Siamo arrivati, dopo il doppio ritratto “Nietzsche e Mazzini”, al ritratto singolo di Friedrich Nietzsche con nel fondo il fiume Tagliamento, che mette pace, serenitá, chiarore e luce nella notte della umanitá che ci sta toccando vivere, all’inizio di questo secondo millennio.
La tragedia che stiamo studiando attualmente é quella greca, della prima opera matura del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche: “La nascita della tragedia”, che non tratta propriamente di drammi, disgrazie o disastri, ma di arte delle rappresentazioni di catastrofi chiarificatrici e liberatrici. Che é poi quello che stiamo vivendo oggi e dell’arte che avremmo bisogno oggi…..attivando il nichilismo (nichilismo attivo) a cui ci obbliga vivere il sistema capitalista globalizzato, o neoliberalismo contemporaneo.
Nietzsche, riflettendo sul teatro greco ci aiuta a rendere possibile l’affermazione di nuovi valori e nuove possibilitá esistenziali.
Qua sotto riproduciamo tutto il Capitolo 1, tradotto in pessimo italiano (l’unico che abbiamo incontrato in internet NON a pagamento). Lo so io che sto studiando questo testo cento volte migliore tradotto in spagnolo. Ma sicuramente saremo ben lontani dal testo originale in tedesco di questo che oltre ad essere considerato tra i massimi filosofi é altrettanto ritenuto uno dei maggiori scrittori di ogni tempo.
LA NASCITA DELLA TRAGEDIA
Capitolo I.
Apollo e Dioniso. — Sogno e realtà: l’artista e il filosofo. — L’occhio sereno come il sole. — Il mostruoso orrore e l’ebbrezza dionisiaca. — Il vangelo dell’armonia universale.
Avremo fatto un grande acquisto alla scienza estetica, quando saremo giunti non solo al concetto logico, ma anche all’immediata certezza dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla dicotomia dell’apollineo e del dionisiaco, nel modo medesimo come la generazione viene dalla dualità dei sessi in continua contesa tra loro e in riconciliazione meramente periodica. Questi vocaboli li prendiamo a prestito dai greci, i quali fanno accessibile all’intelligenza la profonda scienza occulta della loro concezione artistica non già per mezzo delle idee, bensì per mezzo delle immagini incisivamente nette del loro Olimpo. Sulle loro due divinità artistiche, Apollo e Dioniso, è fondata la nostra teoria, che nel mondo greco esiste un enorme contrasto, enorme per l’origine e pel fine, tra l’arte figurativa, quella di Apollo, e l’arte non figurativa della musica, che è propriamente quella di Dioniso. I due istinti, tanto diversi tra loro, vanno l’uno accanto all’altro, per lo più in aperta discordia, ma pure eccitandosi reciprocamente a nuovi parti sempre più gagliardi, al fine di trasmettere e perpetuare lo spirito di quel contrasto, che la comune parola di «arte» risolve solo in apparenza; fino a quando, in virtù di un miracolo metafisico della «volontà» ellenica, compaiono in ultimo accoppiati l’uno con l’altro, e in questo accoppiamento finale generano l’opera d’arte, altrettanto dionisiaca che apollinea, che è la tragedia attica.
Se vogliamo intendere meglio questi due istinti, immaginiamoli innanzi tutto come i due mondi artistici distinti del sogno e dell’ebbrezza: tra i loro rispettivi fenomeni psicologici corre lo stesso divario che, come si rileva, intercede tra l’apollineo e il dionisiaco. Nel sogno, secondo il pensiero di Lucrezio, apparvero la prima volta alle anime umane le sovrane immagini degli dèi, nel sogno il grande artista figuratore vide le forme affascinanti di esseri sovrumani; e il poeta ellenico, domandato del segreto della creazione poetica, si sarebbe anch’esso ricordato del sogno e avrebbe risposto con lo stesso ammaestramento, che ha dato Hans Sachs nei Maestri Cantori:
Amico, l’opera del poeta è appunto questa,
Che egli interpetri e fissi il suo sognare.
Credete a me: l’illusione più vera dell’uomo
Gli viene rivelata nel sogno:
Tutta l’arte e la poesia
Altro non è che rivelazione della verità nel sogno.
