Chi è il vero debitore?

Io non ci capisco niente di economia, ma come pittore mi trovo di fronte a problemoni che implicano, tra l’altro, il sicuro peggioramento dell’Arte e della Cultura italiana a partire da oggi e per i prossimi secoli. Fortunatamente c’è qualcuno che parla di queste cose “pane al pane e vino al vino”, e in modo comprensibile a tutti. E questo qualcuno è nientemeno che Francesco Gesualdi, allievo della scuola di Barbiana (è il Francuccio di don Milani), uno degli animatori del “Centro nuovo modello di sviluppo” di Vecchiano. Vale davvero la pena di leggere attentamente questo scritto.

Il debito in 12 domande e risposte
12 RISPOSTE SUL DEBITO E COME USCIRNE CON EQUITA’
(a cura del Centro Nuovo Modello di Sviluppo)
1. Cos’è il debito pubblico?
2. Come si è formato il debito pubblico in Italia?
3.A quanto ammonta il debito pubblico italiano?
4.Chi detiene il debito pubblico italiano?
5. Che cos’è la speculazione sul debito pubblico e perché ci danneggia?
6.Perché si tagliano le spese sociali in nome del debito pubblico?
7.Perché tutti invocano la crescita per la soluzione del debito pubblico?
8.Cosa significa “congelamento” del debito?
9.Quali possono essere le conseguenze collettive del congelamento del debito?
10.E’ vero che se lo stato congela il debito, i clienti delle banche non avranno più indietro i loro depositi?
11.E’ possibile congelare il debito pubblico salvaguardando le famiglie che hanno investito in Buoni del Tesoro?
12.Quali strategie si possono perseguire per ridurre il debito pubblico senza danno sociale?

Sergio Michilini,1981, LA ZATTERA DELLA MEDUSA ITALIANA, olio su tela, cm.91x116

1. Cos’è il debito pubblico?

R. Il debito pubblico si forma quando le strutture dello stato (governo, regioni, province, comuni) spendono più di quanto incassano attraverso imposte, tributi, tariffe, oneri sociali. Lo scarto che si crea nel corso di un anno si definisce deficit. La somma di tutti i deficit accumulati ad una certa data forma il debito. In altre parole il deficit esprime la sfasatura relativa ai singoli anni; il debito la situazione debitoria complessiva accumulata negli anni.

Uno stato con potere di battere moneta, può finanziare il proprio debito con l’emissione di nuova moneta. Il che corrisponde ad una tassazione generalizzata di tutti i cittadini, perché l’emissione di nuova moneta, a parità di produzione, provoca inflazione, ossia aumento generale dei prezzi che decurta il potere d’acquisto di tutti. L’Italia ha utilizzato questa via prevalentemente negli anni settanta, facendovi ricorso più limitato negli anni successivi. Ma da quando è entrata nell’euro, nel 2001, questa possibilità le è preclusa del tutto perché il potere di emissione è assegnato alla Banca Centrale Europea, espressione delle banche centrali della zona euro, a loro volta espressione delle banche private dei singoli stati.

La Banca Centrale Europea non ha fra i propri compiti quello di soccorrere i paesi debitori e gli unici modi che questi hanno per fare fronte alle proprie difficoltà finanziarie sono il dilazionamento dei pagamenti nei confronti dei propri fornitori e l’accensione di prestiti presso banche e qualsiasi altro soggetto (assicurazioni, fondi, famiglie) disposto a fornire denaro in cambio di un tasso di interesse. Generalmente il prestito è ufficializzato da un certificato emesso dal Ministero del Tesoro, che certifica l’ammontare ricevuto, la data di restituzione e il tasso di interesse riconosciuto. Tali certificati sono genericamente definiti titoli di stato o titoli di debito pubblico, ulteriormente suddivisi in Bot (Buoni ordinari del tesoro), Cct (Certificati di credito del tesoro), o altro, in base alle condizioni specifiche del prestito.

 

2. Come si è formato il debito pubblico in Italia?

R. In Italia, il debito pubblico ha cominciato ad assumere dimensioni preoccupanti negli anni settanta, allorché iniziò a formarsi un divario consistente fra entrate e spese pubbliche. Mentre in alcuni periodi le uscite crescevano più ampiamente delle entrate, in altri succedeva che le prime salivano mentre le seconde scendevano. Ad esempio, nel periodo 1971-1974 le entrate, in rapporto al prodotto interno lordo (Pil), si ridussero dello 0,5% (dal 29 al 28,5%), mentre le uscite crebbero dal 36,9 al 43,4%.

Fra le ragioni per cui nel corso degli anni si sono avute entrate inferiori a quelle che il sistema avrebbe potuto garantire, va citata la riduzione delle aliquote sugli scaglioni più alti di reddito, la bassa tassazione dei redditi da capitale, la riduzione se non l’eliminazione delle imposte patrimoniali, l’elevato tasso di evasione fiscale, l’espandersi dell’economia in nero.

