribile karma della formica

Sul solito lercio treno delle 6,43, stamane rischiavo di perdere la fermata: dialogavo mentalmente con Arcadio Buendia (il protagonista del romanzo che sto leggendo) a proposito di formiche e reincarnazioni.
Già, perché Desi, che lavora per una compagnia di assicurazioni, mi aveva appena parlato in modo entusiasta dell’ultimo libro terminato, tra andate e ritorni in ferrovia: “L’orribile karma della formica”, un romanzo di David Safier.
Kim è una donna in carriera, conduttrice televisiva di successo si ritrova spesso a mettere in primo piano la sua carriera anziché la famiglia, ovvero un marito e una figlia dolcissimi. Ma un giorno Kim muore per un incidente assurdo e rinasce come formica. Tuttavia, a ogni karma positivo si reincarna in un animale ogni volta più grosso, fino a tornare uomo.
Mi chiedo a quale punto di questa scala verso la redenzione siano posizionati i pendolari: secondo Darwin saremmo l’evoluzione della specie, oltre l’uomo e l’automobilista. All’opposto, ovvero secondo il pensiero metafisico, saremmo più simili a peccatori in purgatorio, reincarnati da una cimice, forse (visto l’odore che si avverte nelle carrozze del treno). Pensieri balzani di una mattinata grigia grigia…

Dimmi cosa leggi, pendolare…

Al bando la freepress, dunque, tra le prime cause d’inquinamento ambientale dei treni pendolari e d’inquinamento mentale degli stessi viaggiatori che ne fanno un uso smodato, spesso improprio. Sui locali del mattino e della sera, i libri, per fortuna, resistono… Anzi continua a essere il feticcio ideale del pendolare, è la finestra su un mondo parallelo, la scorciatoia verso una fantasia che permette di evadere almeno con la mente da una carrozza lercia e maleodorante che, stamane, ha raggiunto livelli al limite della vivibilità.

Treni, metrò, autobus: a ogni mezzo un libro. In genere la differenza sta nel formato e nel numero di pagine, ma a volte anche nel contenuto: questo vale soprattutto per chi, ogni mattina, prende un solo mezzo pubblico. Per chi, invece, si barcamena su più mezzi, la scelta dipende semplicemente l’umore del momento. Il libro da treno, in genere, è di un formato che si può tranquillamente appoggiare sulle ginocchia mentre si sta seduti. Io non faccio testo, poiché sto leggendo “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez, edizione economica, scritto piccolo: questo mi costringe a leggere lentamente, a soffermarmi di più e a rileggere spesso i passaggi più intensi. Insomma è un po’ più faticoso di un bel tomo scritto grande, come per esempio un rassicurante “Libro dei morti” di Patricia Cornwell elegantemente sorretto da un’avvenente signorina seduta di fronte a me, stamane. Chissà quali idee avrà per il week-end…

C’è poi il libro da metrò, in genere di dimensioni ridotte dal peso e formato minimo, facile da tenere in mano mentre si sta in piedi, nella vettura strapiena di gente: spesso la scelta cade su autori con ritmo veloce, dalla scrittura facile, immediata, che usa capitoli molto brevi. Andrea Vitali, per esempio, ha lo stile ideale per chi ama ingoiare capitoli che durano un paio di fermate o tre. Il libro da autobus, invece, è più light soprattutto come contenuto, in genere umoristico: la Littizzetto e Oreglio spopolano alle fermate.

Come accennato, chi usa più mezzi sceglie in base all’umore: e com’è l’umore dei pendolari, in questi giorni? Sbircio a destra a sinistra nella mia carrozza e vedo, lì accanto, un ragazzo assorto nella lettura di “A ritroso” di Joris Karl Huysmans. Chiedo di parlarmene e il giovane, sicuramente uno studente, risponde in poche parole: «È il manuale del perfetto decadente». Il protagonista è un nobile parigino, stanco della vita. Il libro racconta le fobìe di un uomo che vive in una stanza arredata come fosse una nave… Coraggio, pendolari: su con il morale!

Diario del pendolare: il guasto

Binario due, pienone in banchina, termometro a cinque gradi: ecco il giorno ideale per iniziare il diario del pendolare. Perché fino a qualche settimana fa, i treni viaggiavano ancora mezzi vuoti e perché il caldo fuori stagione regalava fin troppo sollievo. A Milano, sembrava quasi di andarci per una gita.

