Da Giovanni Papini “Il libro nero” 1951 Vallecchi Editore
VISITA A PICASSO”
Antibes, 19 Febbraio
Molti anni fa avevo comprato a Parigi sei quadri di Picasso, non perché mi piacessero ma perché eran di moda ed io potevo servirmene per fare dei regali alle signore che m’invitavano a pranzo.
Ma ora, trovandomi solo sulla Côte d’Azur e non sapendo come passar le giornate, m’è venuta la voglia di vedere in viso l’autore di quelle pitture. Vive qua vicino, in una villa sul mare, con una giovanissima e florida moglie. Ha, credo, sessantacinque o sessantasei anni ma è di buon sangue catalano, forte e ben formato, di bel colore e di bell’umore.
S’è parlato, sulle prime, di certi comuni conoscenti ma ben presto il discorso s’è fermato sulla pittura. Pablo Picasso non è soltanto un artista felice ma anche un uomo intelligente, che non ha paura di sorridere, a tempo e a lungo, delle teorie dei suoi ammiratori.
-Voi non siete un critico né un esteta, mi ha detto, e con voi posso parlare liberamente. Da giovane, come tutti i giovani, ho avuto anch’io la religione dell’arte, della grande arte. Ma poi, col passar degli anni, mi sono accorto che l’arte, come s’intendeva fino a tutto l’Ottocento, è ormai finita, moribonda, condannata e che la cosiddetta “attività artistica”, con la sua stessa abbondanza, non è che la multiforme manifestazione della sua agonia.
Gli uomini vanno sempre più disaffezionandosi di pitture, sculture e poesie, nonostante le contrarie apparenze. Gli uomini di oggi hanno messo il loro cuore in tutt’altre cose: le macchine, le scoperte scientifiche, la ricchezza, il dominio delle forze naturali e delle terre del mondo. Non sentono più l’arte come bisogno vitale, come necessità spirituale, a somiglianza di quel che in altri secoli accadeva. Molti di loro seguitano a fare gli artisti e ad occuparsi d’arte, ma per ragioni che con l’arte vera hanno poco a che vedere, cioè per spirito d’imitazione, per nostalgia della tradizione, per forza d’inerzia, per amore dell’ostentazione, del lusso, della curiosità intellettuale, per moda o per calcolo. Vivono ancora, per abitudine e snobismo, in un recente passato, ma la grande maggioranza, in alto e in basso, non ha più una sincera e calda passione per l’arte, che considera tutt’al più come spasso, svago e ornamento.
A poco a poco le nuove generazioni, innamorate di meccanica e di sport, più sincere, più ciniche e più brutali, lasceranno l’arte nei musei e nelle biblioteche, come incomprensibili e inutili relitti del passato.
“ Un artista che vede chiaro in questa fine prossima, come è avvenuto a me, cosa può fare? Troppo duro partito sarebbe quello di cambiar mestiere, e pericoloso dal punto di vista alimentare. Ci sono, per lui, soltanto due strade: cercare di divertirsi e cercare di far quattrini.
“ Dal momento che l’arte non è più il cibo che alimenta i migliori, l’artista può sfogarsi a suo talento in tutti i tentativi di nuove formule, in tutti i capricci della fantasia, in tutti gli espedienti del ciarlatanismo intellettuale. Nell’arte il popolo non cerca più consolazione ed esaltazione; ma i raffinati, i ricchi, gli oziosi, i lambiccatori di quintessenze, cercano il nuovo, lo strano, l’originale, lo stravagante, lo scandaloso. Ed io, dal cubismo in poi, ho contentato questi signori e questi critici con tutte le mutevoli bizzarrie che mi son venute in testa, e meno le capivano e più mi ammiravano. A forza di spassarmela con tutti questi giochi, con queste funambolerie, con i rompicapo, i rebus e gli arabeschi, son diventato celebre abbastanza presto. E la celebrità significa, per un pittore, vendite, guadagni, fortuna, ricchezza.
E ora, come sapete, son celebre, son ricco.
Ma, quando son solo, fra me e me, non ho il coraggio di considerarmi un artista nel senso grande e antico della parola. Veri pittori furono Giotto e Tiziano, Rembrandt e Goya: io sono soltanto un amuseur public, che ha capito il suo tempo e ha sfruttato meglio che ha saputo, l’imbecillità, la vanità e la cupidigia dei suoi contemporanei. E’ un’amara confessione, la mia, più dolorosa di quel che vi possa sembrare, ma ha il merito di essere sincera.
“et après ça, ha concluso Pablo Picasso, allons boire”.
La conversazione non è finita qui ma non ho la pazienza di registrare gli altri spregiudicati paradossi che sono usciti dalle labbra del vecchio pittore catalano.
credo che la fantasia di picasso sia arte ,poi se consideriamo l’artista per le sue abilità artistiche trovo che lui ed altri intraprendenti hanno finalmente rotto con quell’arte tutta uguale che è cresciuta nel tempo ,facendo dimenticare le bellezze di giotto, licabue ecc.
In conclusione picasso e’ un grande artista e come tutti gli artisti veri non conosce il suo talento ,ed infatti è stato premiato dalla sua vita.
Supposto che Picasso avesse fantasia non credo si possa attribuire a questa valenza artistica.
Piuttosto ritengo che Picasso sia stato “mutevole” ed abbia validamente alimentato quel nutritissimo gruppo di individui che hanno distorto il concetto di arte dal novecento a seguire: critici, galleristi, studiosi vari, primedonne e chi ne ha più ne metta.
Per questo credo alla sincerità di Picasso e sono d’accordo con lui riguardo al fatto che non fosse un artista.
L’arte è un’altra cosa..
E il livello di profondità quando essa è tale ci lascia in genere senza fiato.
In musica è più difficile cadere in mistificazioni.
In campo musicale “geniali” provocazioni come ad esempio quella di Duchamp hanno avuto minore cittadinanza.
Purtroppo le arti visive sono giunte ad un punto forse di non ritorno, in cui è vero tutto e il contrario di tutto e in cui gli “eletti” sono i suddetti personaggi, oltre ovviamente agli artisti stessi, quelli riconosciuti dal marketing system dell’arte, curiosamente e prevalentemente di stampo anglosassone.
Secondo lo storico dell’arte Richard Dorment, il regime di Francisco Franco e la NATO utilizzarono la serie di interviste immaginarie di Papini del Diario nero come propaganda contro Pablo Picasso, per minare pesantemente la sua immagine di sostenitore del comunismo. Nel 1962 l’artista chiese al suo biografo Pierre Daix di mettere in luce la falsità dell’intervista, cosa che fece ne Les Lettres Françaises.