Fra le ragioni per cui si è avuta un’accelerazione delle uscite, vanno citate le politiche a sostegno delle imprese, il pensionamento precoce nel settore pubblico, l’abnorme espansione occupazionale in ambito pubblico e il mantenimento di inutili carrozzoni con finalità al tempo stesso clientelari ed elettorali, l’esplosione dei privilegi dalla politica, le ruberie a vantaggio di imprese appaltate dallo stato per spartire il bottino con i partiti al governo, la corruzione valutata 60 miliardi di euro l’anno.

Ma non va dimenticato il ruolo degli interessi che specie negli anni ottanta sono stati elevatissimi. Nel 2010 la spesa per interessi è stata pari a 70,1 miliardi di euro corrispondente all’8,8% dell’intera spesa pubblica e al 15,7% delle entrate tributarie (Imposte dirette e indirette esclusi oneri sociali). In effetti gli interessi, oltre ad accrescere le uscite e quindi il debito, rappresentano una redistribuzione alla rovescia: concentrano nelle tasche di pochi la ricchezza di tutti.

Fonti: Maria Teresa Salvemini, Le politiche del debito pubblico, Laterza 1992; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Nunzia Penelope, Soldi rubati, Salani Editore 2011.

 

3. A quanto ammonta il debito pubblico italiano?

R. Secondo i dati della Banca d’Italia, al giugno 2011 il debito pubblico totale ammontava a 1901 miliardi di euro pari al 122% del Pil realizzato nel 2010. Ma economisti come Loretta Napoleoni, affermano che è impossibile avere il dato preciso perché in ogni ambito delle amministrazioni pubbliche, dal Ministero del Tesoro, fino all’ultimo comune d’Italia, possono essere stati accesi prestiti presso banche private compiacenti che in cambio di laute commissioni hanno escogitato degli stratagemmi per farli passare come anticipi su operazioni future. Ma il problema è che si tratta di operazioni assimilabili a scommesse che possono o non possono dar luogo ad incassi. In conclusione si fanno comparire fra le entrate somme che negli anni successivi possono trasformarsi in debiti, gravati di interessi, perché l’evento auspicato non si è realizzato.

Benché si tratti di operazioni configurabili come veri e propri falsi in bilancio, purtroppo sono utilizzate anche dai governi. Il caso più eclatante è stato scoperto a carico della Grecia che aveva agito con la complicità della banca d’affari Goldman Sachs. Per essere ammessa nell’euro, nell’anno 2001 e seguenti, la Grecia aveva bisogno di dimostrare che il suo deficit annuale era inferiore a quello reale e non potendo agire sul piano delle uscite, aveva deciso di falsificare i dati sul piano delle entrate. In altre parole si era fatto anticipare da Goldman Sachs dei soldi su polizze assicurative relative ad eventi finanziari futuri (l’innalzamento dei tassi di interesse piuttosto che la rivalutazione di certe valute) di cui nessuno poteva prevedere l’andamento. Ma ciò non interessava a nessuno: il problema era ingannare, poi si sarebbe visto. E infatti nel 2010 il bubbone è scoppiato perché non poteva essere più tenuto nascosto. Ed oggi la Grecia non sa di che morte morirà.

Gustavo Piga, professore dell’università di Tor Vergata, ha spiegato che tutti i grandi paesi industrializzati del mondo, Italia compresa, ricorrono all’uso di queste polizze assicurative, meglio conosciute come derivati, che però sono costosissime e tal volta articolate in una maniera tale che se l’evento assicurato non si realizza, può essere il cliente a dover pagare l’assicuratore. Ne sanno qualcosa i 519 comuni d’Italia che dalla sottoscrizione di simili polizze, con banche del calibro di Deutschebank o Ubs, stanno registrando perdite per quasi un miliardo di euro. Così l’utilizzo delle moderne tecniche di ingegneria finanziaria sta aggravando il debito pubblico e lo sta rendendo sempre più opaco, ossia fuori controllo. I vincenti, ancora una volta, sono le banche e le assicurazioni.

Fonti: Banca d’Italia, Supplemento al bollettino statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Gustavo Piga, Derivatives and public debt management, Isma 2001; Loretta Napoleoni, Il contagio, Rizzoli 2011.

 

4. Chi detiene il debito pubblico italiano?

R. Una prima classificazione può essere fatta in base alla nazionalità dei detentori. Da questo punto di vista, al giugno 2011, il debito pubblico era detenuto per il 56,4% da soggetti italiani e il 43,4% da soggetti stranieri.

Una seconda classificazione può essere fatta in base alla tipologia giuridica dei detentori. Da questo punto di vista, la quota detenuta dalle famiglie, al giugno 2011, corrispondeva al 12,7%. Tutto il resto era detenuto da investitori istituzionali: banche, assicurazioni e fondi. Più precisamente: 3,6% Banca d’Italia; 26,2% banche commerciali italiane, 13,8% assicurazioni e fondi italiani, 10,6% banche estere, 32,8% fondi esteri.

