Cenni rapidi come supporto alla realizzazione di un murale eseguito dagli alunni della Scuola Media “Dozza” di Bologna. Materiale del mese di luglio 1999.
“La pittura murale è la forma più alta, logica, pura e forte di pittura.
Anche la piú disinteressata perché non può essere convertita in oggetto di lucro personale né nascosta a beneficio di alcuni privilegiati. Essa è per il popolo, è per tutti.”
José Clemente Orozco
La pittura murale fu inventata dai nostri progenitori cavernicoli quando, oltre che la forma della loro mano, facevano disegni e veri e propri dipinti sulle pareti delle grotte in cui abitavano, e vi disegnavano con carboni o con le dita, i piani tattici per abbattere gli animali assai piú grandi di loro, con le loro piccole fragili lance o con le frecce: era una vera e propria caccia, come una guerra (la corrida spagnola ne è il retaggio) solo che era una guerra per vere e proprie necessitá come quella di mangiare, di procurarsi pelli per coprirsi e ossi per fare utensili utili alla vita quotidiana e anche per farne monili. Esempi di queste pitture parietali si trovano dappertutto e intorno a noi ce n’è una bella e importante quantità.
I babilonesi, gli assiri, gli egizi, gli indiani, i cinesi avevano dei veri e propri specialisti per la decorazione e la vera arte pittorica e li facevano lavorare all’esterno delle costruzioni sia sacre che profane: affresco,ceramica,encausto,mosaico erano le tecniche piú comunemente usate. Essi colorivano tutto, sia marmo che pietra, tela da vele e tela da tende con tinte forti e luminose. E ottenevano dipinti di grande eleganza e finezza (pari alle figurazioni vascolari o gli oggetti d’oreficeria) anche se la gamma dei pigmenti cromatici disponibile ai pittori era limitata (ed essi stessi non avevano un’ottica raffinata tanto che, p.es: Omero definisce il mare al tramonto fatto di colore azzurro e porpora non avendo la percezione, né il termine, del viola; forse mai distinto quale colore, né ebbero dato nome a tutti colori dell’arcobaleno.
Da noi, nel bacino del Mediterraneo, furono i pittori greci immersi nella cultura greca spostatasi ad occidente, che fecero fiorire l’arte nell’Impero di Roma sia nella scultura che nella pittura, oltre che nell’artigianato. A Pompei, a Ercolano e a Roma (dopo il tramonto della civiltá etrusca) ci sono esempi egregi della loro bravura.
Peró l’arte nata col cristianesimo fu piú espressiva di quella “greca”, ridotta ad essere chiusa in una formula d’accademia.
Ma le “grottesche”, tipica invenzione figurativa di una cultura orfica che faceva dell’aruspicismo una fonte di certezze e del sogno una scienza: la magia rispettata e accettata, e cioè l’irrazionale innalzato a livello razionale; queste grottesche furono poi usate nella pittura per secoli, in tutti i momenti della storia in cui la ragione vera delle cose è andata in crisi (anche oggi le grottesche si usano, anche se trasformate e trasfigurate, nei manifesti, nelle pagine delle riviste, nelle sigle televisive per il carattere surreale proprio e per loro i suggerimenti mefistofelici).
L’arte murale cristiana nata nelle catacombe, ha il suo acme intorno al V secolo quando l’Impero romano ebbe la sua capitale stabilizzata a Bisanzio, e cioè quando i mosaicisti bizantini portarono la loro perizia in tutta l’area del Mediterraneo (v: Galla Placidia e San Vitale a Ravenna); saranno poi al servizio dell’Islam che avrá occupato la Penisola Iberica e la Sicilia, e poi al servizio dei Re normanni (v: la Cappella Palatina, il Duomo di Monreale a Palermo, e il Duomo di Cefalú e altro).
Saranno i frati Comacini a mantenere viva sotto la pesante figurazione longobarda, l’antica manualitá facendo i razionali labirinti su pavimenti di chiese e palazzi: tarsie di pietre e di marmi sotto i piú antichi mosaici parietali (v: San Marco a Venezia, Santa Maria in Cosmedin –appunto- a Roma).
