Francesca Turrisi recensisce “Tina” di Pino Cacucci
Uscito per l’Universale Feltrinelli, Tina è senz’altro un libro interessante all’interno del panorama editoriale italiano. Ha il merito di riconsegnarci un personaggio straordinario, a torto dimenticato, che vive una riscoperta tardiva. Tina Modotti o – per dirla col soprannome di uno dei suoi preziosissimi amori – “Tinissima” è stata una donna unica: non solo per la sua crescita umana o per le sue note biografiche, ma soprattutto perché la sua vita coincide con i principali accadimenti della storia politica e rivoluzionaria del pianeta. Vive l’ambiente culturale degli anni Venti in America, dove sarà modella, attrice, sarta, e soprattutto – dopo l’incontro con Edward Weston – fotografa. La fotografia segnerà il punto fondamentale della storia di questa donna così carnale, così bella e, allo stesso tempo, così consapevole di ogni granello di Storia, privata e politica, che sfiorerà con le dita. Tina, infatti, è un occhio: vive e guarda, osserva e investiga. All’inizio, è uno sguardo puramente estetico che indugia sugli oggetti e sulla natura, ma che finisce via via per farsi sempre più umano, politico. Come i fiori lasciano spazio ai corpi, alle falci nelle mani dei contadini, così Tina lascerà l’ambiente protetto dell’élite artistica newyorchese per incontrare Città del Messico. Incontro con una città e un Paese che, fin dal suo primo arrivo, dopo un viaggio interminabile per mare, si traduce in pagine e lettere vibranti, in cui lo stordimento della visione appare accecante. Il Paese di Zapata segnerà, d’altronde, una tappa fondamentale per Tina Modotti. Come se la sua vita si muovesse ellitticamente. Ai poli: sempre e solo Messico. Intorno: il mondo, che poi è “soccorso rosso”, le Brigate Internazionali in Spagna, l’arrivo in Russia… Il primo Messico è quello del colore e della scoperta, punto di partenza del suo vedere e sentire, luogo popolato di storie, odori, amici, amori. Il secondo, invece, sarà punto d’arrivo, di morte, luogo dove l’ellisse si chiude in un taxi chiamato con discrezione. Di notte. Con una voce flebile e un cuore che non regge. Gli uomini della sua vita, gli uomini che deciderà di amare – poeti, rivoluzionari, artisti e agenti della GPU – si troveranno di fronte a Tina come di fronte a una forza della natura in continua evoluzione. Una forza capace di creare sempre, e sempre di lasciar andare – senza rancore – quando la Storia la porterà altrove. La sua capacità di affascinare è qualcosa di cui, pur essendo consapevole, continua a stupirsi. Il suo essere donna, voluttuosamente femmina, è, per Tina, naturale al punto da essere considerato superfluo e banale. In una lettera a Weston, scrive: “Molti giornalisti a cui ho negato un’intervista hanno cercato di convincermi dicendo che avrebbero parlato solo di ‘quanto sono bella’. Ho risposto che non comprendevo cosa centrasse la bellezza col movimento rivoluzionario e con l’espulsione dei comunisti. Evidentemente qui le donne si misurano soltanto col metro cinematografico”. Il libro di Pino Cacucci, a metà tra biografia e romanzo, ce la presenta come una donna quasi mitica e, attraverso il fluire del tempo, la trasforma in una Cassandra sempre più delusa e triste, per la quale la veggenza diviene pian piano negazione dell’agire. Portando con sé Tina in una minuziosa ricostruzione storica, l’autore ce ne fa perdere lo spessore, confondendola un po’ per volta tra volti, rivoluzioni e processi politici. Le lettere di Tina, le sue fotografie, le sue parole fatte di rapporti umani e ideali d’uguaglianza finiscono per diventare dialoghi sterili, quasi monologhi interiori di una donna vinta, trascinata dagli eventi e schiacciata dalla Russia di Stalin. Ma questo transito, questo passaggio che porta uno dei più grandi personaggi del Novecento a trasformare la sua forza, la sua professione al servizio del popolo, la sua capacità di amare e farsi amare, in un mitologico monolite di tristezza e burocrazia, non è investigato. Non è nemmeno accennato. Perdiamo “Tinissima” per trovarci di fronte agli orrori della guerra d’indipendenza del Nicaruga, alla morte di Trotzkij e al sorriso enigmatico della Gioconda-infernale-Stalin. Qui, l’occhio di Tina si spegne, senza che se ne intenda la ragione più profonda. L’unica ipotesi da fare è che, abbandonando la sua pesante Graflex, il suo occhio interno – privato del filtro – non le permetta più di esprimersi. Senza scatto, Tina diventa muta e l’occhio-Tina non può più raccontarci nulla. Ma questa è un’ipotesi poco convincente, dato che ogni attimo dell’esistenza di Tina Modotti è sempre determinato da scelte consapevoli. Anche l’ipotesi del ripiegamento su un amore sbagliato, l’amore per l’oscuro stalinista Vidali (ammesso che di vero amore si trattasse), non persuade. E, allora, cosa? La perdita degli affetti? della bellezza? Degli ideali? Tutto questo continua a non essere sufficiente. Spagna, 1938. La gente in fuga da Barcellona sotto le bombe. L’intellettuale messicano Fernando Gamboa cerca di raggiungere la Francia: “Attraversando il centro deserto abbiamo notato una donna seduta al tavolino di un caffè all’aperto, sola, immobile. Era Tina Modotti. Quando mi ha riconosciuto ha sorriso. Le ho chiesto cosa stesse facendo in quel luogo assurdo prossimo a un paese fantasma. ‘Sto aspettando’ ha risposto. L’abbiamo lasciata al suo tavolino verso le sei del pomeriggio, al sole di febbraio che illuminava le colonne di contadini in fuga per le montagne, e lei, sola, con quel suo sguardo penetrante”. Cacucci ce la racconta vinta. Noi preferiamo credere che questa donna, capace di vivere più vite di quante se ne possano immaginare, alla fine abbia semplicemente scelto di perdere.
http://www.comitatotinamodotti.it/
articolo esauriente e piacevole da leggere, mi fatto conoscere un’artista sconosciuta a tanti ma di grande valore