In conclusione, limitatamente alla parte di debito detenuto dagli investitori istituzionali, la suddivisione fra soggetti italiani ed esteri è praticamente al 50%, mentre la suddivisione fra banche e fondi è rispettivamente del 46,8 e 53,2%.

Fonti:Elaborazione dati Banca d’Italia, Supplemento al bollettino statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Morgan Stanley, Who owns Italy’s government debt?, luglio 2011.

 

5.Che cos’è la speculazione sul debito pubblico e perché ci danneggia?

La speculazione è una strategia attuata da parte di fondi, assicurazioni e banche per guadagnare sul debito a più riprese.

Le tecniche finanziarie sono molte, ma una delle più ricorrenti è la speculazione al ribasso che consiste nel vendere, al prezzo di oggi, titoli che saranno consegnati fra una settimana o fra un mese. Il tempo è un elemento determinante, ma non è la semplice separazione fra data di vendita e data di consegna che consente agli speculatori di guadagnare. Il vero segreto è che non possiedono i titoli che offrono, in fondo il trucco sta tutto qui. La loro speranza è che nel frattempo il prezzo scenda e quando arriverà il tempo di consegnare i titoli, li compreranno sul momento a prezzi ribassati. Nella differenza fra l’alto prezzo di vendita di oggi e il basso prezzo di acquisto di domani, sta il loro guadagno. Sempre che tutto vada bene.

Ma banche e fondi non si affidano al caso. Quando prendono una decisione sanno come fare per creare le condizioni favorevoli al loro obiettivo perché hanno abbastanza denaro per indirizzare la storia. Se puntano su un’operazione al ribasso, in un primo momento si muovono con circospezione, cercano di piazzare le loro vendite senza dare nell’occhio. Poi quando stabiliscono che il prezzo deve crollare danno un’accelerazione all’offerta e il gioco è fatto. La massa di offerta insospettisce chi frequenta le borse: se tutti vendono una certa roba vuol dire che non vale niente, meglio starne alla larga. Ma proprio perché nessuno compra, il prezzo scende davvero e il timore si trasforma in realtà esattamente come volevano i burattinai.

Ovviamente questa è solo una semplificazione delle mille diavolerie che la finanza moderna si è inventata per guadagnare sulla dabbenaggine della moltitudine di piccoli risparmiatori che si aggirano per le piazze finanziarie. Ma quasi sempre la loro strategia si basa sulla psicologia di massa. Ottimismo e pessimismo, fiducia e paura sono i grandi alleati dei burattinai della finanza e quando stabiliscono che a loro serve un sentimento o l’altro si attivano con i loro potenti mezzi per provocarlo. La speculazione al ribasso si nutre della paura, e immediatamente l’intero sistema informativo cerca di amplificarla con titoli tipo: “I mercati non credono nel sistema Italia, prezzi in picchiata”.

Smettiamola di parlare di mercato: anche lì c’è una massa manovrata e una minoranza che manovra e né l’una né l’altra crede in qualcosa ad eccezione dei soldi. Ai fondi europei, americani, chissà forse anche cinesi, non importa niente di cosa succederà alla Grecia o all’Italia. Non si preoccupano neanche di cosa succederà all’economia mondo di cui fanno parte anche loro. La loro è una logica da pirateria: attaccano, rubano e scappano. Che poi la nave affondi o riprenda a navigare non è affar loro.

Va comunque sottolineato che nella prima fase, il guadagno degli speculatori non si realizza alle spalle dello stato, ma degli altri soggetti privati che svendono i loro titoli per effetto della paura. Il danno per lo stato arriva in un secondo momento, allorché si ripresenta sul mercato finanziario per ottenere nuovi prestiti. A questo punto scatta la seconda strategia di arricchimento degli speculatori, che invocano la sfiducia nei confronti dello stato per pretendere interessi più alti sui nuovi prestiti richiesti. Considerato che per l’Italia ogni punto di aumento percentuale degli interessi corrisponde ad un maggiore esborso di 35 miliardi di euro, si capisce la preoccupazione per gli attacchi speculativi.

Ma va precisato che la speculazione è possibile solo perché la legge la consente. Niente vieterebbe al governo e al parlamento di prendere dei provvedimenti che impediscono gli attacchi speculativi almeno sui titoli pubblici. Per farlo, basterebbe avere il coraggio di mettersi contro il potere finanziario che però i politici non hanno, perché per rimanere al potere non è del popolo che hanno bisogno, ma della complicità del potere economico. Del resto si sa che molti politici hanno i piedi contemporaneamente in due scarpe: quella della politica e quella degli affari. Due casi per tutti: Matteo Colaninno, al tempo stesso deputato PD e vice presidente del gruppo Piaggio, e Silvio Berlusconi, al tempo stesso deputato PDL, presidente del Consiglio e principale azionista di Fininvest. Dunque non deve stupire se la consegna dell’intero arco parlamentare è piegarsi al ricatto dei mercati e affrettarsi a fare delle manovre correttive che hanno lo scopo di convincere i mercati che lo stato italiano è un debitore affidabile. Un debitore, cioè, disposto a fare tirare la cinghia al suo popolo pur di pagare gli interessi ai creditori.