Sotto l’ufficialità dei grandi lavori, rimase come fuoco sotto la cenere, un genere d’arte che dai sepolcreti ipogei della gente cristiana venne alla luce, esplose vivida: l’arte espressa dai pellegrini, dai viandanti: gli affreschi nelle piccole pievi, negli “spedali”, nei refettori per ricompensare un letto o un piatto di lenticchie o per pura devozionalità anche nei santuari isolati, alcuni costruiti lungo le strade dei pellegrinaggi per la via romea o quella francigena o quella che rasentando i Pirenei e la costa basca menava a Santiago di Compostella (Campus Stellae); un’arte spontanea e fideistica, un pó naive che peró talvolta ci meraviglia per bravura artigianale (di mestiere) e la capacità espressiva di questi ignoti artisti.
Piú tardi si chiamó “lavorare alla greca” tutta l’arte successiva a quella “romanica” (degli operai-schiavi che costruivano chiese e dei pittori-deambulanti verso i grandi santuari) – e gotica si chiamó quella del nordeuropea fatta in “argot” : il nuovo stile dalle origini misteriose, fino alla rivoluzione di Giotto che disegnó e dipinse centinaia di metri quadrati ad affresco, figurando con gli occhi e la mano intenti alla naturalità, portando il pensare e il fare artistico fuori dagli schemi rigidi della tradizione che faceva divenire “simbolo” tutto ció che si figurava in pittura. Giotto insieme e contemporaneamente a Pietro Cavallini, dipinse il mondo tale e quale esso appariva con ombre e spazi colti nell’osservazione della natura, dell’ambiente e della società umana circostante.
Giotto ebbe successo perché la società era pronta a ricevere il suo messaggio di verità (non come è stato ed è per Picasso che ancora c’è chi lo rifiuta). Giotto trionfó:…Or di Giotto è il grido… dice Dante nella “Commedia”, e il suo stile cosí nuovo si diffuse ovunque perché la società e la sua cultura erano da un bel pó di tempo mature alla “novità” e non lo sapeva, erano pronte a una nuova visione della vita, una nuova filosofia, una nuova morale (di ció furono precursori San Francesco e Federico II e l’assetto comunale delle amministrazioni civiche, e le strategie politiche).
La pittura di Giotto fu chiamata “romana” ed ebbe sviluppi stupefacenti in tutta l’area del Mediterraneo mentre a nord (Borgogna, Fiandra, alta Germania e paesi slavi) gli artisti rimasero fedeli alle antiche formule figurative che si adeguavano a quadri di piccole dimensioni e alle miniature dei “libri d’ore”, e che peró si sfogavano nell’arte degli arazzi che ebbe grandi sviluppi.
In Italia la pittura murale nelle chiese come nei palazzi pubblici e privati, fu motivo di rinnovamento per il potere del papato e dei “signori” e fu una rivincita sullo stile gotico dell’architettura; stile snello, arioso, ardito, in contrasto di ció che si poteva costruire in Italia paese dei terremoti. Ma le vetrate delle chiese gotiche si possono considerare a tutti gli effetti, delle vere e proprie pitture murali sia per le storie che narrano al popolo e per le soluzioni estetiche che mostrano, ma anche per la vastità e difficoltà del manufatto.
Noi italiani possediamo cicli di affreschi che meravigliano il mondo e l’elenco dei pittori che dipinsero ettari di capolavori è talmente nutrito che non è possibile impararlo a memoria.
Artisti d’ogni Paese sono venuti da noi per farsi, come si dice, gli occhi e sono sempre rimasti “influenzati” esteticamente dalla “fantasia” dei nostri artisti, e hanno diffuso lo stile “italiano” dappertutto per secoli.
Il Maestro di Santa Maria Novella, Masaccio, Simone Martini, i Lorenzetti, gli Zavattari, Nardo di Cione, Pisanello, Mantenga, Piero della Francesca, Luca Signorelli, Michelangelo, Beato Angelico, Raffaello… fino al Correggio, al Piazzetta, a Giovan Battista Tiepolo, fu tutto un operare su ardite impalcature, a vertiginose altezze: Giacomo Della Porta, Andrea Pozzo….
