Da tre anni, Varese ospita il “Gay Pride”.
Abbiamo intervistato Giovanni Boschini, presidente di Arcigay Varese, che ci ha parlato della manifestazione, aiutandoci a comprendere meglio il suo significato.
Come è nato il Pride?
L’origine risale ai Moti di Stonewall, nel 1969; qui la polizia era solita fare retate nei locali della comunità LGBTI+, e dopo un’ennesima violenta irruzione ci fu la prima ribellione che segnò la nascita dei Pride così come li conosciamo oggi.
A Varese il Pride è nato nel 2016 dalla comunità locale che è confluita in Arcygay Varese, volevamo avere una visibilità che spesso è difficile da avere nelle realtà provinciali come la nostra.
Perché è importante partecipare a questa manifestazione?
Perché qualcuno ci vorrebbe rinchiusi “a casa nostra”, alimentando quel senso di stigma e vergogna che nelle vite delle persone LGBTI+ rischia di essere persistente lungo l’arco della vita. La visibilità è uno strumento potente per esistere e vivere alla luce del sole e per ribadire che i diritti umani devono essere rispettati. Negli anni c’è sempre stata un’ampia partecipazione, anche di persone eterosessuali nostre alleate nella rivendicazione di pari diritti.
Spesso il Pride è definito “esagerato” e per questo criticato, secondo lei per quale motivo?
Perché il Pride dimostra che non siamo tutti uguali e che possiamo essere diversi, anche radicalmente, e ciò può creare delle incongruenze nei confronti di chi accetta una sola visione del Mondo o un solo modo di esprimersi. Questo accade per motivi diversi, anche e soprattutto culturali. Il Mondo non è bianco o nero ma è un’infinita sfumatura di colori.
Un altro motivo è che il Pride è un momento anche di liberazione sessuale. Nel nostro Paese parlare di sesso liberamente è ancora un tabù.
Le persone di Varese come vedono il Pride? C’é sostegno o indifferenza?
È difficile delinearlo in modo netto e oggettivo. In questi anni abbiamo visto un po’ di tutto. Le persone che ci sostengono sono sempre di più ma permangono delle avversità dovute anche alla poca conoscenza dell’evento: le critiche più feroci arrivano da persone che al Pride non ci sono mai state in vita loro. C’è poi un’avversione di fondo fomentata da motivazioni politiche.
Ci sono mai stati episodi di pubblica umiliazione nei confronti dei manifestanti?
Fortunatamente no, se non dei volantini affissi all’ultimo Pride lungo il percorso della manifestazione che insultavano i partecipanti. A parte episodi simili, tutto è sempre filato liscio. L’unica pubblica umiliazione a cui assistiamo ogni anno è quella dei cosiddetti “leoni da tastiera” sui social, che scrivono qualsiasi cosa nei confronti dei partecipanti, come se i social fossero una zona franca in cui si può dire di tutto arrivando anche a distruggere la dignità del prossimo.
Un’altra “umiliazione” a cui dobbiamo assistere ogni anno è il rosario “riparatore” al Sacro Monte, come se fossimo degli aggeggi guasti o non si sa che cosa.
Come si colloca una manifestazione di questo genere nel contesto italiano attuale?
Penso che sia una sfida. Viviamo in un periodo in cui si stanno gradualmente comprimendo alcune libertà e in cui i discorsi d’odio prendono sempre più spazio all’interno del dibattito pubblico e politico. Spero che questo evento si possa realizzare tutti gli anni. È un modo per dare sempre di più voce alla comunità LGBTI+ e al tema dei diritti umani.
Se volete sostenere l’associazione e l’organizzazione della manifestazione che si terrà il 15 Giugno 2019,potete donare alla raccolta fondi online: https://www.varesepride.it/donazione/varesepride2019
Francesca Vanoli
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