…”Del Novecento restano, insieme a molti altri doni, quelle tre grandi cose che furono la Costituzione, il Concilio, e il 68”….. così conclude il discorso Raniero La Valle per la festa dei suoi 80 anni.
La COSTITUZIONE (il Diritto e il bene comune di tutti i cittadini), il CONCILIO (la “opzione preferenziale per i poveri”) e il ’68 (la libertà e la utopia dell’amore come alternativa al potere)…”queste sono tre delle cose buone che restano del Novecento”….come ci suggerisce Raniero La Valle…….”ma nessuna di queste cose potrà sopravvivere, se non sarà assunta con amore, così come per amore sono state compiute”.
Molti di coloro che hanno vissuto il Novecento, o una parte di esso, anche con percorsi ed esperienze molto differenti da Raniero La Valle, condivideranno queste conclusioni, che riassumono a livello italiano, quello che è successo a livello mondiale nel secolo scorso: forse la più grande rivoluzione della storia umana…….un cambiamento di rotta di 180 gradi…che poi è stato incredibilmente interrotto, come acutamente chiarisce Raniero La Valle nel suo discorso.
Il “MAI PIU’” del dopoguerra è stato dimenticato….. è ritornata la guerra, la violenza, la ingiustizia, l’autoritarismo, lo sfruttamento, il razzismo, la speculazione, la precarietà, l’insicurezza, la paura…..mentre i Diritti (al lavoro, allo studio, alla salute, all’informazione, al sindacato, alla libera espressione e alla libera concorrenza) diminuiscono. Come pure diminuiscono giustizia, sostenibilità, biodiversitá, decrescita, solidarietà, cooperazione, tolleranza ecc.
Tutte e tre queste cose (il diritto, la fede e la libertà) non hanno potuto essere portate a compimento, e oggi rischiano di perdere il loro senso profondo e di essere buttate come cose vecchie e obsolete dalla infinita stupidità umana.
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E, parlando di cammini interrotti, io ne aggiungerei un’altro, visto che non stiamo parlando di un paese qualsiasi, ma dell’Italia, cioè di un paese che si vanta della sua creatività, genialità e qualità dei suoi prodotti……virtù che non vengono dalle nuvole, ma dalla nostra storia, dalla nostra grande e unica storia.
L’Italia è il paese che possiede gran parte del Patrimonio Artistico e Culturale della umanità, è il paese del Rinascimento dell’Arte e della Cultura, unico per i suoi cicli Pittorici, per la tecnica dell’Affresco e del Mosaico, per la Pittura di colore, per il Disegno…..per la integrazione della Architettura con la Pittura e la Scultura……..
Nel mondo l’Italia è stata la patria della PITTURA, linguaggio che in questo nostro paese ha raggiunto livelli altissimi.
In Italia la PITTURA è stata il paradigma della creatività a tutti i livelli.
E per servilismo, provincialismo, opportunismo e ignoranza la PITTURA è stata emarginata, uccisa, abbandonata, sia a livello didattico che produttivo……..
A partire dal 1960 siamo stati testimoni di questa tragedia italiana.
Ciononostante i percorsi, i cammini, le ricerche sono continuate, nella emarginazione, quasi clandestinamente o nell’esilio, e alcuni “segreti del mestiere” si sono salvati e in qualche modo sono stati tramandati fino ad oggi……molti, come noi hanno continuato la lotta e possiamo orgogliosamente dire che la Pittura Italiana ESISTE e RESISTE e si sta ricostruendo il cammino interrotto e aprendo ponti per il futuro: l’Italia, un giorno, nel futuro, forse, tornerà ad essere quello che è sempre stata nel mondo: la patria della Pittura, della Scultura e della Architettura e, conseguentemente, delle Arti Applicate, dell’Artigianato e della creatività ad altissimi livelli.
