Informazioni su Topo Franz

Ormai quarantenne, giornalista, scrittore per qualcuno, scribacchino per altri, sognatore, uomo di lago, cultore della buona tavola, pendolare, papà, marito, ex fisarmonicista, ex playmaker di basket, ciclista con la pancia

L’amore distrutto da un’oliva

Cicciuzzo non prende l’autobus di linea, ma un furgone sgangherato che lo scarica giusto davanti al cantiere, nella periferia Ovest: lavora alla Milano del futuro, è manovalanza del progresso. Parte che è ancora notte, dalla piazza del paese dormitorio, fagotto umano appoggiato alle colonne di un porticato. Lo sveglia la frenata, con scricchiolìo incorporato, del mezzo che proviene dalle baracche vicino al fiume, dopo aver caricato i fantasmi a giornata, uomini invisibili per il resto del mondo, caricati dietro, nascosti dal portellone. «Salire amigo», lo chiama Karim, l’autista senegalese. Sei posti, basta stringersi diventano sette: con le molle sfondate, ogni sedile sembra un nido di cornacchia nel quale sprofondare, mentre l’autoradio anni Settanta, a valvole, diffonde musica araba.

Papà Salvatore con mamma Rosalia erano saliti al Nord quarant’anni fa, per dare un futuro migliore ai propri figli: l’Italia del miracolo economico ha partorito una generazione di mantenuti, ma Cicciuzzo dalle case popolari non si è mai emancipato. Papà Salvatore faceva il magutt, come dicono qui, lui fa il magutt, anche se oggi il dialetto milanese non è più una lingua da imparare nei cantieri, oggi è meglio impratichirsi con i dialetti marocchini e rumeni. Il destino non gli ha concesso un gradino in più del padre, nella scala gerarchica degli operai edili: è stato superato da molti disperati, arrivati qui a bordo di un barcone di legno marcio, ma solido quanto basta per fuggire dalla fame. Non ha fatto carriera per via del suo carattere, permaloso quando non deve, bonaccione quando non conviene: «Mi arrabbio quando mi chiamano porco. Con quella parola, perdo la testa». E così, quasi apposta, i capicantiere incontrati negli ultimi anni finivano sempre per apostrofarlo in quel modo, per il gusto di vederlo andare su tutte le furie, come fanno i veterani di caserma con le reclute. «Sposta quel sacco di calce, brutto porco», gli disse un capo, quattro anni fa. E lui, come preso da raptus, prese il sacco e lo lanciò nel vuoto da trenta metri d’altezza, dal nono piano di una palazzina in costruzione, fortunatamente senza conseguenze per qualche malcapitato al piano terra. Ovviamente Cicciuzzo fu costretto a trovarsi un altro cantiere, però. Un’altra volta spaccò una pila di dieci tegole con un pugno, roba da guinness dei primati. Al cantiere del Musocco, dove lavora da un anno, tra Cicciuzzo e il maiale sembra essere tornata la pace, soprattutto perché i colleghi, quasi tutti stranieri, lo insultano in altro modo, tutta roba incomprensibile, in quattro lingue.

Di conseguenza, trascorre intere giornate sulle impalcature senza quasi scambiare una parola con nessuno, soltanto qualche parola sulle donne in generale, durante l’ora di pausa: si siede lì sulle assi, a venti metri da terra, e si rifocilla con il muso immerso nella schiscetta. Piatto unico: fagioli con cipolle e, quando mamma è generosa, vi trova anche una salsiccia. Lo sfama, ma non basta per placare la sua ossessione, il rapporto difficile con l’altro sesso: «Tu ti tromberesti la cassiera del bar lì sotto?», chiede di frequente al collega marocchino. «Que, trombesti?» risponde l’altro. E Cicciuzzo traduce nel linguaggio universale, con un gesto con la mano, e il marocchino ride. Il collega si chiama Rachid e ogni tanto si è addirittura confidato con lui: «Non è possibile che alla mia età, a trentacinque anni suonati, non abbia ancora fatto l’amore con una donna».