Poi nel XIX sec., sconvolto da tarde rivendicazioni medievali, dalla rivoluzione borghese e da conflitti di nazionalità mentre, per contrasto vi fu l’industrializzazione su invenzioni tecniche con il susseguente arricchirsi della classe mercantile e imprenditrice che tende sempre a far proprio ogni valore e ogni bene, la pittura murale deperisce di importanza e solo la Chiesa che difende il suo “primato”, ha dato pareti da dipingere senza andare per il sottile e cosí assoldando pittori “pompiers” e accademici melensi privi di ingegno.
Furono i governi totalitari (Germania nazista, Italia fascista, Russia sovietica ecc.) a offrire muri ma solo per pittura di propaganda politica antidemocratica e guerrafondaia o ciarlatanesca.
Ma furono i pittori dell’America latina a sentirsi eredi di ció che aveva trionfato in Europa, (in Italia, Francia, Spagna, ecc.) che lanciarono la sfida ai grandi d’ogni Paese, e cominció al di lá dell’Atlantico una esaltante stagione di grande arte.
Dopo la Rivoluzione messicana di Pancho Villa e di Emiliano Zapata, vi fu un ministro della Cultura del governo, José Vasconcelos, che volle dare ogni possibilitá ai pittori messicani stipendiandoli come funzionari dello Stato: Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros, José Clemente Orozco, sono i tre piú famosi di questi affrescatori. Tra l’altro essi fondarono un’associazione tra artisti e tecnici dell’arte; nello Statuto di questa associazione era scritto che essa era nata “per difendere gli interessi del proprio lavoro- e per guardare un posto stabile all’Arte Sociale” ed è quindi “necessario conquistare i muri, riconquistare il diritto di parlare al popolo”…
Questi grandi artisti non solo si guadagnarono gloriosamente lo stipendio, ma ebbero numerosi allievi e un’infinitá di imitatori che diffusero il loro stile e la loro etica.
Al contrario della pittura murale che è per sua logica una pittura di proprietà comune a tutta la collettivitá, il “quadro da cavalletto” è destinato a singoli individui danarosi che lo privatizzano,che è poi come collezionare monete e guardare francobolli; è un dipingere facile e rapido e che, tranne per i genii della pittura per i quali vivono di luce eccelsa i Musei, è una pittura da monchi, da miopi, rinunciando a lavorare con tutto il braccio, a piccoli colpi di pennello, a piccole quantità di colore, mentre lavorare a dei muri significa lavorare con tutto il corpo, a fronte alta e da distante con complicate tecniche di molto mestiere sempre emozionante e affascinante; per questo lo scrittore Rodriguez Peña ha scritto: “L’artista è un ministro di Dio, ma senza poteri decisionali…”.
Fu con questo pensiero che Aurelio C. nel 1970 si accinse alla pittura di un murale di 3×20 m. nella Casa del Popolo di Valenza Po, riprendendo per primo dopo molti anni di silenzio un dialogo d’arte interrotto dal fascismo, chiedendo alla gente del posto di partecipare alla progettazione perché “se tutti sapevano La Crocifissione e La Strage degli Innocenti, nessuno sapeva d’altro” e vi furono numerose conversazioni con coloro che lo avevano chiamato per dipingere, e dopo alcuni mesi fu dato il via a “La Vita Italiana al Socialismo”. In quelle conversazioni furono studiati i temi che Aurelio poi disegnava e i particolari del dipinto che, alla fine, risultó essere un documento esauriente dello stato culturale e mentale di tutti gli orafi di Valenza, abilissimi artigiani dei metalli preziosi e delle gemme, ma anche del pittore.
Poi furono gli operai di una fabbrica di carrelli elevatori di Carpi, che vollero un murale per la loro mensa, e nacque con le stesse modalitá di Valenza e con il consenso di tutti, un altro dipinto: “Il Lavoro Verso il Vero 1° Maggio” di 3×15 m.
E mentre Aurelio veniva incaricato di altri murali in Italia e all’estero, si diffondeva in Italia il gusto, il piacere dell’opera pubblica: il dialogo con la gente e nacquero ovunque murali belli e meno belli, ma che riportavano fuori la tradizione del dipingere davanti a decine di occhi paralleli davanti a una pittura esposta perennemente e fatta di temi legati alla vita, alla realtà ai desideri collettivi: tutto un rinnovato breviario di teologia pratica e di sogni laici.