Del Novecento possiamo dire che….è rimasta anche la PITTURA…… e, insieme al DIRITTO, alla FEDE e alla LIBERTA’ potranno sopravvivere, come dice Raniero La Valle, solo se….”saranno assunte con amore, così come per amore sono state compiute”
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Riproduciamo stralci del discorso di Raniero La Valle per la festa dei suoi 80 anni
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“IL MIO NOVECENTO”
di Raniero La Valle
…..”Il Novecento è stato un secolo grande e terribile, affascinante e tremendo, tempo di morti e di rinascite. È il secolo che ha prodotto i totalitarismi e il costituzionalismo, che ha fatto le più grandi guerre e ha dato fondamenti alla pace, che ha inventato la bomba atomica e la dottrina della nonviolenza, che ha perpetrato la shoà, ha compiuto genocidi e ha visto popoli insorgere e liberarsi.
Per fortuna non è stato un “secolo breve”, come certi storici hanno sostenuto e così io, che ne ho attraversato gran parte, ho avuto una vita più lunga”.
Il fascismo
“Per me, il mio Novecento è cominciato nella notte del fascismo; ma essendo un bambino non ne sono stato, all’inizio, troppo turbato. È vero che sono stato balilla, e perfino balilla moschettiere, ma non ho fatto a tempo a diventare avanguardista, prima che il fascismo cadesse.
Forse ho fatto anche qualche tema sul duce. Il Duce era un mito. Ed io ricordo il mio choc quando per la prima volta mi sono imbattuto in un atto di demitizzazione. Fu quando su un manifesto affisso per la strada, abbastanza in basso perché un bambino potesse arrivarci, vidi scritto in un angolo, piccolo piccolo, a matita: Abbasso il duce. Mi fece un’impressione straordinaria. Dunque si poteva anche essere contro il duce? Dunque nel segreto si poteva pensare male di lui? Dopo di allora, molti altri processi di demitizzazione sono entrati nella mia vita; ma quella fu la prima volta, e ancora me ne ricordo.
Il fascismo, nel quale avevo vissuto lietamente l’infanzia, cominciò a farmi soffrire quando ho smesso di essere un bambino. Ciò è accaduto all’età di otto anni, quando è morto mio padre, una firma importante del giornalismo, Renato La Valle, che però il regime da anni aveva messo a tacere. Ho smesso di essere un bambino anche perché subito dopo, nel 39, c’è stata la guerra, e la guerra non fa bene ai bambini. A Roma venne anche la fame; sicché quando toccava a me di andare a prendere il pane dal fornaio, che si chiamava Biagini, già per la strada mangiavo il panino che mi spettava, che era poi la razione di cento grammi di pane al giorno stabilita dal governo.
In ogni caso non si poteva affrontare la guerra da bambini, con una madre vedova e due sorelle, Fausta e Fidelia, anch’esse bambine. Vennero anche i bombardamenti a Roma; nella strada accanto alla nostra morì Virginio Gaida, che era direttore del “Giornale d’Italia”, e la fontana di fortuna sotto casa, attaccata alla presa per innaffiare, fu colpita mentre le donne erano in fila per prendere l’acqua. Un signore ebreo, che ci dava lezioni di francese a domicilio, fu ben presto in pericolo, sicché noi lo nascondemmo in casa nostra, anzi gli cedetti il mio letto, che aveva una coperta di damasco rosso fatta da una tenda. Seppi così che gli ebrei erano perseguitati. Una notte sparì, fuggito altrove; nel cestino della carta trovai che aveva buttato con noncuranza una cravatta ancora buona, perché era un barone. Poi abbiamo saputo che si era salvato.
Così cominciai a capire molte cose della guerra. Per esempio che cosa era una guerra mondiale. La guerra mondiale era che il Brasile, chissà perché, era nostro nemico. Ma il Brasile per noi era la fonte di sostentamento, perché mia madre lavorava col Brasile. Era infatti corrispondente di giornali brasiliani; e ciò lo si deve al fatto che alla morte di mio padre genialmente si era fatta giornalista; aveva passato una vita a battere a macchina gli articoli di suo marito, che scriveva solo a mano, e grazie a quella macchina aveva acquisito un sapere che le venne buono al momento del bisogno, permettendole di ereditare il posto di lui e di continuare il suo lavoro: ed ecco che ora la guerra separava lei dal suo lavoro, e noi dal suo stipendio.
