Muralismo, Memoria e liberazione- “Popoli” – Mensile internazionale dei Gesuiti- Dicembre 2005-n.12
Testo di Mauro Castagnaro
Il muralismo come forma dell’espressione plastica universale ha le sue origini nelle immagini dipinte sulla volta delle caverne agli albori dell’umanità. La pittura murale fu, quindi, il primo strumento grafico di comunicazione, più antico della scrittura, fin dal quaternario, a partire da Altamira, in Spagna, e Lascaux, in Francia. Queste precoci “espressioni murali”, che inizialmente avevano un carattere magico-religioso, finirono per perdere col tempo questo significato, ma il linguaggio plastico utilizzato si perpetua nelle differenti culture nelle diverse epoche storiche.
Nelle antiche civiltà come l’Egitto, all’interno di templi e tombe, la pittura murale costituisce, data la sua sequenza illustrativa, una narrazione degli eventi storico-mitologici, rappresentati dentro un formalismo cerimoniale e simbolico.
Nell’arte caldeo-assira, i bassorilievi di Khorsabad e Ninive hanno lo stesso carattere narrativo; cacce, cerimonie religiose, leggi e codici vengono presentati in una successione di immagini dove il visuale e il concettuale sono intimamente uniti.
Gli affreschi del palazzo di Cnosso, a Creta, riflettono non solo la vita di corte, ma anche usi e costumi di quel popolo. Essi mostrano, inoltre, una marcata tendenza al disegno decorativo, espressivo e simbolico, frutto di un atteggiamento eminentemente vitalista e non convenzionale.
Nell’arte greco-romana, prendendo come esempio gli affreschi di Pompei, mimesis (fedeltà alla natura) e metexis (relazione delle cose sensibili con l’idea) sono presenti nella rappresentazione esclusiva dell’essere umano: “uomo misura di tutte le cose”. I temi eroici e mitologici riflettono gli ideali dell’arte classica: perfetto dominio della forma, equilibrio senza tensione né eccesso (sofrosyne), bellezza, armonia e proporzione.
Durante il Medioevo i mosaici bizantini, gli affreschi romanici e le vetrate gotiche propongono, attraverso immagini come il Pantocrator, la Theotocos, i Tetramorfos, il ritualismo ecclesiastico, lo spirito ieratico, solenne e autoritario, un formalismo cerimoniale che evidenzia un’arte al servizio della religione.
Nel Rinascimento, tuttavia, si intravede chiaramente, attraverso la pittura murale, una nuova concezione del mondo e dell’uomo. Giotto e Michelangelo rappresentano le persone come esseri umani e non come simboli, attraverso un naturalismo razionale senza emozioni mistiche. Nelle loro composizioni monumentali “narrano” ciò che anteriormente era stato inspiegabile e inesprimibile con mezzi pittorici: un’arte al servizio dell’uomo e fatta a sua misura, un’arte come forma di educazione morale e intellettuale dell’uomo, il quale torna a essere nuovamente centro dell’universo, come nell’antichità classica.
A partire dal Barocco, la pittura murale entra in grave crisi, soppiantata da quella da cavalletto, mentre si consuma il divorzio tra architettura, scultura e pittura, per cui la prima rimane “nuda” con la sua funzionalità meccanica, la seconda perde la policromia e il ruolo architettonico, la terza si trasforma in piccolo oggetto per il mercato e l’intimità domestica.
Il muralismo messicano
Questi processi vengono sottoposti a critica agli inizi del XX secolo in Messico, dove la Rivoluzione favorisce la ricomparsa di un’arte la cui tecnica, secondo José Clemente Orozco, uno dei suoi massimi esponenti, insieme a Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros, “si era perduta per quattrocento anni”. Dopo quattro secoli, il muralismo irrompe di nuovo nella storia della pittura propiziando un’arte popolare finalizzata a educare le masse in chiave nazionalista e progressista. Secondo Orozco “distrusse molti pregiudizi e servì per vedere i problemi sociali da nuovi punti di vista”. Al contempo tornano a lavorare insieme architetti, pittori, scultori, ceramisti, mosaicisti e urbanisti. Nella stessa direzione di riunificare le capacità intellettuali di formulare idee, disegni e progetti con le abilità manuali di realizzare opere e oggetti, ricomponendo attività artigianale, arti plastiche e architettura, si muovono, in quegli anni, l‘Istituto “Bauhaus” di Walter Gropious e l’opera della spagnolo Antoni Gaudí.