Oggi ci siamo, però: comincia la stagione. Donne, che fino a ieri concedevano generose scollature a sguardi neanche tanto indiscreti, stazionano appallottolate negli scialli, uomini intabarrati e irrigiditi come merluzzi norvegesi: tutti in attesa del treno delle 6,43, con lo stomaco contratto per il freddo e la testa che già è sprofondata nel sedile di una carrozza di seconda classe. Sagome asessuate di un mattino tipico di ogni pendolare, con un venticello che taglia la faccia, alzato dal treno in arrivo.

Si sale e ci si lascia cadere su una poltroncina impolverata e lercia, ma comoda quanto basta per entrare nel mondo di Orfeo che sembra attendere quella massa di sfrattati dalle lenzuola come un San Bernardo con la grappa sotto il mento, per dare un po’ di tepore. Quasi all’istante ci s’ingloba in un intero popolo dormiente, sfatto dal ritmo quotidiano, che a quell’ora non ha la forza di leggere nemmeno un aforisma o una barzelletta. Libri, quotidiani, pc ordinatamente riposti sulle ginocchia di ognuno, testa appoggiata all’indietro e respiro pesante: soltanto qualche studentello alle prime esperienze trova l’energia per starnazzare e ridacchiare, quanto basta per liberare un “vadavialcù” da una bocca impastata di sonno.

“Gallarate, stazione di Gallarate. Il treno fermo al binario 2 termina la corsa”. Guasto nefasto e bastardo, annunciato da un altoparlante non abbastanza carismatico per farsi ascoltare da uomini e donne in fase rem. Passano minuti prima che qualcuno, almeno tra gli insonni, si accorga del trappolone: il passaparola solleva sederi appesantiti al grido di «uè andiamo al sei, c’è la coincidenza per Pioltello»: è l’odissea tipica del pendolare, animale apparentemente senza meta, ma con un punto d’arrivo ipotetico, almeno ipotetico.

La transumanza al binario 6 è completa, o quasi: tuttavia, nei meccanismi perversi della quotidianità, qualcuno resta impigliato. Gimmy, per esempio, è rimasto di là sul treno spento: la sua sagoma la s’intravede appena, dietro il finestrino. Sogna un mondo diverso, è protagonista della storia d’amore che avrebbe voluto scrivere e pubblicare, vaga in un’isola esotica, deserta, accanto a Monica Bellucci. La trama è confusa, ma la scena è troppo intensa per risvegliarsi. Di fronte a Gimmy, poi, c’è Silvana, che si vede “più bella che intelligente”, ma è troppo immersa nella lettura per accorgersi di quanto accade attorno: dentro la sua realtà virtuale, è nel vivo delle Ragazze di Sanfrediano di Pratolini, un storia che prova a immaginare ai giorni nostri, perché la fantasia è bizzarra, non si ferma mai. Bob, il protagonista, donnaiolo e finto partigiano, è un novello Silvio B. capitato nelle grinfie di un gruppo di veline sedotte e deluse che, con violenza, esprimono il loro “non siamo a tua disposizione”.

Due anime disperse su un binario morto e nemmeno un straccio di samaritano pronto a riportarli nel mondo reale. Il resto della massa di corpi deambulanti è già sul localaccio delle 7,08: addio ai sogni, tutti in piedi e pedalare. Tutti in piedi, tranne Gimmy e Silvana, due destini che hanno deciso di fermarsi uno di fronte all’altro: chissà, a volte è così che nascono le storie d’amore.

Anche le biglietterie automatiche hanno un cuore

Un pendolare minaccia una biglietteria automatica con la pistola: arrestato. Purtroppo, tra uomo e macchina i rapporti restano difficili, ma la legge trionfa. Alla stazione di Busto Arsizio ha prevalso la tecnologia, perché ha avuto più sangue freddo. L’animale a due gambe, quando non riesce ad aver ragione con le buone, finisce sempre per sbroccare e passare alle maniere cattive: la violenza, è evidente, si dimostra più che mai sintomo di debolezza, al contrario di quello che molti potrebbero pensare. E la dinamica è sempre la stessa, dalla politica internazionale alla coda al semaforo, fino alla vita quotidiana spesa tra le banchine delle stazioni e le carrozze degradate di un treno localissimo.

