ANTONIO LUIGI GAJONI, L’Arte di Michelangelo (seconda parte) (per ritornare alla prima parte cliccare qui)
4° – “IL GIUDIZIO UNIVERSALE”
Questo grande affresco riassume le esperienze dell’arte di più di un secolo e chiude definitivamente un epoca iniziandone un’altra gloriosa ma effimera.
Esso nacque dalla rinuncia di un primo progetto del quale sono rimaste due grandi parti: “La Passione” e “La Morte” di Nostro Signore Gesù Cristo, rappresentate simbolicamente dalla “Colonna” e dalla “Croce”. Queste composizioni sono situate nelle due lunette in alto. Poiché sono state eseguite dopo molto tempo dalla “Genesi” (sulla volta della Sistina N.d.R.), Michelangelo ritorna in esse al suo sentire normale anche per il fatto che si è limitato allo spazio delle lunette stesse.
In questi spazi si inseriscono i simboli abbracciati da un groviglio di robusti angeli,spinti dal furore di un insopportabile sdegno che li agita e li scuote e li mostra tutti presi quasi da un barbarico sfogo senza ritegno; il quale, espresso come è da una rappresentazione plastica delle più violente della storia dell’arte, ebbe da Leone Tolstoj la definizione di “assurdo”.
Sulla parete dove Michelangelo dipinse il Giudizio esistevano due finestre che poi furono murate;nello spazio che intercorreva tra di esse Egli doveva dipingere la Resurrezione. Dai molti studi e disegni si rileva che in questo affresco vi è lo stesso stile che nei due su descritti,o meglio la stessa mentalità artistica, lo stesso momento. Perciò è opinabile che le tre composizioni fossero legate in un unico ciclo: passione, morte e resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. Anzi le due lunette sono rimaste come parte della prima composizione;una parte che sta a sé, come separata dal rimanente che si agita sotto.
Poiché le finestre erano state chiuse,come è stato accennato sopra, gli fu possibile cambiare il soggetto dell’opera. Così concepì il “Giudizio” che riprendeva e seguiva idealmente la soprastante “Genesi”.
Ciò che ne scaturì di sotto fu una composizione complessa, varia, tumultuante, le cui figure convergono verso il Cristo giudicante a grandi masse che si accavallano l’una sull’altra.
C’è in alto una certa tendenza al prolisso, ma viene riscattato subito dall’imponenza delle figure centrali che sono intorno al Salvatore al quale Michelangelo dette una proporzione ed un energia plastica tali che vince in potenza il grande spazio. Attorno a lui mise in moto quella massa di figure a semicerchio che rammenta quella posta da Leonardo nei “Re Magi”, attorno alla Madonna.
Ai due capi del semicerchio mise in primo piano, a sinistra, la figura tipicamente michelangiolesca anche nell’aspetto, a destra il vecchio con il braccio teso, di uguale efficacia; queste due figure mettono in equilibrio le proporzioni della figura del Cristo.
A queste tre figure si uniformano, con accorgimenti profondi, tutte le altre di questo ideale altorilievo. Le figure qui calano di misura dall’alto in basso, come calano sugli obelischi egiziani i geroglifici, mentre frontalmente si agitano su di un piano limitatamente variato in profondità tanto che sembra che si muovano in superficie e ne vogliono uscire fuori come se fossero sospinti all’insù dal profondo.
I resuscitati in basso a sinistra si elevano con una ascensione nel vuoto a cono rovesciato, della quale si può valutare pienamente la profonda intuizione realistica. Sempre in basso la linea di terra e quella formata dalla barca di Caronte chiudono in modo veemente questa realizzazione sovrumana, che è la più ricca rappresentazione plastica dell’ineluttabile destino dell’uomo.
Michelangelo aveva certo una forte memoria visiva, memoria delle forme: se si esamina un suo manoscritto, un sonetto messo in bella copia, si rileva come i caratteri della scrittura siano costanti nella forma. Le vocali e le consonanti si direbbero stampate con caratteri di piombo tanto sono sempre uguali.