In sostanza, attraverso tutta la storia, la pittura murale si è definita per il suo carattere “sociologico”: le sue variazioni di contenuto dimostrano come le condizioni e le relazioni sociali abbiano modificato la funzione e il senso dell’arte nel tempo. Nel XX secolo l’avanguardia del muralismo, costituita dalla scuola messicana, trasforma il pubblico consumatore dell’arte, tipico dell’economia capitalista, in un soggetto attivo che si identifica con la problematica sociale e costruisce la propria identità nazionale. Pur muovendosi in una società capitalista, il muralismo messicano possiede lo spirito della creazione collettiva e i fini dell’arte politica che si situa nello specifico contesto sociale, caratterizzandosi sul piano estetico per la monumentalità e il dinamismo. La lezioni dei “Tre grandi” trova epigoni in tutto il continente, dall’Uruguay (Carlos Gonzalez) all’Argentina (Antonio Berni), dal Venezuela (Héctor Poleo) al Brasile (Cândido Portinari), ma è in Cile, durante il governo di Unidad Popular (1970-73), che il muralismo conosce una nuova primavera, coi lavori delle brigate “Romana Parra”, “Inti Paredo” e “Elmo Catalán”, formate soprattutto da militanti, con l’appoggio occasionale di studenti e artisti della statura di Roberto Matta. Diversamente dai murali messicani, di carattere permanente, quelli cileni sono stati strettamente legati al momento ed eminentemente collettivi, quasi scandendo l’evolversi della situazione sociopolitica.
Il muralismo nicaraguense
Proprio questi connotati spiegano, pur in assenza di una vera tradizione muralista nazionale (anche se non mancano “espressioni murali” fin dall’epoca precolombiana, come gli abbondanti petroglifi, e a partire dal terremoto del 1972 vengono realizzate una serie di pitture murali originali, che combinano l’influenza europea di Miró e Paul Klee con elementi dell’arte autoctona), il grande boom del muralismo in Nicaragua durante gli anni ’80, dopo il trionfo della rivoluzione sandinista che nel 1979 abbatte la dittatura di Anastasio Somoza. La mobilitazione ideale suscitata dalla nuova situazione politica e la necessità di ricostruire edifici pubblici e abitazioni distrutte durante la guerra di liberazione sprigionano una straordinaria creatività, alimentata dalla diffusione di strumenti espressivi resa possibile dalla Crociata nazionale di alfabetizzazione. La pittura murale viene sviluppata in forma organizzata come una maniera di orientare le arti plastiche, collocandole alla portata del popolo, secondo gli intenti divulgativi e comunicativi già sperimentati in Messico e Cile.
Dal punto di vista rivoluzionario, il murale si presenta come il mezzo più idoneo a plasmare artisticamente idee ed eventi sociali, politici e culturali: incorpora nella sua esecuzione professionisti, dilettanti e persone semplici, rende il popolo protagonista della rivitalizzazione dell’arte nazionale, mobilita gli artisti a favore di un progetto di trasformazione sociale, diffonde precisi contenuti culturali e politici, trasforma l’individuo da spettatore passivo ad attore creativo.
