Articolo di Mauro Castagnaro per la rivista “Il Regno”
Quando si pensa al rinnovamento della Chiesa latinoamericana dopo il Concilio Vaticano II, la mente va subito alla Teologia della liberazione, alle Comunità ecclesiali di base, agli innumerevoli preti, religiose, catechisti, vittime della repressione, insomma alla riflessione di fede, ai nuovi modelli di Chiesa e al martirio che l’impegno sociale ha prodotto. Noti, invece, solo in ambienti più ristretti sono la “lettura popolare della Bibbia”, la vita religiosa “inserita negli ambienti popolari”, l’educazione liberatrice e l’ecumenismo di base.
Mancano, infine, studi sistematici sulla liturgia – che pure annovera celebrazioni contestualizzate di grande interesse quasi in ogni paese, dalle centroamericane Misa campesina nicaraguense e Misa popular salvadoreña alle brasiliane Missa dos quilombos (legata alla cultura afro) e Missa da terra sem males (incarnata nel mondo guaranì) – e l’arte sacra.
Quest’ultima si è sviluppata in una molteplicità di forme (disegni, pitture, manifesti, illustrazioni per opuscoli e riviste, mosaici, opere architettoniche, arredi per chiese, ecc.) che hanno dato vita, per la prima volta dall’epoca della “scoperta-conquista”, a un’iconografia cristiana autenticamente “latinoamericana”. Fino ad allora, infatti, le uniche immagini sacre presenti nel continente erano quelle importate dai missionari dall’Europa, coi temi e le forme stancamente devozionali, ripetitivamente apologetici e stucchevolmente oleografici del cattolicesimo tardocontroriformista.
Massima espressione di questa innovazione artistica sono i murales che riempiono chiese, cappelle, case di formazione e scuole, il cui più prolifico autore è il claretiano spagnolo Maximino Cerezo Barredo, soprannominato “il pittore della liberazione”; in 40 anni egli ne ha dipinti oltre duecento in 30 paesi di quattro continenti, ma la stragrande maggioranza in America latina, soprattutto in Perù, Colombia, Brasile, Panama e Venezuela, collaborando con confratelli vescovi come mons. Ivan Castaño a Quibdó, mons. Carlos Ariz a Colon-Kuna Yala e mons. Pedro Casaldaliga a São Felix do Araguaja.
L’opera più monumentale è però probabilmente il ciclo pittorico di integrazione plastica “Storia del Nicaragua”, realizzato dall’italiano Sergio Michilini nella chiesa di Santa Maria de los Angeles a Managua, che armonizza pitture murali, altorilievi e sculture in ceramica in un complesso di 680 metri quadri.
A volerla fu il parroco francescano Uriel Molina, uno dei principali teorici della rivoluzione sandinista, la prima di orientamento socialista a vedere la massiccia partecipazione di cristiani: “In Italia avevo imparato che gli affreschi del Medioevo erano la Bibbia dei poveri. Dopo il trionfo della rivoluzione ho pensato di fare una chiesa nella quale il nostro popolo potesse rivivere la propria storia di liberazione attraverso la pittura. Ho concepito questa chiesa come un annuncio”. Un intento, quindi, di evangelizzazione, anzi, più propriamente, catechetico, ma di una catechesi rinnovata alla luce del Vaticano II, in particolare là dove supera ogni dualismo tra “storia sacra” e “storia profana”, ma chiede di scorgere l’opera di Dio nell’unica storia delle persone e dei popoli, e dove non si limita a proporre la trasmissione della memoria dell’“evento Gesù” come fatto del passato, ma sollecita i credenti a scoprire la presenza viva del Cristo crocifisso e risorto nelle vicende degli uomini e delle donne di oggi.
Aggiunge p. Cerezo :“L’arte cristiana tenta di rendere intelleggibile il kerigma della fede per gli uomini e le donne del nostro tempo. Il linguaggio del Vangelo è in maniera immutabile formato da due argomenti sovrapposti di kerigma: il Regno di Dio, cardine della Buona Novella, e i poveri di Dio, che sono i primi destinatari del Regno e i suoi eventuali annunciatori. In qualche maniera l’arte cristiana rende possibile l’incontro col Dio che Gesù manifesta. Ma il luogo dell’incontro non è il tempio, bensì – come direbbe Theodor Adorno – ‘il puzzolente fosso della storia’, dove l’uomo Gesù patisce la violenza degli uomini. Nei miei murali c’è una teologia in immagini. Recupero i muri delle chiese come posto di permanente annuncio della Buona Novella, trasformandoli in un locus theologicus”.