La disponibilità dei nostri politici a calare le braghe è senza limiti e non protestano neanche quando gli interessi si fanno così esosi da correre il rischio che lo stato soccomba. Del resto alle banche questa prospettiva non sembra interessare, anzi forse è proprio ciò che vogliono, come è nella politica di molti strozzini a cui non interessa tanto cosa possono guadagnare dagli interessi, ma cosa possono ricavare dalle spoglie del debitore. Questa è la terza strategia di arricchimento degli speculatori.

In molti paesi del Sud del mondo è abituale che gli strozzini cedano prestiti ai piccoli contadini ad interessi da capogiro in modo da dissanguarli e fare scattare la trappola alla prima rata non pagata. A quel punto inviano avvocati, notai e sicari, ciascuno con la propria arma di ricatto, per costringere i contadini a chiudere la partita cedendo i propri averi. E se il debitore non ha niente da dare possono prendersi lui stesso in ostaggio riducendolo in schiavitù.

Nei confronti degli stati indebitati si assiste alla stessa scena. Nelle loro capitali arrivano emissari di ogni genere, della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale, delle società di rating, tutti con la stessa missiva: “pagate ciò che il mercato vi impone e se non potete pagare, svendete”.

Soprattutto “svendete” perché il vero disegno di mercanti, banche, assicurazioni, imprese di servizi, tutti intrecciati fra loro come serpenti in amore, è di mettere le mani sulle proprietà degli stati. Vedere tanta ricchezza e non poterla toccare, alla stregua di un frutto proibito, è una sofferenza indicibile, da sempre si scervellano per impossessarsene. Così si scopre che si scrive debito, ma si pronuncia privatizzazione, il sogno eterno dei mercanti di accaparrare palazzi, spiagge, parchi, isole, ma anche acqua, scuola, sanità, elettricità, gas, strade e tutto il resto che gli stati possiedono e gestiscono. Beni comuni che la struttura pubblica mette gratuitamente a disposizione di tutti per il bene di tutti, ma che i mercanti vogliono per sé per ricavarci profitto.

 

6. Perché si tagliano le spese sociali in nome del debito pubblico?

R. Dobbiamo prendere coscienza che il debito pubblico è un nodo che rischia di compromettere lo stato sociale dei prossimi trecento anni. E sicuramente lo è se la parola d’ordine di destra e sinistra continua ad essere “restituire il debito senza colpire i ricchi”. Tant’è si perseguono due sole strade, entrambe esplosive: la riduzione delle spese sociali e la svendita del patrimonio pubblico.

Si giustifica il taglio alle spese sociali con l’argomentazione che il primo obiettivo di risanamento della finanza è evitare di accumulare altro debito. Il che si ottiene col pareggio di bilancio, ossia con una riduzione delle spese sufficiente ad avere di che pagare gli interessi. Se fossimo governati da partiti che hanno a cuore l’equità e il benessere dei cittadini, le manovre correttive sarebbero realizzate aumentando le tasse sui ricchi e tagliando le spese inutili e dannose come quelle militari e i privilegi della politica. Ma oggi né destra, né sinistra hanno a cuore il bene comune e sia l’una che l’altra cercano di raddrizzare i conti pubblici accanendosi verso i redditi medio-bassi e tagliando le spese per il personale, per l’istruzione, per l’assistenza, per i comuni che si occupano delle politiche sociali a livello locale. Ed ecco il taglio di 8 miliardi di euro alla scuola nel triennio 2009-2011; di 10 miliardi alla sanità dal 2011 al 2014, di 15 miliardi di euro a regioni e comuni nello stesso periodo.

Ma la preda che governo, confindustria e Unione Europea sono assolutamente intenzionati a spolpare è la previdenza sociale. Eppure tutti sanno che il nostro sistema previdenziale è fondamentalmente in equilibrio. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2009, dimostrano che il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali è in attivo per 27,6 miliardi di euro, pari all’1,8% del Pil. Solo un artificio contabile consente alla Corte dei Conti di affermare che il sistema previdenziale è in deficit, addirittura di 77 miliardi nel 2010. Ma ciò dipende dal fatto che il fondo previdenziale è usato anche per il pagamento delle pensioni sociali e dei sussidi di disoccupazione che dovrebbero essere a carico della fiscalità generale. In realtà l’accanimento verso il sistema previdenziale non è dovuto alla sua debolezza, ma alla sua solidità. Nel 2010 i versamenti per contributi sociali sono ammontati a 214 miliardi di euro, quasi un terzo delle entrate totali dello stato. Se solo una parte potesse essere sottratta al pagamento delle pensioni, si potrebbero risolvere molti problemi senza mettere le mani nelle tasche dei ricchi.