Anche nei suoi studi e disegni, Quando in margine riprende un particolare per precisarlo, si rileva come più che approfondisce e più i segni lo circoscrivono serrandolo fino a renderlo oggettivo. Ciò rammenta quel chiarimento fatto da Platone della “idea”: “se io do, disse, da fare una spola ad un falegname egli ha già l’idea dell’oggetto che deve fare e di come va fatto perché serva perfezione”. Michelangelo mostra appunto come questo concetto dell’idea sia innato in lui.
La sua memoria dell’anatomia del corpo umano(ossa, muscoli, tendini,pelle), permise al suo genio,come se ne avesse una conoscenza innata, di costruire le figure umane rifacendo i muscoli con forme selezionate fino alla loro idea perfetta; essi, messi nella loro giusta funzione, danno all’insieme di ogni figura un dinamismo in potenza tale da sprigionare energia atta a contrastare e vincere ogni vuoto od ostacolo.
Mai carne umana, mai l’uomo fu dipinto trionfante di salute e per l’alta spiritualità o nella miseria fisica ed in abietta condizione. Mai accenti pittorici ebbero così profonde tonalità in tanto sfacelo carnale come in questa parete.
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5° – CARATTERE DELLE FIGURE DI MICHELANGELO
Le figure di Michelangelo si possono idealmente dividere in più gruppi. In uno vi sono le “sublimi”: La Madonna medicea, il David-Apollo del Bargello, il prigione del Louvre, ecc.; in un secondo le “presenti”, vive ed energiche: Mosè, Giona, David, Geremia, il Cristo del Giudizio, la Sibilla Eritrea, Ezechiele, alcuni giovani che sovrastano, negli affreschi della volta della Sistina,Isaia, Assuero, Adamo, la “Benedizione” e la “Creazione”; in un terzo le “remote”. Queste ultime sono figure sognate come ricordo di una umanità calata in tempi remoti, smunte, smussate, velate, come quelle delle lunette sopra le finestre della Sistina e quelle di altri affreschi che appaiono improvvise, distanti, lontane.
Ma il primeggiare della figura umana che proporzionandosi alla potenza negativa dello spazio ambientale si impone come superiore elemento plastico, è evidente nella cappella medicea: nell’architettura principale inserisce, in una parete, un ordine fantasioso che gli permette un geniale raccordo. Egli incastra una figura delle tre nella parte dentro allo scavo della nicchia e pone le altre due sull’urna sporgenti all’infuori. Queste vengono agganciate dalla prima sulla parete creando un senso di statica perfetta. Quel senso di sdrucciolo che si avverte per il modo come posano le due figure sull’urna, non dà che una sospensione che dona leggiadria all’enorme potenza compositiva.
Qui la differenziazione tipica delle figure si manifesta assai chiara: nelle due statue dei Medici, specie in quella di Lorenzo, vi è un velo di remoto,d’altri tempi. Anche nell’aurora vi è qualche cosa di simile, ma nella sera vi è la presenza, quasi bruta del momento che è di sempre, dell’eternità; un imposizione senza limiti. Tuttavia questo non è il livello massimo michelangiolesco, se mai è un primeggiare nell’ellenismo quattrocentesco.
Solo con la Madonna Medicea ci dona un esempio della sua più alta concezione dell’arte: di una realtà normale, liberata da ogni reminiscenza, di una novità naturale senza tempo. Si stacca quindi dal pensiero che ha realizzato nelle altre figure medicee. Qui non vi è alcuna traccia di arrangiamento perché tutto vi fiorisce come lo sboccio di una rosa. Qui il posare melanconico e stanco comune alle altre figure si illeggiadrisce per l’armonia con la quale si uniscono tutti gli andamenti compositivi.
Michelangelo ha impostato questa figura su un angolo dello spazio base sporgente con un a piombo che la fa sembrare un nobile stelo, facendo discendere a cascata i volumi verso l’angolo opposto e lasciando libero il margine dei gradini come a sottolineare l’insieme soprastante.
Nel contempo ha dato un andamento quasi maestoso alla linea frontale che salendo a destra fino al ginocchio va ad adagiarsi a sinistra attraverso il bambino e ripiegando finisce col capo della Madonna.