La bella apparizione dei mondi del sogno, nella cui creazione ogni uomo è perfetto artista, è il presupposto di ogni arte figurativa, e anzi, come vedremo, di una buona metà della poesia. Noi godiamo in modo immediato la comprensione dell’immagine, tutte le forme ci parlano, senza nulla d’indifferente o di non necessario. Nulladimeno, anche nella massima intensità di vita di questa realtà di sogno, noi serbiamo la sensazione che essa è un’apparenza: almeno tale è la mia esperienza, sulla cui generalità, anzi normalità, potrei addurre non poche testimonianze, e le stesse impressioni dei poeti. Di più, l’uomo filosofico ha il presentimento, che anche dietro la realtà nella quale viviamo e siamo, se ne nasconda un’altra, in modo che anche questa nostra realtà sia quindi un’apparenza; e Schopenhauer indica addirittura come contrassegno del talento filosofico il dono che altri abbia di vedere in certi momenti gli uomini e tutte le cose come puri fantasmi o ombre di sogno. Come il filosofo con la realtà dell’esistenza, cosi l’uomo artisticamente sensibile si comporta con la realtà del sogno: la contempla con diligenza e con soddisfazione; perché dalle immagini del sogno impara a spiegarsi la vita, e su queste esperienze si esercita per la vita. E non sono solamente le immagini amene e amiche quelle che egli apprende in sé stesse con piena lucidità di apprensiva: davanti a lui passa anche l’austero, il cupo, il luttuoso, il sinistro, e le brusche fermate, e le angherie del caso, e le aspettazioni angosciose, insomma tutta quanta la Divina Commedia della vita col suo inferno; e non passa meramente come la processione di una lanterna magica; ché egli vive queste scene e soffre insieme coi loro fantasmi, sebbene non smarrisca interamente la fuggevole sensazione della loro apparenza; anzi molti forse, come me, si ricordano, che tra i pericoli e lo spaveuto del sogno gridarono, riprendendo intanto animo e con effetto immediato: «È un sogno! Voglio sognarlo ancora!» Similmente, mi è stato raccontato di gente, che avevano la facoltà di prolungare l’incentivo e la ripetizione dello stesso sogno per tre e più notti successive: fatti, i quali chiaramente attestano, che la nostra intima natura, la sostanza a noi tutti comune sperimenta nel sogno per sé stesso un profondo piacere e una dolce necessità.
Questa dolce necessità dell’imparare dal sogno, i greci l’hanno configurata nel loro Apollo: Apollo, dio di tutte le facoltà figurative, è, insieme, il dio profetico. Esso che, secondo la radice del nome, è il «risplendente», la divinità della luce, è anche il patrono del bello splendore dell’intimo mondo della fantasia. La più alta verità, la compiutezza di questo dominio all’incontro della comune realtà intelligibile solo moncamente, del pari che la profonda coscienza che la natura risana ed aiuta durante il sonno e il sogno, formano il riscontro simbolico della facoltà profetica e in generale delle arti, in virtù delle quali la vita diviene comportabile e meritevole di esser vissuta. Ma nemmeno nella figurazione di Apollo deve mancare quella tenera ombreggiatura, che l’immagine sognata non può oltrepassare senza avere effetto patologico; altrimenti l’apparenza c’ingannerebbe come una realtà grossolana: dico quel senso adeguato del limite, quell’immunità dalle commozioni sfrenate, quella sapiente pacatezza del dio delle forme. L’occhio di lui, conformemente all’origine, dev’essere «sereno come il sole»; anche quando si adira e guarda accipigliato, splende intorno a lui la sautità del bel sembiante. Perciò in un senso analogico potrebbe ripetersi di Apollo ciò che lo Schopenhauer dice dell’uomo preso nel velo di Maia (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, S. 146): «Come sul mare in tempesta che, senza confini da nessuna parte, solleva ululando e sprofonda montagne d’acqua, il marinaio se ne sta nel suo battello, e confida nel fragile scafo che lo porta, cosi sta tranquillo in mezzo ad un mondo di dolore e tormento l’uomo singolo, fondando e fidando sul principium individuationis». Certo, bisogna dire, che la fiducia imperturbabile in quel principium e la tranquillità di chi vi si fonda, hanno avuto in Apollo l’espressione sovrana; e anzi bisogna riconoscere il superbo prototipo divino del principium individuationis appunto in Apollo, di cui i gesti e gli sguardi ci comunicano tutto il piacere e la saggezza dell’«apparenza» in uno con la sua bellezza.