Così lei, Mercedes, dovette inventarsi altri lavori; non poteva più scrivere articoli, però poteva fare la dattilografa; e così ancora una volta la macchina da scrivere la salvò.
Degli avvocati, che patrocinavano presso il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, le diedero da copiare dei processi; e lei ogni mattina andava al palazzo di giustizia a scrivere, e ci andavo anch’io, perché anch’io nel frattempo avevo imparato a scrivere a macchina, e perciò copiavo le carte dei processi anch’io; per fortuna allora non c’erano impedimenti al lavoro minorile.
Fu in questo modo singolare che io, senza affatto capire di che si trattasse, ho incrociato il dramma dell’antifascismo, e forse ho scritto a macchina qualche difesa di antifascisti giudicati dal Tribunale Speciale, e qualcuno magari condannato a morte. Ed è forse da questo inconscio in cui è rimasto in me sepolto il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato che oggi nasce la mia indignazione quando vedo accusare e diffamare i tribunali e i giudici della Repubblica democratica.”…….
La Costituzione
….”Io allora non sapevo che in quegli anni, tra la fine della guerra e il mio ingresso all’università, c’era stato un passaggio d’epoca. Certo, conoscevo i fatti, ma non ancora la loro portata.
In effetti in quegli anni, con l’Assemblea di San Francisco, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, le Costituzioni, il Novecento aveva cambiato il suo volto, aveva segnato una svolta nella storia e nel pensiero dell’Occidente, e aveva cambiato il nostro destino.
Il Novecento, e con esso l’Italia, avevano avuto il loro momento magico, avevano operato una straordinaria conversione culturale, politica e morale. Gli orrori della guerra, gli esiti perversi in cui erano venute a concludersi le dottrine politiche e antropologiche della modernità, avevano fatto cadere tutte le certezze, avevano posto l’esigenza potente, incoercibile, di pensare tutto di nuovo, l’uomo, lo Stato, la guerra, la pace, il diritto, l’ordine delle nazioni, ben al di là dell’antifascismo.
Il “mai più” pronunciato sotto lo scrosciare delle bombe, nei campi di sterminio, nelle carceri della tortura, dinanzi ai venti milioni di morti solo nell’Unione Sovietica, dinanzi allo stupro dei popoli fatto da colonie ed imperi, doveva trovare la sua traduzione in culture ed ordinamenti nuovi.
Fu così che nella storia del Novecento irruppe la novità della grande Costituente mondiale da cui nacque la Carta dell’ONU del 45, irruppe la novità del costituzionalismo come teoria dello Stato, e in Italia la novità della Costituzione e della Repubblica.
Il rovesciamento, almeno in via di principio, rispetto a tutta la storia passata, non poteva essere più radicale. E ciò almeno sotto tre profili.
1) Se prima il pensiero della disuguaglianza aveva fondato il dominio, ecco che ora veniva proclamata l’eguaglianza. In tutta la storia, fino a Hegel, a Spencer, a Nietzsche, a Croce e perfino nel dizionario francese Larousse e fino a Hitler, era stata teorizzata la disuguaglianza per natura degli esseri umani, la differenza tra popoli della natura e popoli dello spirito, tra spagnoli ed indios, tra razze bianche e nere, tra forti e deboli, tra maschi e femmine, tra uomini e no. Ed ecco che nel 45 eguaglianza e unità di tutta la famiglia umana vengono proclamate come principi generali e universali e come tali entrano nel diritto.
2) Se prima la guerra era stata proclamata dai filosofi madre e principio di tutte le cose, era stata la sposa indissolubile dello Stato sovrano, aveva giudicato i popoli con la forza e non con la giustizia, e fino a Norimberga era stata giudicata legittima anche nelle forme dell’aggressione e dell’invasione, ecco che ora la guerra veniva ripudiata come una spregevole concubina, veniva esclusa dal diritto e proibita nella comunità internazionale perfino nelle sue premesse, con il divieto non solo del ricorso alla forza, ma anche della minaccia dell’uso della forza.