Queste caratteristiche fanno di questa scultura, come dice il Condivi, un’opera che sta sopra tutte, e di un armonia ineffabile, struggente, che può stare sul piano delle opere del secolo d’oro greco e precorre l’ideale estetico dei nostri tempi, non ancora raggiunto.
E’ certo che i grandi autori mettono nelle figure rappresentate nelle loro opere un riflesso morale e fisico di se stessi: questo riflesso fisico distingue, caratterizza le opere, dando a vedere anche in quale stagione della loro vita eseguirono una data opera.
Se si esaminano, per esempio, le diverse Pietà di Michelangelo con questo criterio, si può scorgere in quella di San Pietro tutto il giovanile ardente impeto, il senso della morte pacato, staccato come un fatto impossibile e di la da venire.
Il corpo fresco del Cristo si distende morbido in grembo alla madre muta, stoica. Qui pare di vedere l’artefice qua e là intorno scavando, condurre il gioco delle pieghe, sublimare il bel nudo di Gesù e il viso della Madonna. Non mai stanco, non mai sazio nel rifinire, nell’illeggiadrire la sua opera così grandiosamente impostata, sottolinea infine con un gran tratto l’ampio drappeggio. Vi è qui un tema di morte fiorito in un inizio di stagione primaverile, come se Michelangelo pensasse non alla morte ma all’immancabile resurrezione.
Le figure Michelangiolesche hanno generalmente in comune la caratteristica di stare su quasi per un espressività interiore, equilibrata, robusta proporzionata, in cui si impernia tutto l’armonioso svolgimento dei movimenti esteriori.
Nella pietà di Palestrina però non si può scorgere questa fisicità riflessa nell’espressione interiore. Infatti l’ossatura del Cristo non regge al criterio su accennato.
La Pietà di Santa Marie del Fiore, la quale starebbe bene in Santa Croce davanti alla sua tomba, come la desiderava, è la più sofferta e tormentata: forse è maturata dal costante pensiero della morte che gli era presente nell’età matura, dolorosa e stanca.
Con le figure prive di segni di abbellimento questa scultura esprime il pensiero della tomba sentita come un estremo rifugio ai disinganni, all’inutilità di qualunque cosa terrena. La profonda umiltà di Michelangelo di fronte all’al di là gli consente di sottostare anche all’incompiutezza dell’opera offrendo questa sua rinuncia a scarico delle sue vampate d’orgoglio d’altri tempi.
Ma il grave dramma lo vive con la Pietà Rondanini. Negli ultimi tempi Michelangelo era un vegliardo irrequieto: andava, veniva, cavalcava e lavorava a questa Pietà. In occasione di un improvvisa visita notturna del Vasari egli nascose l’opera sotto una coperta per non mostrare quello che a lui certo era palese e di cui era cosciente, e cioè che la sua capacità di lavorare era compromessa e quella scultura ne era la testimonianza.
Le idee luccicavano in lui limpide e sublimi, ma fra il concepire e l’eseguire si erano frapposte quelle intermittenze sensorie che gli anni portano al fisico umano. Certo che Michelangelo riprendendo quel marmo di già scolpito voleva cancellare quell’aspetto limitato che a suo giudizio ora gli si palesava così crudamente. La sua visione, la sua idealità, non erano già più di questo mondo, ma erano sprofondate come in un sogno della giovinezza.
Tutto il sodo, la materia,era inciampo a quella unica luce che illuminava i corpi con i suoi ideali ora irraggiungibili. Di qui quel riprendere, quel ritornare sull’opera, quello sbocconcellare e sminuire senza requie. Da queste angosce e da questi contrasti è uscito quel fantasma incompiuto che commuove tutto il mondo.
Nella lunga giornata di Michelangelo l’artista domina le tempeste che hanno agitato la sua vita con la potenza prorompente della sua capacità espressiva, tanto che la sua arte vissuta e sofferta ha placato intorno a sé l’ira degli uomini i quali soggioga anche oggi con la forza della sua prorompente spiritualità.
San Miniato (Pisa)
Antonio Luigi Gajoni, 1964
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