Nello stesso luogo lo Schopenhauer ci ha descritto il mostruoso orrore da cui l’uomo è assalito, quando è staccato via di botto dalle abituali forme conoscitive del fenomeno, pel fatto che il principio di causa sembra che in taluna delle sue manifestazioni non si avveri, soffra eccezione. Se accanto a questo orrore poniamo il rapimento ardente, che per l’infrazione stessa del principium individuationis sale dal fondo intimo dell’uomo, anzi della natura, noi ci formiamo l’idea dell’essenza del dionisiaco, che ci è resa anche più accessibile mercè il paragone con la ebbrezza. Quei commovimenti dionisiaci, che sollevandosi sommergono in completo oblio il senso subiettivo, sorgono o per effetto delle bevande narcotiche, in virtù delle quali tutti gli uomini e i popoli primitivi parlano per inni, oppure per la potenza della primavera, il cui approssimarsi compenetra di allegrezza l’intera natura. Anche nel medio evo tedesco schiere sempre più fitte, prese dallo stesso ardore dionisiaco, si avvicendavano di borgo in borgo cantando e danzando: in cotesti danzatori di San Giovanni e di San Vito noi ritroviamo i cori bacchici dei greci, con le loro reminiscenze dell’Asia Minore, e perfino di Babilonia e delle feste orgiastiche sacee. Non mancano uomini che, imbaldanziti del senso della propria sanità, beffano o lamentano, per difetto di esperienza o per stupidità, siffatti fenomeni, considerandoli come «malattie popolari»: cotesti poveri di spirito non sospettano neppure fino a qual punto appare cadaverica e spettrale la loro «sanità», quando passa rombando vicino a loro il vampo di vita dei tripudiatori dionisiaci.
Il fascino dionisiaco non ripristina solamente i vincoli tra uomo e uomo: anche la natura, straniata o ostica o soggiogata, celebra la festa di riconciliazione col suo figliuolo smarrito l’uomo. La terra gitta di buon grado i suoi doni, e le belve rapaci delle rupi e del deserti si avvicinano in pace. Il carro di Dioniso è coperto di fiori e ghirlande; la pantera e la tigre avanzano sotto il suo giogo. Si trasmuti il cantico dell’«allegrezza» di Beethoven in un quadro dipinto, e non si arresti il corso dell’immaginativa fino a quando milioni di esseri non cadano fremendo nella polvere, percossi dal prodigio: solo cosi possiamo appressarci a ciò che è l’amraaliazione dionisiaca. Ecco che lo schiavo è libero, ecco che tutti infrangono le rigide, nemiche barriere, che il bisogno, l’arbitrio o «la moda insolente» hanno piantato tra gli uomini. Ecco che nel vangelo dell’armonia universale ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma si sente fatto uno con lui, quasi che il velo di Maia fosse squarciato e svolazzasse non più che in brandelli davanti al mistero dell Uno primigenio Nel canto e nella danza l’uomo si palesa come componente di una comunità superiore, egli ha disimparato a camminare e a parlare, e danzando è in atto di volarsene via nell’aria. Nei suoi atteggiamenti parla la magia. E come frattanto gli animali ora parlano e la terra dà latte e miele, cosi anche da lui si propaga armoniosamente alcunché di soprannaturale: e e li si sente come un dio, ed ora egli stesso incede rapito e sublime, come vide in sogno incedere gli dèi. L’uomo non è più artista; è divenuto egli stesso l’opera d’arte: la potenza artistica di tutta la natura, a suprema beatificazione dell’Uno primigenio, si rivela ora nello stupore dell’ebbrezza. La creta più nobile, il marmo più prezioso vengono ora impastati e levigati: l’uomo: e ai colpi di subbia dell’artista dionisiaco costruttore di mondi risuona la voce dei misteri di Eleusi: «O milioni di esseri, voi vi prosternate? O mondo, presienti tu il creatore?».
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