3) Se prima l’idea di sovranità, come di un potere che non riconosce sopra di sé nessun altro potere, aveva fondato gli assolutismi e attribuito agli Stati il diritto di guerra, ecco che ora essa veniva ridimensionata, resa relativa. La sovranità esterna degli Stati era rovesciata nell’interdipendenza, sottoposta al diritto internazionale cogente e addirittura fatta oggetto di rinuncia, come nella Costituzione italiana, al fine di costruire un ordinamento di giustizia e di pace tra le Nazioni; e la sovranità interna veniva strettamente condizionata al costituzionalismo, e ciò a valere sia per i cittadini che per gli stranieri, sicché la cittadinanza, come dice Ferrajoli, è l’ultima discriminazione che dovrebbe cadere.
Certo, questi principi erano ben lungi dall’attuarsi. Però stabilirono un traguardo. Alla Costituente i partiti di massa e i professorini ce la misero tutta per fare della Repubblica il soggetto a cui fossero intestati questi ideali, e ci riuscirono; e i dossettiani ce la misero tutta per fare della Democrazia Cristiana lo strumento per la loro attuazione, finché, non riuscendoci, Dossetti si ritirò dalla scena.
La comunicazione politica era però ancora ristretta, la televisione non c’era, ed io non sapevo nulla di Dossetti”……..
Il Concilio
“La figura di Dio che la Chiesa allora proponeva, e la dottrina di fede nella quale lo includeva, erano molto diverse da quelle che sarebbero state dopo il Concilio e quali sono ora. E bisogna ricordarlo, altrimenti non si capisce uno dei cambiamenti più profondi che sono avvenuti nel Novecento.
Nella presentazione che allora se ne faceva, Dio era un nume offeso che doveva essere placato dai nostri sacrifici, così come aveva voluto essere placato dal sacrificio del Figlio che a questo scopo avrebbe mandato a morire sulla croce; la nostra cattiveria era data per scontata e attendeva solo di essere perdonata; il giogo del peccato ci teneva sotto il peso della vecchia servitù, perfino la morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali, il mondo era una valle di lagrime, noi dovevamo disprezzare le cose terrene e le prosperità del mondo, e cercare solo quelle celesti. Le nostre afflizioni erano del tutto meritate, come dicevano le preghiere della Messa: “Dio che vedi come per le nostre perversità siamo afflitti”; “Noi che giustamente siamo afflitti a causa dei nostri peccati”; “Noi che siamo afflitti a causa del nostro operare”; “Noi incessantemente siamo afflitti a causa dei nostri eccessi”, e così via, di colpa in colpa. Così si pregava nell’Ordinario latino della Messa prima della riforma liturgica del Concilio; e siccome eravamo stati educati a prendere in mano il messale e sapevamo il latino, capivamo quelle parole e ora possiamo capire il salto che c’è stato, e possiamo anche capire il furore dei tradizionalisti che vogliono tornare a quella messa, e non perché è in latino.
All’origine di quella comprensione della fede c’era un’antropologia pessimistica, che era diventata cultura comune e che ancora oggi possiamo rintracciare alla base di molte istituzioni dell’Occidente, a cominciare dallo Stato. Esso fu concepito infatti come antidoto alla congenita cattiveria umana che di per sé porterebbe alla violenza generalizzata, alla lotta di tutti contro tutti, sicché anche la politica è stata teorizzata come uno scontro tra Amico e Nemico. Il nostro acerrimo sistema bipolare è ancora il figlio di questa dottrina.