Mario De Micheli, storico dell’Arte, scrivendo della Brigada “Ramona Parra”, che nel Cile fiancheggió il governo socialista di Salvador Allende (Ramona Parra fu uccisa mentre dipingeva), scrisse:…non la pittura d’azione, ma la pittura come azione: pittura d’intervento, pittura di agitazione, pittura d’emergenza. Forse partendo da qui sarebbe stato possibile, sarebbe possibile, svolgere un discorso plastico di larga comunicazione non intristito dai luoghi comuni che tanto spesso mortificano la propaganda visiva dei partiti popolari… e la rende simile alla propaganda commerciale.
La “Ramona Parra” era costituita da giovani che entusiasti del nuovo corso cileno sottratto al predominio di Wall Street, andavano dipingendo sui muri immagini di critica contro il colonialismo capitalista e di entusiasmo e di speranza per le sorti future del loro paese; gli Inti Illimani coi loro canti diffusero quei sentimenti e quelle certezze in tutto il mondo e i murali della “Ramona” furono ovunque imitati negli anni settanta.
Il grande pittore Diego Rivera, pressoché sconosciuto da noi, che ha dipinto muri per tutta la vita facendo delle storie del suo Mexico due o tre “Cappella Sistina”, scrisse a proposito dei murali: Una vera pittura murale è necessariamente una parte funzionale di un edificio, una somma sintetica ed espressiva delle sue funzioni umane generali e particolari, un elemento di unione e di amalgama tra quella macchina di comportamenti che è l’edificio, e la societá umana che la utilizza e ció, alla fine dei conti, è la sua vera motivazione e ragione di esistere.
E Pablo Picasso: L’Arte è una menzogna che ci permette di conoscere la verità.
E Anais Meneses, poetessa nicaraguese con un suo verso ci dice: Una pennellata di azzurro è piú espressiva di un cielo sereno.
Ora va tanto di moda dipingere e scrivere in molte lingue e in modi diversi la parola PACE come se solo “altri” volessero interromperla e volere la guerra, quando invece la pace è solo un lusso dei ricchi che vogliono godersi da conservatori i loro agi senza chiedersi come mai se li sono procurati e senza, soprattutto, domandarsi perché tanta parte del mondo reclama giustizia (senza la quale non ci sarà mai pace ma sempre conflittualità).
Il filosofo della Scienza, Ludovico Geymonat a questo proposito ha scritto:…Considera sempre il pacifismo un’utopia. Questa corrente pacifista cosí spinta e cosí ingenua, mi apparve sempre incapace di comprendere le ragioni storiche della guerra e dei conflitti. In questo senso il pacifismo mi sembrava reggersi (mi sembra si regga tuttora) su una mera astrazione da non prendersi sul serio… Compresi abbastanza presto che lo sviluppo dell’umanità sarebbe stato dominato da questo realismo e questa constatazione mi permetterà di comprendere adeguatamente anche il governo tirannico dell’ Unione Sovietica attuato da Stalin….
Pietro Cascella ha eseguito grandi mosaici, Sergio Michilini in Italia, in Nicaragua e in Messico ha realizzato murali importanti come Felice Pignataro li ha realizzati a Napoli e in Campania e nelle Marche.
Per questi antecedenti bisogna sforzarsi ad immaginare figurazioni che stimolino la critica alla società panciafichista,che aiutino l’internazionalismo fraterno, la cultura planetaria e un autentico altruismo. Ad esempio (e ció è indirizzato ai graffittari, ai cosiddetti writers) a dipingere, a dipingere, a scrivere il nome “Guatemala” pensando ai cinquecento anni di oppressione, di persecuzione, di uccisioni che il popolo Maya subisce.
Graffito…Graffire… E’ una tecnica e un’espressione nata intorno alla fine del 1971 nel quartiere Bronx di New York.
Furono dei ragazzi negri che vollero uscire dall’anonimato in cui la società li costringeva con l’emarginazione, l’analfabetismo e la miseria; tutto questo li fece esplodere clamorosamente in quella forma pacifica e sublime che subito fu chiamato graffittismo:”Out to boom”: andiamo a bombardare, fu questo il loro motto e il loro fine poetico. Bombardare scrivere il proprio nome, l’unica loro proprietà e la loro unica certezza, scriverlo e farlo affiorare, farlo girare per la città, scriverlo in modo “grottesco”, truccato, con autoironia, satirismo, demonismo tanto da interessare la immensa metropoli; scriverlo non solo sui muri o ancor meglio, sui vagoni della metropolitana; scriverlo su pareti solo acrobaticamente raggiungibili e con ghirigori e con un gergo solo dagli stessi artisti conosciuto.