La nuova iconografia inculturata – espressionista, colorista, figurativa – parte dalla religiosità popolare e da una visione del Dio della Vita che si fa storia nella realtà concreta del popolo, secondo i canoni della “Chiesa dei poveri”, mescolando fede religiosa e impegno politico, contemplazione di Dio e militanza per l’umanità, ricerca spirituale e lotta sociale. Di fronte al rischio perenne che l’arte sia strumento di potere, nella misura in cui distoglie dai dolori della propria condizione offrendo evasione e rifugio in un mondo bello e non vero, quella latinoamericana diventa una forza che spinge a prendere coscienza della situazione e incita a cercare di mutarla.
I contenuti tradizionali (Dio, Gesù Cristo, lo Spirito santo, Maria, episodi della Bibbia o della storia della Chiesa, ecc.) vengono riletti in collegamento con la vita della comunità, coniugando memoria e denuncia dell’ingiustizia, irruzione del Dio dell’amore e del suo Regno nella storia, celebrazione della fede e della speranza in un futuro migliore.
Quindi Dio è colui che si prende cura dei propri figli e al contempo spezza le catene dell’oppressione (come nel Magnificat della chiesa di Luciara, nel Mato Grosso, dove “con le sue mani materne la Trinità ci fa comunità”, mentre “col suo braccio potente” distrugge una banca, un’antenna parabolica e un missile, simboli del capitale, delle bugie dei mass media e delle armi), colui che “ode il grido del suo popolo” e scende a fargli giustizia. Maria, assai presente nella devozione latinoamericana, è spesso identificata nelle madri delle vittime della violenza del potere, ma più in generale nelle donne protagoniste del lavoro, della lotta comune, dell’evangelizzazione, mamme coi bambini, giovani catechiste, donne che si riuniscono, si organizzano, si emancipano socialmente; Maria-la donna è personaggio “vitale”, protagonista della nascita e testimone della morte, al contempo esempio di resistenza e tenerezza. La Chiesa è il popolo di Dio (una “Chiesa che è popolo, popolo che è Chiesa”, come nel murale della chiesa di Coclecito a Panama), i poveri sono i protagonisti della comunità cristiana, la fede ispira l’impegno per un mondo più giusto e fraterno, anticipo del Regno. Il Regno di Dio e gli ultimi sono una presenza costante. Da una parte, infatti, lo spazio delle celebrazioni cristiane deve evocare e rimandare a una profonda esperienza di fede; dall’altra questa trova la sua verifica storica nella partecipazione ai movimenti popolari: “La vita dei poveri, le loro lotte per il diritto a vivere dignitosamente, le loro speranze e sofferenze, le loro vicissitudini di popolo escluso sono i luoghi teologici e cristologici privilegiati. Perciò dipingere la storia del popolo, il suo martirio, le sue tentazioni, la caminhada del suo lungo processo di liberazione è profondamente cristiano” (Cerezo).
Protagonista principale è comunque Gesù, la cui incarnazione ne fa “uno del popolo”, per cui è “Cristo contadino, afroamericano, indigeno, che si carica del dolore, delle gioie, delle speranze del nostro popolo, delle sue lotte per la liberazione piena, della sua profonda visione cristiana della vita” (Cerezo). Crocefisso tra i crocifissi, inchiodato a un albero alle cui radici stanno zaini militari o i simboli del profitto, nelle innumerevoli “Via crucis” la sua passione è archetipo e orizzonte di senso di quella che il popolo vive nell’ingiustizia e nell’oppressione, così come la sua risurrezione è garanzia e compimento ultimo della speranza in una società migliore e degli sforzi per edificarla. Contro le vecchie immagini “imperiali” della cristianità trionfante o quelle dolciastre di una spiritualità fatalista, questo Gesù cammina in mezzo al popolo, accompagna “l’occupazione della terra” da parte dei contadini nella cattedrale di São Felix do Araguaja, guida i poveri verso la terra promessa.
Temi privilegiati sono le Beatitudini e l’Esodo, la lotta tra Davide e Golia e il Magnificat, ecc., sottratti a una visione intimista per riproporli in chiave solidale. Questa sensibilità marca la rappresentazione dei momenti salienti della vita di fede e dei sacramenti, “dono e impegno per la costruzione del Regno”, come recita il murale della navata della chiesa di Taguatinga, in Brasile: la Bibbia aperta che nasce dal ventre della donna nera, a simboleggiare il legame Parola di Dio-vita; l’eucaristia con Gesù e la comunità che mangiano insieme pani e pesci, a ricordarne la moltiplicazione derivante dalla condivisione, nonché cibi locali; il battesimo come ricevimento dello Spirito, sotto forma di colomba, che inserisce nella comunità e sostiene l’impegno sociale, ecc. Nei dipinti compaiono leaders e martiri popolari (da Augusto Sandino, “padre della patria” nicaraguense, a p. Josimo Moraes Tavares, “martire della Commissione pastorale della terra” brasiliana, ucciso nel 1986, e soprattutto a mons. Oscar Romero, onnipresente “San Romero de America”).