Secondo questa antropologia, l’uomo si era infortunato appena creato; a causa del peccato era rimasto sfigurato, la sua natura decaduta, ferita; il paradiso terrestre c’era stato davvero, ma ne eravamo stati cacciati. La libertà dei moderni era considerata un delirio. L’eguaglianza tra uomo e donna un’eresia e anzi, secondo Pio XII, una tentazione diabolica, la lusinga di “una voce serpentina”. Il desiderio sessuale, i parti con dolore, il lavoro col sudore della fronte erano pena del peccato; l’amore sponsale non inteso alla procreazione era, come si leggerà in un documento preparatorio del Concilio, “un fetido onanismo coniugale”.
Rievocando quei tempi, nel 1979 a quindici anni dalla chiusura del Concilio, il teologo Karl Rahner dirà che la Chiesa era tributaria di un cattivo agostinismo per il quale la storia del mondo era ed è “la storia di una massa dannata nella quale solo a pochi è dato salvarsi per una grazia di elezione raramente concessa”; quei pochi stavano nella Chiesa cattolica, fuori della quale non c’era salvezza; quanto agli altri cristiani erano considerati come “una massa di eretici da indurre con le buone o con le cattive alla conversione all’unica vera Chiesa”.
È su questo scenario che irrompe il Concilio, che papa Giovanni inaugura postulando l’aggiornamento della Chiesa, il licenziamento dei profeti di sventura, il balzo innanzi nella penetrazione dottrinale e nella formazione delle coscienze secondo il linguaggio e le forme dell’indagine proprie del pensiero moderno. E benché oggi molti si ostinino a dire che il Concilio non ha cambiato niente, o che deve essere interpretato secondo un’ermeneutica dell’invarianza, la Chiesa e il suo annuncio di fede ne sono usciti trasformati; come dice Rahner, lo stesso annuncio di Cristo è diventato un annuncio nuovo; “sia nell’annunciatore che nell’annuncio è avvenuto qualcosa di nuovo, di irreversibile, di permanente.”
Queste cose non le abbiamo scoperte subito, ma nel tempo, e per molti cristiani sono ancora da scoprire.
Ma certamente il Dio testimoniato dal Concilio non è un Dio vendicatore che debba essere risarcito e placato con l’olocausto del Figlio; l’età dei sacrifici è conclusa, e con essa qualunque legittimazione religiosa delle pratiche vittimarie, delle vendette del sangue, delle rappresaglie, della violenza e della guerra. La parola “placatio”, da “placare”, non c’è mai nei testi del Concilio né nella liturgia dopo il Concilio. Il Signore è stato crocefisso non a causa di Dio e per far piacere a lui, ma a causa degli uomini, a cui egli ha pagato fino alla fine il prezzo del suo amore per loro.
Il Dio del Concilio non è il Dio bifronte, “tremendum et fascinans”, di cui parlava Rudolf Otto all’inizio del Novecento, ma è un Dio solo fascinans, solamente buono. È un Dio che non ha cacciato nessuno dal giardino dell’Eden dopo il peccato; nella narrazione della storia della salvezza fatta dal Concilio questa cacciata non c’è; la buona notizia è che questa notizia non c’è, e anzi, dice il Concilio, gli uomini, caduti in Adamo, Dio non li abbandonò, non dereliquit eos, ma a causa di Cristo sempre prestò loro gli aiuti necessari per salvarsi e senza posa, sine intermissione, si prese cura del genere umano.
Di conseguenza l’essere umano non è un fuscello sbattuto nel tempo, ma ce la può fare a prendere in mano la storia, ad aggiustarla (ius, il diritto, viene da iustari, che vuol dire aggiustare). Il Figlio di Dio si è unito in qualche modo ad ogni uomo, dice il Concilio, perciò la salvezza è per tutti, e tutti possono cooperare a realizzarla, perché, dice con la Bibbia il Vaticano II, “Dio ha messo l’uomo in mano al suo consiglio”, e nella misura in cui vengano “suscitati uomini più saggi” è possibile far fronte a una situazione in cui, come dice la Costituzione pastorale, “è in pericolo il futuro del mondo”. E quanto alla libertà, essa è la “dignitas humana”, la dignità stessa dell’uomo, e in nessun modo la si può coartare, nemmeno col pretesto di non dare libertà all’errore. La riconciliazione della Chiesa col mondo, celebrata dal Concilio, è stata in realtà una riconciliazione con l’uomo, con gli uomini e le donne quali noi siamo; e da questo non si può tornare indietro”……
Il tempo della crisi
….”Il Vietnam, la Palestina, l’America Latina, le lotte per la pace, i Tribunali Russell rilanciati da Lelio Basso con Linda Bimbi e le sorelle brasiliane, riempirono gli anni successivi.