In ogni caso va tenuto presente che il pareggio di bilancio è solo uno degli obiettivi. L’altro è l’abbattimento del debito accumulato, la famosa restituzione del capitale in nome della quale si impongono ulteriori sacrifici. Ma tutto ha un limite e anche i politici sanno di non poter restituire 1900 miliardi di euro solo con i tagli alle spese, perciò ricorrono alla vendita del patrimonio pubblico esattamente come si fa in famiglia che dopo aver tagliato sul riscaldamento, sul cinema, sul telefono, si vendono le proprietà di famiglia. Tant’è la parola d’ordine è privatizzare e solo per miracolo, grazie al referendum di maggio, abbiamo salvato l’acqua. Ma il decreto di agosto 2011 prevede misure per la privatizzazione di tutte le municipalizzate, mentre il provvedimento per l’introduzione del federalismo, varato nel 2010, trasferisce i beni demaniali ai comuni con licenza di venderli per il risanamento delle casse locali. Di questo passo ci troveremo una comunità nazionale senza più un edificio, un parco, una strada, un’azienda pubblica che garantisca qualsivoglia servizio gratuito a favore di tutti. Così stiamo recitando il requiem dell’economia del bene comune, ricordandoci che una volta dilapidata ci vorranno secoli per ricostruirla.

Fonti: dpr 98/2011 convertito in legge 111/2011; dpr 138/2011 convertito in legge 148/2011; Felice Roberto Pizzuti, Pensioni, perchè è giusto indignarsi, il Manifesto 27.10.2011; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Decreto legislativo n.85 del 28 maggio 2010.

 

7. Perché tutti invocano la crescita per la soluzione del debito pubblico?

R. Il debito è come una tavola a cui si presentano degli ospiti inattesi. Si può decidere di respingerli e il problema è risolto, ma se si accolgono ci sono due soli modi per servire anche loro: ridurre le razioni di tutti o aumentare le portate. Ed ecco la crescita come soluzione del debito in alternativa ai tagli e agli aumenti di tasse.

L’argomentazione è che se aumenta la ricchezza prodotta, automaticamente dovrebbe aumentare anche il gettito fiscale e quindi le risorse per il pagamento di interessi e capitale. Ma la crescita pone tre ordini di problemi: una questione di soldi, una questione di diritti, una questione di compatibilità ambientale.

La questione dei soldi si pone perché per investire le imprese hanno bisogno di stimoli. Se si tratta di imprese orientate al mercato interno, come quelle delle costruzioni e delle infrastrutture, richiedono ordini. Si aspettano che lo stato le ingaggi per la costruzione di strade, ponti, ferrovie, acquedotti. Se si tratta di imprese orientate al mercato globale richiedono sovvenzioni. Si aspettano che lo stato le aiuti con finanziamenti alla ricerca, con facilitazioni fiscali e riduzione degli oneri sociali, in modo da avere meno costi e quindi essere più competitive. Ma dove trovare i soldi se il fondo del barile è già stato raschiato? L’indicazione delle imprese è tagliare ulteriormente le spese correnti per recuperare risorse per loro. Così la crescita si trasforma in antagonista delle spese sociali.

Sapendo di non avere soldi da spendere, il governo Berlusconi ha cercato disperatamente delle scorciatoie per favorire le imprese a costo zero. Ma l’unica via che ha trovato è la riduzione del costo del lavoro tramite la riduzione delle garanzie contrattuali: preminenza dei contratti aziendali sui quelli nazionali, maggiore libertà di licenziamento, minori tutele nelle assunzioni. Così la crescita si trasforma in antagonista dei diritti dei lavoratori.

Ma il problema principale è che oggi non ci sono più margini per la crescita. E non tanto per ragioni economiche, quanto ambientali. Le nostre economie sono già cresciute fin troppo, se tutti i paesi del mondo pretendessero di raggiungere i nostri livelli di ricchezza, il pianeta collasserebbe. L’assottigliarsi delle risorse e la necessità di ridurre l’inquinamento ci impongono sobrietà nei consumi e prudenza nella produzione. La nostra sfida non è accrescere la produzione, ma ristrutturarla in modo da garantire a tutti di vivere bene nel rispetto dei limiti del pianeta. Per riuscirci dobbiamo aver chiaro che il benessere non si misura con la quantità di lattine di coca-cola che buttiamo nel carrello della spesa o col numero di apparecchi televisivi che abbiamo per casa. Prima che dalle cianfrusaglie di mercato, la dignità personale dipende dalla qualità dell’abitare, dalla possibilità di curarsi e vivere in buona salute, dalla capacità di esercitare pienamente le funzioni di cittadino sovrano, dalla possibilità di fare comunità, dalla possibilità di potersi nutrire, vestire, muoversi, scaldare a buon mercato. Per questo il vero sviluppo, quello umano e sociale, non dipende dalla crescita del prodotto interno lordo, ma dal grado di equità, di inclusione lavorativa, di solidarietà collettiva che siamo capaci di mettere in atto. Dipende dal livello di diritti che sappiamo garantire, dalla quantità e qualità dei servizi collettivi che sappiamo fornire, dal tipo di città che sappiamo strutturare, dalle forme e dai tempi di lavoro che sappiamo organizzare, dalle forme di partecipazione che sappiamo promuovere.