La denuncia dell’ingiustizia e la descrizione dell’“anti-Regno” del peccato ha punte di grande forza espressiva, come nella chiesa del Morro de Areia, a Santa Terezinha, dove il grande capitale fondiario viene rappresentato come un trattore che schiaccia le persone, come un’enorme bocca che se ne ciba e come un idolo cui ci si inginocchia, mentre Gesù difende i poveri dall’enorme braccio del sistema che li vorrebbe ghermire. Nella cattedrale di Quibdó, in Colombia, la schiavitù degli ebrei in Egitto è messa in parallelo con la Conquista e col latifondismo agrario moderno, nelle piramidi dipinti insieme al nobile spagnolo cui gli schiavi offrono l’oro, sotto lo sguardo dell’oligarca che vorrebbe appropriarsi della terra servendosi dei militari e con la benedizione di un membro del clero. Anche la visione della Chiesa, infatti, non è apologetica e nelle raffigurazioni compaiono la bolla “Inter caetera” con cui Alessandro VI legittimava l’appropriazione delle terre indigene da parte dei conquistadores, ma anche fra’ Bartolomé de las Casas, e fra’ Antonio de Valdivieso, vescovi difensori degli indios nel XVI secolo.
Le scritte richiamano versetti biblici, solitamente scelti tra quelli che più esplicitamente evocano l’impegno per la liberazione (“Ho visto l’oppressione del mio popolo e sono sceso per liberarlo”, “Inviato a evangelizzare i poveri”, ecc.), frasi che sintetizzano messaggi catechetici (“La Trinità è la migliore comunità”, “Dio è per la vita”, “Chiamare Dio Padre nostro vuol dire fraternità”, ecc.) e slogan di contenuto politico-religioso (“Un popolo organizzato non muore mai”, “Giovanni Paolo: benvenuto nel Nicaragua libero grazie a Dio e alla rivoluzione”, ecc.). Numerosi sono i riferimenti a istituzioni considerate oppressive (il Fondo monetario internazionale, l’esercito, ecc.) o alle forme di autorganizzazione del popolo (Comunità ecclesiali di base, ecc.), e le scene della vita quotidiana (il lavoro, la festa, l’incontro comunitario, ecc.).
Il popolo è mostrato nella sua diversità (donne, uomini e bambini; indios, afroamericani e meticci; contadini, operai e venditori del mercato, ecc.), ma riscattandone dignità e vigore contro un’immagine svalutante di sottomissione e passività. I personaggi (compresi Cristo e Maria) hanno colore della pelle, volti e tratti somatici dei nativi, degli indigeni o dei neri, e abbondanti sono gli elementi della natura (animali e piante tipiche, come i pappagalli, l’agave o il caffè) e delle culture (maschere, balli, ecc.) locali.
A fare da sfondo è sempre la dialettica tra morte e vita, solitamente la morte violenta dei poveri frutto dell’ingiustizia, la morte dei neonati per malattie curabili e dei giovani vittime della repressione, la morte nella crudezza dei corpi torturati, crivellati di colpi d’arma da fuoco, dissanguati, la morte nella disperazione delle madri impotenti. E la vita, simboleggiata dal lavoro in comune, dal gioco dei bambini, dalle rivendicazioni dell’educazione dell’assistenza sanitaria, dalla costruzione della comunità. Spiega p. Cerezo: “La morte è costantemente presente nella storia dei popoli dell’America latina, perché i governi dimenticano i poveri, ‘impoveriti’ da questa negligenza. Ma per il popolo sofferenza, dolore e morte hanno in sé il seme della speranza in una vita nuova. I poveri trovano sempre qualcosa per sopravvivere. È un perenne processo pasquale: dalla morte quotidiana c’è sempre un’uscita verso la risurrezione”. Inoltre torna spesso la contrapposizione tra il “Dio della vita e idoli della morte”, come nel murale omonimo del Centro sociale Claret di San Felix, in Venezuela, dove un gruppo di operai cammina dietro Gesù denunciando il lusso dei ricchi, frutto della rapina ai danni del popolo, a ricordare che solo una Chiesa povera, inserita tra i poveri e che lotta contro la povertà può denunciare gli idoli e annunciare il Dio della vita.