Il ’68 fu la terza rivoluzione della seconda metà del 900. Dopo la rivoluzione del diritto, dopo la conversione del linguaggio della fede, venne col 68 la rivoluzione della vita quotidiana, l’esplodere dei movimenti, il nuovo pensiero femminista, il sogno della libertà, la lotta contro le istituzioni totali, la chiusura dei manicomi, il nuovo diritto di famiglia. Il 68 avrebbe dovuto essere letto come un segno dei tempi; ma così non fu letto né dalla Chiesa né dai partiti, e perciò non poté sprigionare tutte le sue energie.
Nel 1974 si ruppe l’unità politica dei cattolici col referendum sul divorzio; i “cattolici del no” con Scoppola, Carniti, le ACLI, le comunità di base rifiutarono il sì all’abrogazione preteso da Fanfani e da Gabrio Lombardi. Dopo una notte di preghiera anche il piccolo fratello di Gesù Carlo Carretto disse che avrebbe votato no per compassione verso gli emigrati italiani in Germania rimasti senza famiglia e senza amore.
A causa dell’esito del referendum il sistema di potere si incrinò; la democrazia bloccata dalla clausola di esclusione dei comunisti rischiava di non poter essere più nemmeno democrazia. Senza i comunisti, non aveva i numeri. Era venuto dunque il tempo di mettere il dialogo alla prova, come aveva scritto Mario Gozzini: coi comunisti si poteva parlare, e perfino giungere a fare una maggioranza parlamentare con loro. Alla Badia Fiesolana, nel 1976, ospiti di padre Balducci, ci ritrovammo in un centinaio per decidere il da farsi. C’era un invito del PCI a entrare nelle sue liste come indipendenti. Tutti erano d’accordo; alcuni però preferirono continuare il lavoro da intellettuali, altri decisero di mettere le idee nella mischia, di esporsi in prima persona. Non erano solo cattolici: fu decisiva la scelta del pastore Vinay. Nacque così la componente cristiana della Sinistra Indipendente che raggiunse in Parlamento il sen. Ossicini, l’ultimo erede della Sinistra cristiana, e che divenne un punto di riferimento nel dibattito culturale e politico del Paese.
In Parlamento il battesimo del fuoco arrivò per me, appena eletto, con la legge sull’aborto. Bisognava uscire dal sistema carcerario e clandestino previsto dal codice Rocco; ma non potevamo nemmeno ammettere la liberalizzazione ideologica dei radicali. Perciò cercammo una soluzione conforme alla Costituzione ma non dimentica del Vangelo, il che voleva dire che contrastava con quella di tutti i gruppi parlamentari, dai democristiani ai comunisti. Il confronto fu molto duro, ma infine riuscimmo a mettere nella 194 quelle cose che nel gennaio scorso la Chiesa ortodossa ha chiesto al governo Medvedev di mettere ora nella legislazione russa: l’obbligo di una consultazione preventiva con la donna, la ricerca di alternative all’aborto, l’introduzione di un consenso informato e di un tempo di riflessione, nonché la creazione di “centri di crisi”, che noi chiamavamo consultori, nelle cliniche ostetriche. Per queste proposte il Patriarcato di Mosca è stato ora molto apprezzato a Roma e dall’agenzia di stampa della Santa Sede, mentre allora poco ci mancò che partissero le scomuniche, per non parlare della lapidazione quotidiana da parte dell’ “Avvenire”.