Non di più, ma meglio e diverso devono essere le nuove parole d’ordine. Non si tratta di creare nuove fabbriche, ma di trasformare quelle esistenti per renderle più eco-compatibili e metterle in condizione di produrre ciò che serve secondo nuovi schemi di consumo orientati ai bisogni fondamentali per tutti. Trasformarle non solo da un punto di vista tecnico, energetico e produttivo, ma anche dell’assetto proprietario, delle forme di assunzione, dei tempi di lavoro, dei livelli salariali, dei diritti sindacali, tenendo a mente che il lavoro non è un costo da comprimere, ma una ricchezza da valorizzare. Una funzione che tutti abbiamo il diritto-dovere di svolgere in forma dignitosa e sicura per poter prendere parte alla ricchezza prodotta. E non solo in ambito mercantile, ma sempre di più in ambito collettivo perché quando le risorse si fanno scarse non è espandendo il mercato, ma l’economia della solidarietà collettiva, che si può permettere a tutti di vivere con dignità.

Dunque non è alla crescita che dobbiamo puntare, ma a un altro modello organizzativo che pur mantenendo consumi e produzione al minimo, consente a tutti la piena inclusione lavorativa, il pieno soddisfacimento dei bisogni fondamentali, la piena realizzazione umana, sociale e politica. Ma per riuscirci è quanto mai necessario trovare un via di uscita dal debito alternativa a quella presente, per non trovarci del tutto spogliati.

 

8. Cosa significa “congelamento del debito?”

R. Congelare il debito non significa dichiarare fallimento, o default, come dicono gli inglesi. Il fallimento è una dichiarazione di resa assunta per impotenza economica. Il congelamento è una dichiarazione di volontà assunta per decisione politica. E’ il sussulto di un popolo che si riappropria della propria sovranità.

Congelare il debito significa sospendere il pagamento di capitale e interessi, a banche, fondi e assicurazioni, per un periodo di tempo di uno o due anni, in modo da recuperare quella libertà e quella cognizione di causa necessarie a poter definire, in piena autonomia, criteri e tempi di uscita dal debito.

Il primo obiettivo del congelamento è mettere fuori gioco la speculazione in modo da non avere più la pistola dei mercati puntata alla tempia. Se gli speculatori sapessero che non si può ottenere più niente, perché i rubinetti dello stato sono chiusi, la smetterebbero con i loro giochetti per fare aumentare i tassi di interesse.

Portarsi fuori ricatto è già un passo importante per recuperare libertà decisionale, ma nel contempo bisogna fare luce sui fatti perché indagando possono emergere elementi che ribaltano la situazione. Oggi che conta solo l’interesse dei creditori, ci si focalizza solo sui numeri che misurano la capacità di pagamento dello stato. Ma se cambiamo prospettiva e mettiamo al centro della nostra attenzione la tutela della collettività, capiamo che prima di tutto dobbiamo studiare la formazione del debito per stabilire se persiste o meno l’obbligo del pagamento.

Quando i popoli del Sud del mondo hanno analizzato come si era formato il debito dei loro paesi, hanno scoperto che gran parte era stato accumulato per arricchire indebitamente politici e centri di potere economico. Pertanto lo hanno ripudiato perché non si può chiedere ai popoli di impiccarsi per ripagare le malefatte dei governanti con la complicità delle banche.

Dunque il secondo obiettivo del congelamento del debito è prendersi il tempo per condurre una seria indagine sulla formazione del debito in modo da definire quale parte è doveroso pagare perché utilizzato per il bene comune e quale parte, invece, è legittimo ripudiare perché dovuto a frode, ruberie, corruzione, sprechi, opere inutili e dannose, arricchimenti e regalie indebite a caste, banche, imprese.

Un’indagine che valuti anche il ruolo avuto dagli interessi e che esamini la lista dei creditori per capire se ce ne sono che da decenni si arricchiscono alle spalle del debito pubblico. In tal caso bisognerà fare un conto di quanto hanno incassato per stabilire se non sia arrivato il momento di dire basta. A meno che non si voglia affermare che la rendita è un diritto perpetuo, bisognerà pur stabilire quando cessa il diritto del creditore a pretendere un compenso dal debitore. Ad esempio, quando l’esborso per interessi è pari al doppio del capitale non potrebbe aver senso annullare ogni rapporto di dare e di avere?

E ancora non basta. Una seria indagine deve occuparsi anche delle entrate perché se è vero che il deficit è una sfasatura fra entrate e uscite non è detto che la responsabilità sia solo dell’eccesso di spesa. Può essere dovuto anche a una carenza di entrate. In Italia, ad esempio, abbiamo un tasso di evasione altissimo e sappiamo che dal 1982 ad oggi si sono abbassate le aliquote oltre i 75000 euro dal 72 al 45%. Per lo stato ha significato senz’altro un mancato incasso che gli ha procurato un doppio danno: il peggioramento del debito e un maggiore esborso per interessi. Per i ricchi, invece, si è trattato di un doppio guadagno: mancato esborso fiscale e incasso di interessi perché la beffa è che i soldi risparmiati sono finiti comunque allo stato, ma sotto forma di prestito. E allora chi è il vero debitore: il popolo depredato dai ricchi o i ricchi che hanno derubato il popolo?

