…..”Accanto a Edward Hopper si può collocare Ivan Lorraine Albright, il pittore dell’assurdo caos oggettivo, della corposa e ingombrante inanità delle cose, della mostruosità biologica della natura e della nostra fisicità. I quadri di Albright danno la visione di una società a cui sembra mancare un fondamento morale, umanistico, di fiducia nel destino dell’uomo. Dalla suggestione dell’espressionismo realistico tedesco e del surrealismo, Albright ha ricavato, con assoluta libertà, una lezione ch’egli ha saputo mutare in brutalità tragica, in una specie d’impietosa pietà, in una difesa “blasfema” dell’uomo e della sua precarietà, del suo destino di morte e decadimento.
Albright, carico di un’intima forza polemica, scruta i suoi personaggi con occhio spietato; ne fissa le rughe, l’adipe, l’afflosciarsi della carne, lo screpolarsi della pelle; sofferma l’attenzione sullo spettacolo di un uomo o di una donna vicini allo sfacelo del loro corpo: e così li dipinge; e sotto l’immagine di una figura femminile in tal modo ritratta pone un titolo come questo: “Nel mondo venne un’anima chiamata Ida”; e se si tratta di un uomo, un titolo come questo: “E l’uomo creò Iddio nella sua propria immagine”.
Tale è la visione di Albright, che in un’opera come “Povera stanza” (iniziata nel 1941, e ripresa più volte fino al 1962) ha creato uno dei suoi tipici capolavori.
Il quadro ha un sottotitolo: “Non c’è tempo, né fine, né oggi, né ieri, né domani; c’è soltanto il sempre, e il sempre, e il sempre senza fine”: un quadro implacabile e angosciante, che esprime un’eternità di miseria, di cui la stanza rigurgita, trabocca dalla finestra squinternata in un disordine di stracci, di tende lacerate, di lumi a petrolio, specchi, cornici, soprammobili, bottiglie, guanti e tritume, rifiuti, rottami.
Albright ha dipinto ogni cosa, ogni frammento con accanita perfezione, in un brulicare di colori fosforescenti, marcescenti, di cenere azzurro-viola, di bianchi polverosi, di grigi velenosi, di verdi acidi e rossi raggrumati. E’ un quadro veramente esemplare che riassume efficacemente la poetica e la concezione di Albright.
“Una pittura è vita e una pittura è morte e ambedue sono fatte e rinchiuse nella bara pronta per l’uso di domani”; così egli si è espresso qualche anno fa.
Ed è una confessione che corrisponde esattamente a ciò che egli dipinge: un’immagine dell’uomo che la civiltà dei consumi non è ancora riuscita a condizionare alla sua falsa “felicità”.”……
Mario De Micheli “LA FUGA DEGLI DEI”, Ed.Vangelista 1989
Albright, Ivan Le Lorraine
(1897 – 1983)
Pittore nordamericano, figlio di Adam Emery Albright (pittore che aveva studiato sotto la guida di Eakins). Durante la prima guerra mondiale prestò servizio come disegnatore medico presso un ospedale francese, lavorando con meticolosa minuzia e precisione clinica. Caratteristiche che anticiparono i dipinti della sua successiva carriera, dove mostra una ossessione morbosa per la morte e il decadimento fisico: carne cascante, quasi putrefatta (che descrisse come “poltiglia raggrinzita”), oggetti decrepiti e in disfacimento e una luce sinistra sono elementi tipici del suo lavoro. Spesso tutto questo evoca un sentimento di malinconia per una bellezza passata. Albright proveniva da una famiglia ricca, e l’indipendenza economica gli permise di lavorare con lentezza e produrre un numero limitato di opere, molto elaborate e rifinite. Passò la maggior parte della vita a Chicago o dintorni, e l’istituto d’arte della città conserva la migliore collezione dei suoi lavori.