In quella legislatura Moro, che aveva osservato come nelle elezioni del 1976 c’erano stati due vincitori, la Democrazia Cristiana e il Partito comunista, cominciò a tessere la sua tela per giungere a una democrazia compiuta, superando l’esclusione che metteva fuori gioco un terzo dell’elettorato. L’America non voleva, e c’era in Italia chi minacciava di scendere con le armi nella strada, se i comunisti fossero stati ammessi al governo.
Ma le armi già le avevano le Brigate Rosse; e lo sbarramento, interno e internazionale, ad una intesa coi comunisti fu tale che Moro fu ucciso, complice la linea della fermezza che lo votò al sacrificio. Io gridai contro la ragion di Stato che ripeteva la sentenza di Caifa per la quale “è bene che un uomo solo muoia per il popolo”, ma il rombo della fermezza coprì ogni voce alternativa.
Fu lì che morirono anche la Democrazia Cristiana e il Partito comunista, pur se la loro agonia si protrasse nel tempo. L’ultimo guizzo profetico venuto dalla DC furono il 26 luglio 1990 le dimissioni dal governo Andreotti di cinque ministri della sinistra democristiana (Martinazzoli, Fracanzani, Misasi, Mattarella e Mannino) per protesta contro la fiducia pretesa da Craxi sulla legge Mammì; era la legge che consegnava tutte e tre le reti televisive e un enorme gettito pubblicitario a Berlusconi, che Martinazzoli accusava di essere un “capitalista da Far West”; ma il fedele Confalonieri replicava che andava bene proprio così, che John Ford e il Far West erano la metafora del progresso. Quanto a noi, l’ultima cosa che facemmo fu la nuova legge sull’obiezione di coscienza, talmente bella che subito dopo per rivalsa abolirono il servizio militare obbligatorio.
Morendo la DC e il PCI, morivano anche le prospettive, forse troppo ambiziose, di imprimere un corso diverso alla storia del mondo. La speranza era stata che, a partire dal caso italiano, lo scontro tra le due culture, occidentale e comunista, potesse non risolversi nell’annichilimento dell’una o dell’altra, ma nella ricomposizione dell’unità umana, nel trascendimento degli opposti, nell’incontro fecondo tra le due culture e anzi tra tutte le culture.
Invece si partì con la corsa al riarmo nucleare, i missili, Comiso, e quando, nonostante il tentativo di Gorbaciov, lo Stato sovietico crollò, il ministro degli esteri De Michelis venne in Parlamento a dire che la guerra fredda era finita e che noi l’avevamo vinta.
Non sapeva che a finire non era solo l’utopia comunista, ma anche il sogno occidentale di una democrazia realizzata, dove la politica moderasse l’economia, il costituzionalismo garantisse i diritti e tenesse entro limiti invalicabili il potere, la giustizia fosse realizzata, e le Repubbliche togliessero gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana.
Il Novecento finì così con una sconfitta. Non vinse né il socialismo né il costituzionalismo liberale; si ripeté il fato che sempre ritorna, del né né: né con lo Stato, né con le Brigate Rosse, né col comunismo né con la democrazia, né con Berlusconi né con i suoi giudici.
Invece venne ripristinata la guerra, il ripudio venne revocato; si cominciò con la guerra del Golfo. Poco prima che cominciassero i bombardamenti, con un gruppo di parlamentari andai a Bagdad, contemplai la città che stava per essere distrutta, e mi feci tradurre in arabo una lettera da far giungere nelle mani di Saddam Hussein, in cui lo scongiuravo, per il suo popolo, per i palestinesi, per la pace, in nome di Allah, di evitare la guerra con gli Stati Uniti: noi sapevamo quale fosse la potenza militare americana, e che cosa poteva voler dire cadere sotto il suo fuoco.
Poi ci fu la guerra con la Iugoslavia, la NATO si propose come nuovo sovrano militare mondiale; a Belgrado, dove ero andato con un una delegazione di “un ponte per”, che portava aiuti, rischiammo di cadere sotto il fuoco amico la notte in cui gli americani, che già avevano distrutto la Zastava e i ponti sul Danubio, bombardarono per soprappiù l’ambasciata cinese e l’albergo Iugoslavia che avevamo appena lasciato.