La rivoluzione offre il contesto sociopolitico ideale per lo sviluppo di queste idee, che si coagulano per qualche anno nella Scuola nazionale di arte pubblica monumentale “David Alfaro Siqueiros”, fondata dall’italiano Sergio Michilini, ma dipendente dal ministero della Cultura (e perciò unica nel continente) guidato da p. Ernesto Cardenal. Essa prevede l’insegnamento della ceramica monumentale, delle tecniche di pittura murale e delle forme d’inserimento nello spazio architettonico, nel quadro di un progetto che mira a integrare architettura, scultura e pittura nel contesto urbano, a ricomporre la frattura tra arte e artigianato (la prima era stata ridotta a pura attività accademica e la seconda a mera produzione di manufatti), da ricondurre nello stesso “processo creativo quotidiano della produzione per la domanda sociale, pubblica o privata”, e a formare professionisti delle arti plastiche capaci di creare opere di grande significato espressivo, valore tecnico e funzione sociale, in vista della “ricostruzione umanizzata degli edifici e degli spazi delle città (piazze, strade, marciapiedi, parchi, ecc.)”. Ne derivano realizzazioni di straordinaria audacia intellettuale, come le pitture murali della Base militare di Asturias, realizzate – nel pieno della guerra scatenata dai gruppi controrivoluzionari col sostegno degli Stati Uniti – dagli artisti-soldati Federico Matus e Reynaldo Hernandez, che la trasformano nella prima caserma del mondo completamente dipinta in policromia per favorire il riposo psicologico dei combattenti, inviare un messaggio di sfida ai satelliti-spia ed esprimere il desiderio di pace che qualsiasi opera artistica sottintende; altre, ancora più ambiziose, rimangono allo stadio di progetto, come l’immenso ritratto orizzontale di Sandino – vero esempio di “arte pre-astronautica” – che avrebbe dovuto essere costruito sulla superficie del lago di Managua con materiale galleggiante (bottiglie vuote, pezzi di plastica, ecc.) dipinto, agganciato nelle varie parti e ancorato sul fondo.
Tuttavia la limitazione della possibilità di accedere a mezzi e conoscenze a causa dall’aggressione condotta dai contras, e il cambio di governo provocato dalla sconfitta del Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) alle elezioni del 1990 impediscono il consolidamento del muralismo nicaraguense, che oggi prosegue nel lavoro di alcuni suoi singoli esponenti e nelle opere sopravvissute all’inclemenza del clima, all’incuria e alla furia distruttrice di quanti hanno voluto cancellare le vestigia di quella fase storica.
Dalla parte degli oppressi
Quella nicaraguense è stata la prima rivoluzione di orientamento socialista che ha visto la massiccia partecipazione di cristiani, spinti a questo impegno dalla propria fede vissuta alla luce di una riflessione teologica e all’interno di un’esperienza ecclesiale profondamente rinnovate. Ciò ha avuto ricadute sull’arte sacra e, alla luce di quanto detto sopra, ha trovato nella pittura murale uno strumento espressivo particolarmente congeniale, in questo innovando rispetto ai casi del Messico (dove gli ecclesiastici erano solitamente rappresentanti al fianco degli esponenti dell’oligarchia e dei latifondisti) e del Cile.
In Nicaragua, infatti, il muralismo incorpora l’elemento religioso come fattore di trasformazione sociale e risulta strumento di espressione di una fede cristiana vissuta e letta “dalla parte degli oppressi”. Ve ne sono esempi tanto nei murali cosiddetti “congiunturali” (ciòè pensati per un’occasione specifica) quanto in quelli progettati come permanenti. Basti pensare, nel primo caso, al “Murale di benvenuto” su pannelli mobili realizzato in occasione della visita di Giovanni Paolo II in Nicaragua nel 1983 dai cristiani rivoluzionari di Managua e collocato in uno dei punti più visibili della Piazza 19 luglio, dove si tenne la Messa campale. Circondato dal tipico paesaggio nicaraguense, con laghi e montagne, nel dipinto viene rappresentato il popolo mentre porta uno striscione azzurro e bianco (colori della bandiera nazionale), con la scritta “Giovanni Paolo: benvenuto nel Nicaragua libero grazie a Dio e alla rivoluzione”, in un corteo-processione dal quale spiccano, a sinistra, la figura di San Domingo de Guzmán, patrono di Managua, a destra, l’immagine dell’Immacolata Concezione (la “Purísima), simbolo della tradizione mariana nicaraguense, e, in mezzo, tre colombe bianche, emblema della pace, insieme alle mani in alto in atteggiamento di orazione. Il murale coniuga una rappresentazione primitiva della realtà (intenso disegno di contorno con linee semplici, colorazione piatta con ridotta variazione tonale), prospettiva frontale e giustapposizione di figure in forma decrescente, bilanciata mediante un equilibrio di masse, con un effetto di simmetria e staticità.
