Personalmente penso di si, che sia ormai morto, sepolto e dimenticato. Ma io sono pessimista in queste cose….ci sono voci autorevoli che dicono il contrario, e che danno speranza: il prossimo 25 gennaio (51° anniversario dell’annuncio del Concilio Vaticano II) sarà inaugurato un nuovo sito promosso da vari teologi (Giacomo Canobbio, Piero Coda, Severino Dianich, Massimo Nardello, Gilles Routhier, Marco Vergottini) con il Card. Carlo Maria Martini, il Card. Roberto Tucci e Mons. Luigi Bettazzi:
http://www.vivailconcilio.it/
Nel frattempo, per riflettere un poco su questo argomento, che io considero determinante per la nostra epoca (immigrazione, crisi economica, lavoro e organizzazioni sociali, energie non rinnovabili, giustizia e dignità della donna e della famiglia, rapporti nord-sud, cultura e arte, guerra o pace e, insomma, sviluppo umano o disumano su questa terra….), ho scelto un articolo di Enzo Mazzi scritto nel 2005:
(Nota: Questa Pittura Murale nell’abside della Chiesa S.Maria de los Angeles, nel Barrio Riguero a Managua, che è stata dichiarata Patrimonio Culturale Nazionale, non sarebbe mai stata dipinta, nè concepita, senza le risoluzioni del Concilio Vaticano II e, fondamentalmente, senza il messaggio fondamentale di giustizia e di speranza della “OPZIONE PREFERENZIALE PER I POVERI”…..)
Il CONCILIO E’ MORTO, VIVA IL CONCILIO
di Enzo Mazzi
Il Concilio Vaticano II fu chiuso da Paolo VI il giorno dell’Immacolata, l’8 dicembre 1965, giusto quarant’anni fa. Se si considera che il Vaticano II è di certo uno dei più grandi eventi positivi del ’900, risulta davvero inadeguato quanto si è fatto e detto, in campo cattolico e laico, salvo eccezioni, in occasione di questa ricorrenza.
È una constatazione senza particolari frustrazioni o rimpianti. Le celebrazioni rituali non sono molto amate dall’area culturale del dissenso creativo. Sanno di necrofilia, di esumazione ricorrente scandita dai tempi delle bare vuote della nostra periodizzazione storica. Ma la sacralità delle ricorrenze storiche non si cancella con un atto di volontà. Volenti o nolenti ne siamo coinvolti. E poi forse si può combattere e attenuare la necrofilia delle celebrazioni, includendovi il tentativo di intensificare e rinnovare l’intreccio quotidiano fra memoria storica e presente.
I quarant’anni dalla chiusura del Concilio dunque sono stati celebrati in sordina. Il silenzio dell’attuale papa è molto eloquente: dice la sua grande preoccupazione per la permanenza attuale, secondo lui catastrofica, del contagio conciliare, di quello che egli intende non come spirito autentico, ma come spirito distruttivo. Nel novembre 1984 il mensile cattolico Jesus pubblicò un’intervista al card. Ratzinger, allora Prefetto dell’ex-Sant’Uffizio, poi ripubblicata in un volume delle Edizioni Paoline dal titolo Rapporto sulla fede. Andrebbe riletta oggi per capire l’orientamento dell’attuale pontificato. «Ci si aspettava una nuova unità cattolica – dice Ratzinger – e si è andati invece incontro a un dissenso… Ci si aspettava un nuovo entusiasmo e tanti sono finiti nello scoraggiamento e nella noia. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci siamo invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è sviluppato in larga misura proprio sotto il segno di un richiamo al Concilio».
Di fronte a un tale pessimismo, che è l’anima dell’attuale pontificato, è ancora possibile vedere e vivere il Concilio come processo aperto, percorso di trasformazione, segno della direzione di marcia di un’epoca?
Proviamo a storicizzare un tale interrogativo per riportarlo poi all’oggi.
A differenza del Vaticano I, che era stato ancora un Concilio essenzialmente europeo, i quasi 2500 padri conciliari provenivano ora da tutto il mondo. Meno della metà erano europei, ottocento venivano dalle Americhe, più di cinquecento dall’Africa e dall’Asia. Rappresentavano le periferie della cattolicità. Proprio per questo papa Giovanni li aveva convocati: per dar voce e forza alla molteplicità creativa delle ininfluenti e non di rado ignorate provincie dell’impero. Sta tutta qui, a mio avviso, la geniale ispirazione profetica di papa Giovanni, oppure il suo errore o almeno la sua ingenuità, a giudizio di alcuni e forse di molti.
La Chiesa cattolica fino allora era stata di parte, dominio dei «profeti di sventura», arroccata «contro»: contro la Riforma, la modernità, il socialismo e il comunismo, la diversità, la verità dell’«altro»; contro l’autonomia delle coscienze e il riscatto dei popoli.