 

9. Quali possono essere le conseguenze collettive del congelamento del debito?

R. Ogni volta che uno stato osa sfidare le regole imposte dai creditori, si paventano scenari tenebrosi per il loro futuro. In realtà i paesi che in passato hanno avuto il coraggio di dichiarare una moratoria sul pagamento del debito, non sono naufragati, ma sono rinati. Lo mostra l’esperienza della Russia nel 1998, dell’Argentina nel 2001, dell’Ecuador nel 2007.

L’Ecuador, tra l’altro, è un esempio concreto di inchiesta sul debito. Sette mesi dopo la propria elezione, il neo presidente Rafael Correa ha istituito una commissione d’inchiesta formata da 18 esperti che hanno cominciato a lavorare nel luglio 2007. Dopo 14 mesi di lavoro hanno consegnato un rapporto che mostrava chiaramente l’esistenza di numerosi prestiti accesi in violazione delle più elementari norme di legalità. Sulla base di tali risultanze, nel novembre 2008 il governo ha dichiarato la sospensione del pagamento di titoli in scadenza nel 2012 e nel 2030. Finalmente il governo di questo piccolo paese è uscito vittorioso da una prova di forza con le banche nord-americane e per 900 milioni di dollari ha ricomprato titoli del valore nominale complessivo di oltre 3 miliardi. Se si considerano anche gli interessi annullati, il risparmio totale per l’Ecuador è stato di 7 miliardi di dollari che il governo può spendere per spese sociali, sanità, istruzione, trasporti.

Certo si dirà che la posizione dell’Italia non è quella dell’Ecuador, e uno sgarbo ai creditori potrebbe costarle la fuga massiccia di capitali, l’espulsione dall’euro, una catastrofe economica a causa del fallimento delle banche. Tutte ipotesi che andrebbero verificate non solo per capire quante probabilità hanno di avverarsi, ma anche per stabilire se siano realmente minacce o se invece non potrebbero rivelarsi delle opportunità.

Premesso che nessuna forza economica, sia essa bancaria, finanziaria, o commerciale, ha interesse a mandare a fondo un paese come l’Italia, perché loro sarebbero i primi a rimetterci, va precisato che se anche perdessimo capitali forse non sarebbe un gran danno dal momento che non sono impiegati per attività produttive, ma per iniziative speculative. Quanto alla nostra presenza nell’euro, si impone una valutazione fra costi e benefici. Sicuramente ci hanno guadagnato le imprese fortemente inserite nel mercato europeo, ma ci hanno perso, fino a morire, molte piccole a vocazione locale, che sono state sgominate dalle potenti imprese tedesche o francesi. Da più parti si richiede, se non di uscire dall’euro, di consentire la contemporanea circolazione di monete regionali, per favorire le imprese locali. E se proprio dovessimo tornare alla lira, forse non sarebbe del tutto negativo. Quanto meno restituiremmo al nostro stato il potere di controllo sulla moneta, sui tassi di interesse e sui tassi di cambio, tutti strumenti di governo dell’economia oggi perduti a favore di Bruxelles che li gestisce unicamente nell’interesse delle banche e dei grandi gruppi speculativi.

Infine l’ultima minaccia: il fallimento delle banche. A questo mondo tutto è possibile, ma stando ai fatti, i titoli pubblici che le banche detengono solo raramente e in piccola parte si trasformano in denaro sonante. Solitamente se ne stanno chiusi nelle casseforti e quando arrivano a scadenza non provocano un incasso di denaro, ma una partita di giro perché la somma disponibile è subito riutilizzata per l’acquisto di titoli di nuova emissione. Tutto questo per dire che stiamo parlando di ricchezza virtuale scritta nei libri contabili, che i detentori usano più come strumento giuridico per avere diritto a una rendita, che come ricchezza da spendere. Se i titoli pubblici si deprezzassero o venissero cancellati, la banca risentirebbe un danno più per i mancati interessi che per la perdita patrimoniale. Perciò un danno contenuto che certo può ripercuotersi negativamente sugli azionisti e sui dipendenti, ma che difficilmente porta al fallimento bancario. Evento che può comunque essere prevenuto con opportuni interventi legislativi.

Fonte: Eric Toussaint, La dette ou la vie, CADTM 2011.

 

10. E’ vero che se lo stato congela il debito, i clienti delle banche non avranno più indietro i loro depositi?

R. Da un punto di vista strettamente finanziario la risposta è no. Ma la capacità delle banche di rifondere i propri clienti è fortemente influenzata dalla fiducia di cui godono. In condizioni di normalità le banche soddisfano tranquillamente le richieste di rimborso, non perché abbiano in cassa l’equivalente di tutti i depositi, ma perché i clienti che chiedono di avere indietro i loro soldi sono relativamente pochi.

