“MACARIO” è il mio dipinto n.11 del Progetto di illustrazione dei 17 racconti “EL LLANO EN LLAMAS” (“LA PIANURA IN FIAMME”) di Juan Rulfo.
Il racconto è un monologo di “MACARIO”, un ragazzo poverissimo che vive il suo piccolo e fatale mondo, fatto di poche persone e tanti diavoli e fantasmi, in un villaggio disperso dell’immenso territorio messicano.
Non sono uno psicologo, ma mi sembra che l’analisi di Manuela Gallina che ho trovato in Internet (e che riproduco qua sotto) non colga profondamente la reale situazione del protagonista.
Esiste in tutta l’America Latina un atteggiamento umano di “autodifesa” che probabilmente viene da 5 secoli di colonia e Macario, per niente “mentalmente insano”, descrive le sue storie con argomentazioni a volte appassionate, a volte con distacco e spesso con una atroce ironia che nasconde proprio la sua necessità di sopravvivenza a costo della tragica e minacciosa realtà che lo circonda.
Il link del testo originale (in spagnolo) di questo racconto di Juan Rulfo:
http://www.ciudadseva.com/textos/cuentos/esp/rulfo/macario.htm
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……“In «Macario», il protagonista e narratore unico del racconto
dà sfogo a pensieri disordinati a tal punto da provare la sua
insanità mentale: attraverso i suoi ricordi turbati e squilibrati,
egli è interprete di una coscienza di colpa 37. Macario è perse-
guitato dal pensiero di andare all’inferno, è ossessionato dal
cibo – in particolare va ghiotto per i fiori d’obelisco –, ha
l’abitudine di sbattere la testa al suolo, con la scusa di voler
risentire i tamburi che si sentono a volte in chiesa durante le
funzioni religiose. Come se non bastasse, Macario racconta
seduto nei pressi di uno stagno mentre dice di ‘controllare’ le
rane e i rospi. Le sue associazioni (testa sbattuta/tamburi; colore
nero delle rane/colore nero degli occhi della sua madrina;
…) sono molto elementari, principalmente di tipo sensoriale;
esse screditano qualsiasi tipo di capacità intellettiva del personaggio.
Del resto anche le sue capacità fisiche sono in parte
limitate: “Yo no sé por qué me amarrará mis manos; pero dice
que porque dizque luego hago locuras” (p. 88). Macario non
ha tracce memoriali proprie, egli percorre i ricordi attraverso
le tracce degli altri:
(p. 88).”Un día inventaron que yo andaba ahorcando a alguien; que le apreté
el pescuezo a una señora nada más por nomás. Yo no me acuerdo. Pero,
a todo esto, es mi madrina la que dice lo que yo hago y ella nunca anda
con mentiras”….
Macario è un debole, completamente ignaro dell’alterazione
della sua coscienza – si parla in questi casi di anosognosia –;
l’uso del verbo inventaron prova che i suoi percorsi memoriali
sono affidati alle sensazioni e alle emozioni altrui, senza riferimenti
logici di razionalità; tuttavia lo stesso verbo rivela un’assimilazione
ironica dei fatti ricordati”…..
37 Macario è una figura esemplare all’interno delle comunità rurali, come
lo stesso Rulfo spiega individuandolo come “uno de esos loquitos que sempre
hay en los pueblos”, in Confirmado, IV, n. 160, 11 luglio 1968.
(Manuela Gallina “ERES BUENO PARA ESO DE LA MEMORIA”: TRACCE
MEMORIALI IN ALCUNI RACCONTI DI JUAN RULFO– annali di ca’ foscari, xliv, 1-2, 2005 )
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Ricordo di
Juan Rulfo
di Goffredo Fofi
(“Linea d’ombra”,
anno IV – n. 13 – febbraio 1986)
Dopo Böll, Calvino e Elsa Morante, scomparsi nella seconda metà dello scorso anno, l’inizio dell’86 ci ha portato la notizia della morte di un altro scrittore da noi molto amato, il messicano Juan Rulfo (Jalisco 1918 [sic!] – Città del Messico 1986), di cui Linea d’ombra aveva pubblicato un racconto breve e fulminante in uno dei suoi primi numeri. Chi scrive aveva avuto l’onore e la gioia di conoscerlo, appena due anni addietro, a Città del Messico, e ha ora il rimpianto di non averlo conosciuto meglio, tanto Rulfo gli era parso uomo di rare civiltà e misura, profondità e serietà, appena corrette da un humor sottile e affettuoso. Con lui ho parlato a lungo, in un piccolo bar sovrastante una piccola libreria, dei suoi libri ma più ancora del Messico e della sua letteratura, dell’Italia e della sua letteratura. (Mi stupì e divertì una sua affermazione: che un buon film che spiegava efficacemente il disordine che è stato della rivoluzione messicana, uno dei pochi che ne dava l’idea, fosse Giù la testa di Sergio – che Rulfo pronunciava Serghio – Leone). E mi dispiace di non avere, per timidezza, portato un registratore per raccogliere le sue osservazioni, le sue idee, visto che rare sono le interviste con lui e ancor più rari i suoi scritti. Uomo di molti avventurosi mestieri, conoscitore profondo del Messico, lavorava all’Istituto Indigenista, e della storia e della cultura degli strati popolari del suo paese era un conoscitore straordinario.
