Sulla strada non è indicato il confine tra il Lazio e la Campania. Comunque te ne accorgi subito perché sembra di entrare in un altro Paese. Immondizia ovunque e a Mondragone trovo il primo vero ecomostro da Ventimiglia a qui. Un palazzo abbandonato di una ventina di piani, nato in mezzo alla campagna.
L’Appia è un immondezzaio: copertoni, pezzi di mobili, televisori rotti, materassi, sacchetti di plastica. Per chilometri e chilometri lungo tutta la carreggiata. A giudicare dalla puzza che sprigionano non si tratta solo di rifiuti solidi.
Tutto questo dall’ingresso della Campania fino a Castellammare di Stabia, quando la costiera inizia a mostrare tutta la propria bellezza.
Intorno a Napoli poi il degrado è ancora più marcato. Il tempo qui sembra non esser passato, se non perché tutto diventa più fatiscente. La città partenopea, come scriveva Guido Piovene cinquant’anni fa, «è una metropoli, che vive di una legge propria, difficile da afferrare, e non appartiene né al Nord né al Sud, ma soltanto a se stessa».
La Napoli che narra Erri De Luca è invece intensa e affascinate. «È bella di notte la città. C’è pericolo ma pure libertà. Ci girano quelli senza sonno, gli artisti, gli assassini, i giocatori, stanno aperte le osterie, le friggitorie, i caffè. Ci si saluta, ci si conosce, tra quelli che campano di notte. Le persone perdonano i vizi. La luce del giorno accusa, lo scuro della notte dà l’assoluzione. Escono i trasformati, uomini vestiti da donna, perché così gli dice la natura e nessuno li scoccia. Nessuno chiede di conto di notte. Escono gli storpi, i ciechi, gli zoppi, che di giorno vengono respinti. È una tasca rivoltata, la notte nella città. Escono pure i cani, quelli senza casa. Aspettano la notte per cercare gli avanzi, quanti cani riescono a campare senza nessuno. Di notte la città è un paese civile».
Me la lascio alle spalle e con fatica cerco di raggiungere la costa. La descrizione di Serra di venticinque anni fa è ancora valida. Con una sola eccezione: lui aveva un Panda e io la Vespa. Oggi, per venti e passa chilometri la maledico. Una strada tutta di sampietrini e lastroni. Pericolosa, faticosa e stressante per me e lo scooter. In tutto oltre un’ora e mezza per arrivare a Castellammare.
Poi, all’improvviso in cima a una salita, si spalanca un paradiso. D’incanto sparisce tutta la “monnezza” e si apre la costa in tutta la sua bellezza. Non per niente Vico Equense è considerata la porta delle “Terre delle sirene”. Ulisse passò di qua nella sua lunga odissea per ritrovare Itaca, e restò incantato da queste figure mitologiche.
Appena uscito “dall’inferno” dell’hinterland di Napoli, Vico sembra un angolo di Svizzera.
Ventimila abitanti per tredici frazioni che sono abbarbicate sulle colline verso la costiera amalfitana. Vico è famosa nel mondo per la “pizza al metro”. Se la inventò Gigino Dell’Amura alla fine degli anni Trenta. Di padre in figlio oggi l’attività è ancora fiorente tanto dall’aver anche avviato l’altisonante Università della pizza. E si sa, un ateneo in Italia non si rifiuta a nessuno.
«Sono rimasti in dieci e mio papà è uno di questi». Maria Laura è figlia di uno dei pescatori di Vico Equense e ne è orgogliosa. Le si illuminano gli occhi quando ne parla. Ha uno sguardo penetrante. Senti tutto il fascino mediterraneo che va oltre questa costa.
«Finite le scuole superiori sono partita per Londra. Volevo imparare bene l’inglese e ci sono rimasta un anno. Lì c’è stata una svolta perché nel pub dove lavoravo c’erano delle mie colleghe appassionate di danze orientali. A me è sempre piaciuto molto ballare e ho iniziato a seguirle. Tornata in Italia, sono subito ripartita per Cuba per imparare meglio la salsa e tutti i ritmi tropicali».
Inizia tutto da lì. Quando torna a Vico svuota il garage di casa e decide di aprire un associazione per gestire corsi di ballo di vario genere.
Shasa, il suo nome d’arte, oggi vive con questa attività e su tutta la costa la invitano per serate di esibizioni, soprattutto di danza del ventre. «Dopo tanti anni per me è ancora difficile propormi. Non vengo accettata perché pensano che questa danza sia a sfondo sessuale. Invece è fatta dalle donne per le altre donne, per invocare la fertilità». Maria Laura conosce questa terra e mi racconta come questa sia anche una terra fertile che ha dato i natali a grandi amanti della cucina. Vico nel giro di pochi chilometri ha ben quattro chef stellati Michelin: Gennaro Esposito ne ha ben due, con lui Giuseppe Guida, Danilo Di Vuolo e Michele de Leo.
«Nei miei piatti faccio parlare la mia terra. Una cucina davvero chilometri zero». L’incontro con Giuseppe Guida lo devo alla cortesia di Peppe D’Esposito che nella vita lavora in uno studio legale, ma ha una passione per l’informazione e così si è inventato Vico Equense online.
«Fermatevi qua. Oggi sono venuti quattro ragazzi a pescare qui sotto e stiamo cucinando il pesce che hanno preso». Lo chef è seduto sulla terrazza del suo ristorante. Una vista sulla costa con un tramonto da restare senza fiato.
«Il segreto è nella passione. Io sono incantato dalla cucina tradizionale che poi reinterpreto a modo mio. Parlo tanto con i vecchi e mi faccio raccontare le loro storie. Le ricette, quelle vere, arrivano da loro. Questa terra è straordinaria e non manca niente per fare una buona cucina». E già… Intanto arrivano le trenette con il polipetto verace, il totano nero e le seppie. Se penso che un’ora prima erano a gironzolare nell’acqua qui sotto e ora sono nel piatto non mangio più. Lo chef sorride. «Buona, vero? Dopo ti faccio assaggiare la farinata. La faccio a modo mio. Nelle nostre campagne intorno agli appezzamenti mettono delle piante di broccolo nero per riparare dal vento. Lo chiamano “a menest e tuorn”. Le foglie grosse le danno alle mucche, ma il cuore è tenero. Lo prendo, lo trito e lo aggiungo alla farina bianca. Viene una farinata speciale».
Giuseppe è autodidatta e ha iniziato per caso a fare lo chef. In giro per il mondo fino al ’94. Poi è tornato qui e non se ne vuole più andare. «Questo è il posto più bello del mondo».
Si racconta che Ulisse per non farsi ammaliare dalla Circe si fece legare. Forse c’era anche un’altra ragione: sottrarsi alla straordinaria cucina di Vico, altrimenti addio Itaca.
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