Detta molto schematicamente, il mestiere delle banche è guadagnare sull’impiego di soldi ottenuti da terzi, creando una differenza fra i tassi di interessi pagati e quelli incassati. Pertanto hanno la convenienza a impiegare tutto ciò raccolgono, lasciando nel cassetto il meno possibile. In condizioni normali questa situazione non preoccupa perché è dimostrato che il numero di persone che si presentano per ritirare i propri risparmi sono pochi e in ogni caso lo fanno solo per ragioni economiche. Tutti gli altri, che non si trovano in stato di bisogno, dormono sonni tranquilli perché sentono i propri soldi al sicuro. Ma questo equilibrio può rompersi se per una ragione qualsiasi la gente perde fiducia sull’affidabilità delle banche. In quel caso tutti si precipitano a ritirare i propri depositi ed è la volta buona che non li ottengono perché di soldi in cassa non ce ne sono.

In caso di congelamento del debito, può scatenarsi una sfiducia collettiva che spinge a dare l’assalto alle banche, ma molto dipende da come lo stato gestisce la situazione.

Va comunque tenuto presente che il rischio fallimento delle banche è reale e non tanto per le quote di debito pubblico che detengono, ma per il rischio di perdere somme colossali che hanno investito in spregiudicate operazioni di speculazione finanziaria. Non a caso i governi occidentali hanno già sborsato 13000 miliardi di dollari per salvare le banche e altri ne stanno cercando. Tutto questo per dire che oggi non c’è più nessuna certezza e che i primi ad avere l’interesse a rimettere le cose a pulito sono proprio i piccoli risparmiatori. Una proposta in tal senso è quella di nazionalizzare le banche per la parte che coinvolge i risparmiatori e le imprese, lasciando che tutto il resto sia abbandonato al proprio destino, esattamente come hanno fatto in Islanda.

 

11.E’ possibile congelare il debito pubblico salvaguardando le famiglie che hanno investito in Buoni del Tesoro?

R. Poichè i Buoni del Tesoro sono nominativi, il congelamento del debito può essere gestito in maniera altamente selettiva, in base ai detentori e all’ammontare posseduto. Quindi può essere stabilito che vengano esclusi dal congelamento i titoli intestati a persone fisiche al di sotto di un certo valore per non compromettere la loro sicurezza di vita.

 

12. Quali strategie si possono perseguire per ridurre il debito pubblico senza danno sociale?

R. Prima di tutto bisogna abbatterne la dimensione, individuando, tramite apposita Commissione d’inchiesta, la parte da ripudiare perché illegale, illegittima e odiosa. Ma se l’ammontare da ripagare persiste eccessivo, si impone la necessità di ristrutturarlo tramite un ridimensionamento d’imperio o negoziazioni con i creditori in modo da ridurre il peso degli interessi e del capitale da restituire.

In ogni caso serve un piano di restituzione che definisca tempi e modalità di finanziamento. Il che significa agire sia sul piano delle entrate che delle uscite. Sul piano delle entrate, prima di tutto bisogna ripristinare una seria politica fiscale di tipo progressivo come prescrive la Costituzione. Ossia applicare aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito. Contemporaneamente bisogna reintrodurre una seria patrimoniale che colpisca la ricchezza accumulata oltre misura, sotto forma di beni mobili e immobili, depositi e titoli. Oggi perfino la Confindustria sostiene una simile proposta, evidentemente per paura che l’eccesso di disuguaglianza o di sacrifici sociali possa scatenare una pericolosa sollevazione popolare. Di sicuro il risultato sarebbe garantito: Pellegrino Capaldo, storico banchiere ed esperto di finanza pubblica, ha calcolato che un’imposta sugli immobili, fra il 5 e il 20 per cento del loro valore, potrebbe garantire un introito sufficiente a poter dimezzare il debito pubblico.

Il discorso sulle entrate potrebbe continuare con misure contro l’evasione fiscale e l’economia in nero che procura un mancato incasso di oltre 120 miliardi di euro l’anno. Nel contempo si dovrebbe lavorare anche sul piano delle uscite. Bisognerebbe eliminare ogni forma di spreco e di privilegio a vantaggio di politici, alti funzionari e dirigenti di imprese pubbliche. Bisognerebbe ridurre le spese militari ritirandoci da ogni missione neocoloniale e cancellando qualsiasi sistema d’arma a scopo offensivo. Si dovrebbero abbandonare tutte le opere faraoniche utilizzando gli stessi soldi per il risanamento dei territori, il potenziamento delle infrastrutture e delle economie locali, la riconversione della produzione in un’ottica di sostenibilità, il miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità.

 

http://www.cnms.it/ildebitoin12risposte.html

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Sergio Michilini, 2001, ISOLA NELLA LAGUNA, olio su tela, cm.80x100

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