Una delle domande che avrei voluto fargli e non gli ho fatto riguardava Faulkner, che a me pare – e credo sia opinione diffusa – un suo punto di partenza fondamentale, come per tanti altri scrittori latino-americani, da Onetti a Marquez. Un’altra, il suo giudizio sui film messicani di Bunuel. C’è da rimpiangere, in Italia, la quasi inesistenza di latino-americanisti almeno agguerriti e attivi quanto i lusitanisti. Persi appresso al fantasma della letteratura borgesiana o magari marquesiana, essi non hanno saputo far molto per aiutare la conoscenza, la comprensione e la giusta valutazione della grande letteratura di quei paesi, né con un buon lavoro accademico (su scrittori come Rulfo o Caepentier, Arguedas o Vargas Llosa, si contano sulla punta delle dita gli studi interessanti, mentre abbiamo sciocchezze sulle due mode citate) né con un’azione – nei media e nell’editoria – per la promozione di traduzioni del nuovo davvero significativi. Per fermarsi al Messico, scrittori importanti come Revueltas, o i viventi Poniatowska e Pacheco, attendono ancora che li si diffonda.
La conoscenza di Rulfo è stata ostacolata da tutto questo, come anche dalle pessime traduzioni dei sue due libri, Pedro Pàramo presso Feltrinelli e La morte al Messico (titolo banale e riduttivo per l’originale Pianura in fiamme) presso Mondadori. Per fortuna, Einaudi ha riacquistato i diritti sulle due opere, affidandone la versione a una traduttrice valente, Francisca Perujo [sic!], e Pedro Pàramo è già disponibile in una buona [sic!] edizione; anche se Einaudi non mi pare abbiamo [sic!] molto fatto per pubblicizzarla [per fortuna!]. In morte di Rulfo, ci è capitato infine di leggere sulla stampa una sola nota seria, quella di Severino Cesari sul Manifesto.
Rulfo ha pubblicato solo due libri, quelli ricordati: il primo, la raccolta di racconti El llano en llamas (1953); il secondo Pedro Pàramo (1955), un breve romanzo. (Un terzo piccolo libro di copioni per film sperimentali o documentari è stato tradotto dagli Editori Riuniti col titolo Il gallo d’oro nella collana dei David. Un secondo romanzo, El hijo del desaliento, sul disorientamento degli inurbati, Rulfo non ha mai voluto darlo alle stampe). Sono bastati per farlo scoprire dai maggiori scrittori e critici del subcontinente e considerare un grande, e per farlo stimare in Messico come il maggiore dei messicani. Radicati nella realtà del paese, addirittura regionalista (Rulfo li ha ambientati nello stato in cui è nato, Jalisco); non privi di riferimenti storici (la guerra cristera della fine degli anni venti, tra stato e cattolici, di cui Rulfo bambino assistè a cruenti episodi); e tra loro assai simili per aura e tensione – sono due capolavori che di molto oltrepassano questi dati ambientali, pur esaltandoli essenziati, per la complessità e misura dei loro veri temi e del loro linguaggio.
I primi: la violenza e la morte, la memoria e la colpa, che direi centrali alla cultura occidentale e non solo alla messicana (e la colpa nelle sue più ampie sfaccettature di rimorso e rancore, odio di sé e degli altri, rovesciamento delle cause e degli effetti, frustrazione e dolore, vendetta e autopunizione). Il secondo: di una limpidezza grave, nella quale ha peso, letteralmente, soprattutto il silenzio, ciò che c’è tra le frasi, e che le rende di una densità compresa e sospesa sull’orlo del panico e dell’angoscia.
Los murmullos era il primo titolo di Pedro Pàramo che – nella storia di un figlio spinto dalla madre alla ricerca del padre, di un padre che vive di un’idrolatata passione irrealizzata per una donna angelicata, e che di troppi delitti si è macchiato – ci introduce a una purgatoriale dimensione di morte, dove, appunto, è il mormorio dei morti, mescolati ai vivi, indistinguibili dai vivi, a raggiungerci. La ricerca di Juan Preciado è frustrante, poiché del padre scopre sconvolto i misfatti, e poiché anch’egli, ce ne accorgiamo a romanzo avanzato, appartiene già al mondo dei morti, sempre contiguo e coinvolto, coinvolgente.
I racconti sono un ampliamento di questo discorso, ramificati e vari, ma retti dallo stesso senso di fatalità e di tragedia. Di essi, sono entrati in tutte le antologie, sono davvero da antologia, Diles que no me maten!, No oyes ladrar los perros, Macario, Talpa e tanti altri. Ma quando si dice fatalità e tragedia non si intende cupezza: la scrittura, il fraseggio di Rulfo sono anzi lievi, e comunicano piuttosto la sensazione di una nostalgia acuta, temperata da un’ironia sotterranea dell’autore come dei personaggi, con qualcosa di musicale, spesso di aereo. L’arte di Rulfo è imparagonabile e unica proprio per questo; e straziante per quel fondo di commozione fortemente rattenuta, nascosta, sulle vite perdute, sui destini obbligati, sulle potenzialità non potute esprimere dai suoi personaggi: i contadini del Messico povero, ma anche altri e altrove. E il silenzio di Rulfo – che lo ha infine consegnato a una dimensione mitica e unica nella letteratura di lingua spagnola – è stato forse anche un’adesione a quel discorso, a quelle vite.
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