Destinati, invece, a maggior durata nel tempo, sono, invece, per esempio, i murali dipinti nel 1991 all’Università centroamericana (Uca) di Managua, retta dai gesuiti, per commemorare la strage dei sei confratelli e delle due donne di servizio massacrate all’ateneo gemello di San Salvador dall’esercito locale alla fine del 1989, e nel 1992, quinto centenario della scoperta-conquista dell’America, sui muri della chiesa di Waslala, un remoto villaggio dell’interno, in cui la tradizionale iconografia dei martiri e dei santi sofferenti viene ripresa per ricordare lo sterminio dei nativi per mano degli spagnoli e la resistenza indigena contro gli invasori, rappresentando tanto le conversioni attuate dai missionari con l’appoggio dei conquistadores quanto la difesa degli indios da parte di alcuni religiosi.
Santa María de los Angeles
Ma “il massimo esempio del muralismo nicaraguense”, secondo Dolores Torres e Mayra Luz Pérez Diaz, rispettivamente direttrice della Facoltà di Arte e lettere della Uca e docente di Letteratura e teoria del cinema presso lo stesso ateneo, è “il complesso dei murali della Chiesa di Santa Maria de los Angeles”. Si tratta di un “ciclo pittorico di integrazione plastica”, cioè di un complesso di pitture murali, altorilievi e sculture in ceramica realizzati nel 1982-1985 da un’équipe di artisti professionisti italiani (tre pittori, un architetto e un ceramista) e di una trentina studenti nicaraguensi della Scuola nazionale di arti plastiche sotto la direzione di Sergio Michilini, per un totale di 680 metri quadri, così suddivisi: un murale absidale di 150 metri quadri, murali laterali di 90 metri quadri e 440 metri quadri di policromia e integrazioni plastico-decorative, in cui si alternano espressionismo moderno e classicismo rinascimentale, si armonizzano ceramiche invetriate e materiali di recupero, si coniugano realismo e allegoria, nel contesto di una grande ricchezza cromatica e di una ricercata varietà di prospettive che conferiscono intensità e dinamismo. L’opera fu voluta da padre Uriel Molina, religioso francescano che allora era parroco del barrio Riguero; attorno a lui si era formata negli anni ’70 una comunità cristiana che aveva attivamente partecipato alla lotta contro la dittatura di Somoza, contando tra i propri membri varie decine di morti per mano della Guardia nazionale e diversi leader poi divenuti dirigenti del governo sandinista. “In Italia – spiega p. Molina – avevo imparato che gli affreschi del Medioevo erano la Bibbia dei poveri. Al trionfo della rivoluzione ho pensato di fare una chiesa nella quale il nostro popolo potesse rivivere la propria storia di liberazione attraverso la pittura”. I murales, infatti, ripercorrono la storia del Nicaragua, riletta alla luce della “Chiesa dei poveri”, di cui sono richiamati personaggi ed eventi scelti attraverso un confronto approfondito tra gli artisti e i fedeli.
Sopra l’ingresso principale vi sono decorazioni e sculture policrome che raffigurano due sacerdoti maya, a destra e a sinistra rispettivamente della dea del mais e di quella della fertilità, mentre al centro sta la coppia cosmogonica, Tamagastad e Cipaltonal, “quegli dei – disse p. Molina all’inaugurazione – che furono distrutti dalla cultura ispanica e noi restituiamo per incorporare la nostra cultura precolombiana alla risurrezione di Cristo, fine e utopia della storia”. All’interno della chiesa, dietro l’altare, c’è il murale centrale, detto “La risurrezione”, in cui gli elementi tipici della natura (la vegetazione tropicale, il caffè, il cotone, il mais), della realtà sociale (la raccolta della canna da zucchero, l’allegria dei bambini, le popolazioni indigene della Costa atlantica) e della storia politica (le madri degli eroi e dei martiri della rivoluzione, la colomba della pace, l’emancipazione della donna) del Nicaragua fanno corona al popolo che porta la croce dell’oppressione imperialista e da cui ascende al cielo un Cristo dai lineamenti giovanili e tipicamente nicaraguensi. Il grande dipinto si integra senza soluzione di continuità con una pavimentazione in ceramica di 25 metri quadri, da cui emergono l’altare, un leggio e un fonte battesimale, dello stesso materiale nell’originale.