È su questo sfondo che bisogna collocare la portata della svolta di Papa Giovanni. La Chiesa deve tornare ad essere «chiesa di tutti e particolarmente dei poveri», disse nell’intervento dell’11 settembre 1962 in preparazione del Concilio e ripeté sostanzialmente un mese dopo, nel discorso d’apertura. «Chiesa di tutti» e non solo della gerarchia; «di tutti» e non solo dei cattolici, degli europei, dell’occidente opulento. Una tale trasformazione era un compito immane, un miracolo che nessun papa dal centro avrebbe mai potuto compiere. Roncalli, uomo dell’apparato, sapeva quanto era grande la solitudine istituzionale del vescovo di Roma, conosceva bene la prigionia vaticana e lo spessore delle catene curiali. Era cosciente di ciò quando accettò l’elezione e se ne convinse meglio i primi anni del suo pontificato quando fu trascinato in una delle ricorrenti strette involutive che si abbatté sulle esperienze del cattolicesimo italiano e francese più impegnate in quella trasformazione che entrava sempre più decisamente nei suoi sogni.
Papa Roncalli si sentiva inghiottito dalla tela del ragno, quasi un burattino nelle mani dell’onnipotenza curiale. Ed ebbe la genialità di rompere quell’isolamento chiamando in Vaticano il mondo intero. Non che i vescovi fossero tutti esemplari di aderenza alla realtà, anzi molti di loro erano ancora fermi al Medio Evo. Chiamò il mondo intero nel senso che convocando i vescovi, unica possibilità istituzionalmente a lui consentita, intese dare voce e forza a quei processi di crescita umana e cristiana che animavano la storia. Li aveva incontrati nella sua esperienza di diplomatico vaticano in cruciali posti di frontiera: in Bulgaria, a contatto col mondo dell’ortodossia e del comunismo, in Turchia, la porta dell’Islam, nella Francia, “paese di missione” animato dal card. Suhard e inoltre nodo storico della decolonizzazione (Algeria e Vietnam).
Nell’enciclica Pacem in terris chiamerà tali processi «segni dei tempi» e darà loro precisi connotati: «ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, …ingresso della donna nella vita pubblica ed emergere della soggettività femminile, … non più popoli dominatori e popoli dominati…»; ancora altri «segni dei tempi», secondo la Pacem in terris, l’aprirsi delle coscienze al carattere democratico della vita sociale e politica e all’illiceità ormai della guerra nell’era atomica.
Questa contestualizzazione porta a vedere il Concilio non come puro fatto di chiesa, ma come espressione e segno di un’epoca, di una fase storica, di una tappa del cammino umano complessivo. Ebbene, a giudicare dalla prassi alto-istituzionale si direbbe che il Concilio è effettivamente morto. Rimane solo la liturgia funebre, necrofila, i cui riti si ripropongono sempre uguali. Ultimo in ordine di tempo questo insistere sulla sfiducia nei confronti della realtà femminile, questa ripetuta colpevolizzazione della donna, questo provocatorio esorcismo contro l’aborto considerato vero e proprio assassinio o addirittura genocidio dei feti e questo accanimento contro la metodologia farmacologica per applicare la legge che consente l’aborto con minori sofferenze. Senza parlare poi dell’ultimo Sinodo definito ben a proposito «Sinodo del NO». È vero che le gerarchie ecclesiastiche esprimono anche un atteggiamento fortemente critico nei confronti del neoliberismo, dell’individualismo egoista occidentale, dell’iniquo rapporto Nord-Sud e soprattutto c’è questa condanna della guerra. E’ una condanna, per me molto giusta, ma che cala dall’alto. Toglie voce ai movimenti. È una specie di riproposizione dello scontro medioevale fra papato Impero. Manca completamente l’annuncio dei «segni dei tempi». E infatti è una condanna che non regge e sta attenuandosi.
Dunque si può dire addio ai «segni dei tempi»? Si deve considerare ormai fuori dall’orizzonte storico attuale la fiducia nel cammino umano, la valorizzazione delle periferie, delle diversità, dei processi di trasformazione dal basso?
Insomma si deve considerare morto lo spirito del Concilio? Non ne sarei tanto sicuro. La sua tomba potrebbe essere vuota e i riti necrofili un esorcismo contro un processo inarrestabile. In questo orizzonte di fiducia, la parola più significativa la stanno pronunziando quanti lavorano nel quotidiano per lo sviluppo del processo conciliare. E fra di essi le comunità di base che sono, a mio avviso, uno dei frutti più maturi e più resistenti del Concilio.
Martedì, 20 dicembre 2005
http://www.ildialogo.org/concilio/index.htm