La preoccupazione per i contenuti non implica comunque sciatteria formale, ma anzi stimola un accurato studio cromatico e la ricerca di soluzioni tecniche audaci, come spiega Michilini rispetto agli affreschi di Santa Maria de los Angeles, e in particolare al grande murale absidale dedicato alla Resurrezione: “In questa opera ci siamo proposti il massimo dell’azzardo rispetto al movimento dello spettatore e alle deformazioni ottiche che ciò provoca nella sua percezione dello spazio espressivo. Come supporto della pittura murale ‘abbiamo inventato’ una superficie di compensato concava, realizzando una composizione pittorica convessa, per cui la Croce e il Cristo sono le figure più vicine allo spettatore che entra nella chiesa. Inoltre il dipinto è basato sulle linee diagonali e oblique (riducendo al minimo quelle orizzontali e verticali). Questo provoca milioni di distorsioni ottiche; e qui sta la magia visuale del movimento infinito di piani, linee, figure a seconda dello spostamento di chi guarda, che dà un effetto ‘cinematografico’”. Né minore è l’attenzione alle cromie: il verde scuro deve prevalere all’ingresso riferendosi al passato, alla nascita del popolo nicaraguese; nella zona mediana i toni caldi del giallo, dell’arancio e del rosso richiamano il presente fatto della lotta quotidiana alle ingiustizie: il rosso comunica la passione, il sacrificio della rivoluzione, ma anche l’allegria e la fiducia nel cambiamento sociale. In ultimo, verso la parete absidale, prevalgono i viola e l’azzurro, che inducono la vista e lo spirito alla speranza del futuro ancora da compiersi. Il tutto in un’opera che mira a riunire architettura, scultura e pittura.
In questa ricerca artistica l’incontro col muralismo messicano – soprattutto coi “Tre grandi”: Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros – è inevitabile, riflettendosi nel realismo sociale e nel protagonismo dei diseredati, nel gigantismo figurativo, nella rappresentazione dei personaggi popolari, nell’intento pedagogico, nella capacità di usare la grandezza propria del murale per conferire al contadino, al martire, alla donna, spesso dimenticati, la “grandezza” e la dignità dell’essere fatti a immagine e somiglianza di Dio.
La tensione ideale si rivela anche nel metodo con cui gli artisti realizzano le opere: la prima fase è sempre dedicata alla conoscenza del territorio attraverso incontri collettivi e chiacchierate individuali con la gente del quartiere che frequenta la chiesa. Il coinvolgimento della popolazione, infatti, contribuisce in misura decisiva a far emergere nel murale i bisogni e i valori del luogo. Inoltre nell’opera d’arte essa deve poter riconoscere la propria storia e la propria fede, per cui i temi da rappresentare vengono decisi e sviluppati nel confronto coi fedeli, il che a volte comporta pure l’accantonamento di idee iniziali o la cancellazione-sostituzione di parti già dipinte. Così l’opera diventa a tutti gli effetti “collettiva”: essa nasce dalla comunità, dall’ascolto dei racconti delle persone più umili, dall’osservazione delle facce degli operai e dei contadini che rientrano da una giornata di lavoro, dalla discussione con gli agenti di pastorale.
Anche qui il “pittore”, come il teologo, della liberazione mette la propria competenza al servizio della comunità, sistematizzandone e traducendone nel linguaggio simbolico (piuttosto che razionale) l’esperienza di vita e di fede.
In generale l’artista è egli stesso parte della comunità, di cui condivide il cammino di fede e, almeno per un certo periodo, la vita quotidiana. E spesso l’autore dipinge nel pieno della persecuzione (Brasile), dell’aggressione (Nicaragua) e della guerra civile (Colombia), per cui nei quadri entrano personaggi ed eventi dell’attualità (la distruzione di una piccola clinica comunitaria da parte dei trattore di un latifondista a São Felix do Araguaja, le madri dei giovani soldati uccisi dalla contra a Managua, ecc.)
Anche quest’arte ha conosciuto il conflitto e la repressione, nelle minacce di espulsione e di morte contro p. Cerezo, “prete sovversivo”, nelle proteste dei benpensanti e dei notabili (che, per esempio, chiesero inutilmente di coprire i murales della cattedrale di Quibdò considerando un’offesa il ricordo della schiavitù), nelle critiche e nelle censure delle autorità ecclesiastiche – previe, in Argentina, dove il vescovo chiese a p. Cerezo di non rappresentare armi moderne nel murale dedicato alla pace nella chiesa di Olivos per non offendere i molti parrocchiani militari; posteriori in Colombia, dove il murale dedicato alla “opzione per i poveri” nella cappella dell’Istituto di pastorale del Consiglio episcopale latinoamericano a Medellìn è oggi coperto, come l’intero ciclo pittorico nella chiesa di Santa Maria de los Angeles, le cui parti d’integrazione plastica sono state in alcuni casi sostituite – o addirittura nella distruzione delle opere.
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