È vero, la biglietteria automatica a volte è bastarda, ma almeno non fa sciopero: tra le tante sigle sindacali che proliferano tra i ferrovieri, non ce n’è una che abbia mai pensato di difendere i loro diritti, anche se, a questo punto, qualcuno potrebbe pensarci. Non potendo azzardare vertenze su orari di lavoro, minimi salariali e ammortizzatori sociali, almeno uno straccio di comitato potrebbe valutare una campagna di sensibilizzazione sulla sicurezza: scorta armata o possibilità di difendersi. Basta violenza, insomma: anche le biglietterie automatiche, in fondo, hanno un’anima. Altrimenti che si torni all’occhio per occhio.

Ogni lunedì mattina, lo sanno tutti, la stazioni sono una giungla, ma come nei peggiori saloon è comunque vietato sparare sul pianista. Un pistolero esaurito, invece, ha infranto l’unica regola ancora in vigore nel far west e la legge, implacabile, ha fatto il suo corso. Il popolo dei pendolari è in subbuglio, perché voci incontrollate, ma non smentite, sostengono che tra i meandri del pacchetto sicurezza ci sia un articolo che istituisce anche il reato d’ingiuria e sputi ai danni delle macchinette automatiche: è la fine di un’epoca, i maleducati sono avvertiti e, presto, anche le macchinette saranno autorizzate a rispondere per le rime. «Ridammi il resto, zoccola!», «E tu pigia il tasto corretto, stronzo!». La fanno franca, invece, i soliti maniaci: eppure, sembra non siano pochi i casi di stupro delle biglietterie automatiche nelle stazioni più desolate della Pianura Padana. Ma il ministro per le Pari opportunità si sta già attivando.

In quell’angolo triste e isolato della stazione di Busto si è consumato un dramma che, se alle biglietterie automatiche fosse garantito il diritto di replica, si sarebbe potuto evitare:
«Vuoi fare la furba eh!? Io il biglietto l’ho già pagato, ora vediamo se di fronte alla mia pistolona, ti torna la voglia di fottermi»
«Dai non fare così, ragiona, ti posso spiegare tutto…»
«Spiegare cosa? Mi hai tradito e io non ti perdono»
«Fai presto a dire tradito, ma prova a riflettere su come mi hai trattata. Come sempre hai fatto tutto di fretta, ma ti ho sempre chiesto di fare attenzione ai preliminari. Non tutti i buchi sono buoni, poi: per chi mi hai preso?»
«Basta, ho già ascoltato abbastanza, è giunta la tua ora»
«Su, aspetta, non perdere la testa. Se metti via la pistola, ti dò l’indirizzo di una mia amica che li dà gratis e lo fa da tutti i buchi»
«Le solite favole, ma dove l’hai vista, con le bagnine di Baywatch?»
«Quali favole, esiste veramente ed è a due passi da qui»
«Ma almeno è carina?»
«Beh, è simpatica»
«Ecco, siamo alle solite: allora è sicuramente tutta arrugginita con i tasti unti e tappezzata di chewing gum»
«Non è verò, caro, come posso definirla, è un tipo… Nel senso che in certi orari fa la sua figura e parla quattro lingue»
«Mi stai, per caso, dicendo di trovarmi un’altra? Tra noi è proprio finita, dunque?»
«Ho bisogno di tempo per riflettere»
«Vuoi prenderti una pausa, ma non è che hai un altro? Scommetto che mi tradirai con il primo che passa»
«Ma quale altro, mi hai fatto soffrire troppo. Certe ferite non si guariscono in cinque minuti»
«Non volevo farti del male, lo sai, e la pistola è scarica»
«Presto avrò la forza di perdonarti, ma prima di ricominciare lasciami un po’ di tempo per pensare»
«Ok, è giusto che tu prenda i tuoi tempi, ma non ti ricordi quanto è bello fare la pace, poi?»
«Prometti di non farlo più?»
«Promesso»
«Bravo, prima o poi ci riproveremo, contaci. Ma la prossima volta, ricordati la carta di credito, amore»