I guai vennero poi a cascata. Rilegittimata sul piano mondiale la violenza, in Israele si fece strada l’idea che, pur senza la pace, i palestinesi avrebbero potuto cessare di essere un problema; l’Europa, che era stata la grande costruzione ideale e politica del secolo, non ebbe voce, si infilò nelle maglie economicistiche di Maastricht. In Italia cominciò la demolizione della Costituzione; la democrazia rappresentativa, che finalmente avrebbe potuto funzionare essendo venuta meno la “conventio ad excludendum” dei comunisti, fu abbandonata per essere sostituita alla fine con un Parlamento del principe in un sistema bipolare selvaggio, e cominciò la guerra contro i giudici perché non avesse mai più a ripetersi Mani Pulite e i politici infedeli potessero procacciarsi l’impunità.
Quando finì il Novecento, finì anche il Millennio. A Roma, come assessore, avevo organizzato un convegno internazionale nel quale avevamo posto la domanda: che cosa di buono e salutare del Novecento dobbiamo portarci dietro nel nuovo millennio, e che cosa dobbiamo abbandonare, perché non ritorni mai più?
Questa domanda vale anche oggi, quando la situazione è assai grave, il Novecento è rimasto incompiuto, la democrazia è interrotta, l’Italia ha smesso di essere felice e un fuorilegge si aggira per l’Europa parlando in nostro nome.
La mia risposta, che ho voluto darvi qui stasera, è che del Novecento restano, insieme a molti altri doni, quelle tre grandi cose che furono la Costituzione, il Concilio, e il 68. Ma nessuna di queste cose potrà sopravvivere, se non sarà assunta con amore, così come per amore sono state compiute. Non c’è dubbio che alla Costituente uomini come Moro, Dossetti, Basso, La Pira, Lazzati, Calamandrei, e donne come Laura Bianchini, Angela Gotelli, Teresa Mattei, operarono per amore. Non c’è dubbio che Giovanni XXIII ha osato il Concilio per amore. E il ’68 è stato l’utopia dell’amore come alternativa al potere. Oggi si può anche difendere la Costituzione, come noi facciamo, ma senza un amore che abbia l’assillo del bene comune di tutti i cittadini, essa è destinata a sfiorire e a cadere a pezzi, ben oltre l’art. 41; oggi un papa potrà pure rendere formale omaggio al Concilio, ma se non lo assume con amore, anzi con passione, non potrà dare nuova vita alla Chiesa; oggi il 68 è dimenticato e da molti perfino esecrato; ma se le nuove generazioni si incistano nei loro amori privati, e non riscoprono la dimensione comunitaria, politica e pubblica dell’amore, inaridiranno nei loro egoismi. Come diceva Aldo Capitini parlando della nonviolenza, come di una scelta fatta per amore: “ma è l’amore che non si ferma a due, tre esseri, dieci, mille (i propri genitori, i figli, il cane di casa, i concittadini, ecc.); è amore aperto, cioè pronto ad amare altri e nuovi esseri, o ad amare meglio e più profondamente gli esseri già conosciuti. Perciò non è mai perfetto e non finisce mai”.
Oggi, a dieci anni dall’inizio del nuovo Millennio, siamo preoccupati per i giovani e per i figli dei loro figli che vivranno in questo secolo. Quello che noi possiamo fare è di trasmettere loro gli attrezzi e le speranze che noi abbiano avuto nel Novecento, sapendo però che saranno loro a decidere cosa farne, e anche come dotarsi di attrezzi nuovi. Ogni generazione ha le sue vie. Non si tratta perciò di lasciare ai nostri figli degli altarini alla Costituzione al Concilio e alla contestazione, ma di dire il senso che queste cose hanno avuto per noi. E forse, riecheggiando una vecchia parola, potremmo dirlo così: queste sono le tre cose che rimangono: il diritto, la fede, la libertà; ma di tutte più grande è l’amore”.
Raniero La Valle
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