Nei murales che occupano le pareti laterali, riempiendo gli spazi dal pavimento fino al tetto, si ritrovano la resistenza alla dominazione coloniale spagnola, la lotta per l’indipendenza nazionale contro l’ingerenza degli Stati Uniti e la rivoluzione per abbattere la dittatura dei Somoza, richiamando in particolare la partecipazione dei cristiani a questi momenti della storia patria. Si inizia così con la rappresentazione, alla sinistra del portale, dello scontro tra Gil González Dávila, il conquistador che nel 1523 prese possesso del paese per conto del re di Spagna, e Diriangen, cacique protagonista della prima rivolta indigena, e, a destra, di Nicarao, il principale capo indigeno al momento dell’arrivo degli spagnoli, subito convertitosi al cristianesimo, ma poi ribellatosi agli invasori e da loro ucciso. Scorrono poi le immagini dei due profeti difensori degli indios nel XVI secolo: fra’ Bartolomé de las Casas, che rimase qualche anno in Nicaragua denunciando gli abusi cui i colonizzatori sottoponevano gli indigeni nelle miniere, fino a essere espulso dal governatore Rodrigo de Contreras, e fra’ Antonio de Valdivieso, terzo vescovo di Leon, la cui predicazione a favore della libertà dei nativi gli valse nel 1550 la morte per mano dei figli dello stesso Contreras.
Questo murale, dove il religioso alza le braccia implorante cercando di intercedere per l’indio che giace a terra minacciato da un cavaliere in sella a gigantesco destriero, mostra l’influenza del muralismo messicano, evidente nel cavallo che ricorda “Il centauro della conquista” di Rivera e nell’indio ferito che evoca l’“Uomo colpito con lancia” di Orozco.
Quindi, inframmezzati dai murales dedicati al “Cristo contadino”, dal trittico intitolato “San Francesco costruisce la chiesa dei poveri” – dove il “poverello d’Assisi” appare prima “nicaraguanizzato” mentre sostiene un guardabarranco (uccello locale) e poi mescolato agli operai come uno dei lavoratori – e da un’originale Annunciazione cui il trompe l’oeil dà l’impressione di rilievo scultoreo più che di pittura, sono dipinti mons. Simeón Pereira y Castellón, primo vescovo autoctono e autore nel 1912 di una lettera al cardinale di Baltimora, James Gibbons, in cui chiedeva la fine dell’intervento militare statunitense nel paese e il rispetto dell’autodeterminazione dei popoli centroamericani, e p. Azarias Pallais, precursore della “opzione per i poveri” nella prima metà del XX secolo e critico vigoroso della dittatura somozista; quindi si arriva ai personaggi più rappresentativi della lotta di liberazione (definita comunque in chiave antieroica “storia delle formiche”), da Augusto Cesar Sandino, vero “padre della Patria” e protagonista dal 1926 al 1933 di una rivolta che costrinse i marines ad abbandonare il Nicaragua, a Carlos Fonseca, fondatore nel 1961 del Fsln, caduto in combattimento nel 1976, dai preti guerriglieri Camilo Torres, promotore dell’Esercito di liberazione nazionale in Colombia, ucciso nel 1966, e Gaspar García Laviana, entrato nell’Fsln nel 1977 e morto l’anno dopo in uno scontro a fuoco con la Guardia nazionale, responsabile nel 1979 anche dell’assassinio di Luis Alfonso Velázquez, un bambino di 9 anni simbolo della resistenza civile, qui paragonato al biblico Davide che, armato solo della propria forza morale e dei propri ideali, si contrappone al Golia del militarismo somozista. Vengono, infine, ricordati mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, ammazzato sull’altare dagli “squadroni della morte” dell’oligarchia locale, e i coniugi Maria e Felipe Barreda, agenti di pastorale assassinati dai gruppi armati antisandinisti nel 1983 perché “cristiani e rivoluzionari”.
“Alcuni si sono affrettati a denunciare la ‘politicizzazione’ e ‘profanazione’ del tempio”, commentava il teologo Giulio Girardi. “Gli stessi che hanno sempre considerato normale la presenza nell’‘arte sacra’ di re, generali, conquistatori, crociati, gridano oggi allo scandalo perché nella chiesa compaiono guerriglieri come Sandino, Carlos Fonseca, Camilo Torres, Gaspar Garcia Laviana. Ma i nicaraguensi rivoluzionari hanno trovato proprio in queste immagini la storia autentica del loro paese e della loro chiesa, riscattata dal punto di vista del popolo”.