E’ nata una guerra morale ed etica tra chi vuole la città intatta (a parte i segnali stradali, le antenne paraboliche e non, i manifesti pubblicitari, le orribili insegne dei negozi, gli striscioni e le bandierine e le bandiere), chi la vuole ipocritamente pulita (peró tollerate le defecazioni dei cani), e chi vorrebbe che “la città” si accorgesse anche di lui/lei, di loro, si rendesse conto che esiste nelle sue sentine la sua sconosciuta personalità, la sua individualità, la sua creatività.
Questo nelle metropoli mostruose dove gli esseri umani sono come vermi nella mela,… che non hanno orizzonte per la loro vita.
Ma da noi quelle condizioni subumane sono meno soffocanti e meno dolorose. E quindi non ci sono ragioni per tanto spreco di bombolette e di tempo notturno sui muri, per coprire tante superfici e soprattutto, non si giustifica il non-senso artistico di tante scopiazzature “dall’americano” che, come abbiamo detto, scrivevano il loro nome per salvare la loro etica, la propria individualità, scampare il loro carattere da un sistema economico che li avrebbe voluti soccombenti nei quartieri lontani dalle abbienze e invece carichi di povertà, e molto lontani da una certezza di vita, da ogni cultura di dignità.
Quindi i graffiti italioti vanno presi come un’esercitazione gaglioffa, un’attività mascalzona, uno sberleffo consumistico alla società dei consumi (e quindi anche agli stessi graffittari), poiché la gente, i giovani che lavorano veramente e con serietà, non cadono nel gusto della deturpazione e della profanazione.
E’ di questi writers solo una ricerca di estetica che non ha giustificazioni culturali proiettive; è il loro un fare identico alla scelta della tintura per capelli o il colore di una cravatta; solo futilità grafiche che possono irritare poiché non portano con sé nessuna istanza che costituisca una problematicità sulla realtà giovanile.
Graffito: risale a grafium, lo stile per incidere le tavolette di cera usate per scrivere fino all’invenzione della carta.
Graffito: incisione su pietra, metallo, ceramica; incisione preistorica, documentazione di epoche lontane sia che rechi figure vere e proprie oppure segni di natura astratta o simbolica.
Graffito: sostantivo e oggettivo: che graffia, che ferisce, scritture e firme che imbrattano e segnano scalfendoli, pietre, affreschi e monumenti. Talvolta sono ció che resta di episodi del passato, rievocati o rivissuti con nostalgia quali cose incise nella mente.
Graffittismo: espressione grafica realizzata in forma di immagini aggressive sui muri urbani e negli spazi sotterranei delle ferrovie e delle metropolitane (le caverne dell’ uomo contemporaneo) o su manufatti che portino la sigla, l’immagine. L’ornato o la protesta dipinte con quella tecnica, portati allo sguardo di tutti e mandato lontano come fosse un messaggio chiuso in una bottiglia affidata al mare.
Writers: coloro che scrivono.
Taggers: coloro che lasciano segni.
Klotter: così vengono chiamati in Svezia.
A cura di TALAMURO-ITALIA (Taller Latinoamericano de Muralismo e Integración Plástica)
Nota: “Questo scritto è stato utilizzato come supporto alla realizzazione di un murale eseguito sotto la mia direzione, dagli allievi della Scuola Media “Dozza” di Bologna. Ho trascurato di citare i graffiti (a due o piú intonaci) tanto usati nel tardo ‘500 e nello stile ‘nouveau’ per non confondere”….
Aurelio C. – Bologna, Luglio 1999
ALCUNI SITI SULLA TECNICA DELL’AFFRESCO
Sandro Martini – La tecnica dell’affresco.
Dr. Alessandro CEREGATO – La tecnica dell’affresco.
La tecnica di realizzazione dell’ affresco.
… insiemi agli alunni della 3 M. A ciascun alunno è stato dato il materiale occorrente
per sperimentare la tecnica dell’affresco su un riquadro di cartongesso. …