Centocinque chili di verginità. Cicciuzzo ci soffre parecchio e, per sfogare gli istinti, ogni giorno ci dà dentro con la mazza demolitrice: «Dammi un’ora e ti butto giù trenta metri di cemento», avverte Rachid. A volte arriva a sera che, a furia di mazzate, non è in grado nemmeno di tenere in mano la forchetta o il bicchiere della cena perché, per via dei colpi, ha le mani che gli tremano per molte ore dopo il lavoro. Una volta, alla ricerca di una terapia, aveva persino tentato un blitz dalla Chantal, la gattona, ma la scarsa abitudine alle curve femminili aveva finito per creargli il blocco del principiante, come un trapezista che, improvvisamente, scopre di soffrire di vertigini. E Chantal, impietosita, gli restituì pure i soldi: un flop a costo zero è, però, un colpo micidiale alla virilità di un magut irsuto e corpulento.

Oggi, però, Cicciuzzo ha l’aria meno depressa, anzi sembra persino sereno. Tanto che Rachid ne è incuriosito: «Che c’è oggi, hai trombato?»
«No, ma potrebbe accadere. Una donna si è innamorata di me»
«E chi è, la conosco?»
«La barista là sotto»
«Davvero? Che è successo, racconta?»
«Oggi mi ha sorriso e mi ha persino regalato un pacchetto di cicche»
«E allora? Che hai fatto, l’hai invitata fuori?»
«No, ma forse lo farò. E poi in questi giorni sto anche mettendo a posto l’appartamentino vicino a casa dei miei»
«Ma che c’entra?»
«Se la cosa dovesse andare in porto…»
«Non ti sembra di andare un po’ troppo di corsa? Un pacchetto di cicche può bastare per fare un fidanzamento?»
«No, ma è come mi guardava mentre me l’ha regalato….. ho capito che c’era qualcosa di strano»

Stasera, dunque, niente viaggio in furgone. Cicciuzzo ha deciso di tornare a casa in treno: «E se mi va bene, non rientro più, rimango lì al bar». Si precipita al bar con nobili intenzioni e il cuore che fa “bum bum”: al cantiere ha cercato di ripulirsi alla meglio, rubando un deodorante al capocantiere. Ora non è un bijoux, ma almeno sembra presentabile. In pochi secondi è già al tavolo di fronte alla cassa, ma al momento la postazione è vuota, niente barista. Ma eccola comparire: è una femmina giunonica che ama essere civetta e, per provocare i clienti, non nasconde le grazie che possiede. Che in realtà sono concentrate sul petto, enorme e prosperoso, taglia fortissima per due meloni da circo, che sembrano sempre esplodere da un momento all’altro da una scollatura generosa, ma tiratissima. Difficile guardarla negli occhi, ma Cicciuzzo è un uomo tutto d’un pezzo e con lei ha deciso di adottare la linea del massimo rispetto: se ne resta lì timido timido, sorseggiando un Crodino e mangiucchiando olive verdi.

Improvvisamente, la svolta: la donna dei sogni le si avvicina come per chiedergli qualcosa, Cicciuzzo pensa tra sé che è giunto il momento di dichiararsi. E mentre lo pensa, sente il cuore esplodere dentro di sé e una vampa di calore risalire dal petto verso il volto, paonazzo come non lo si era mai visto. Un istante, un non so che, un colpo gobbo del destino: «Ehm signorina?». Lei si china verso di lui, porgendogli il davanzale: lui, con uno stuzzicadenti in mano, prova a infilzare nervosamente un’oliva che, bastarda, rimbalza altissima, come un rigore sopra la traversa, ma finisce in rete, tra le mammelle della barista e sparisce nel buio. Imprevisto che scatena la reazione scomposta e… zac! Cicciuzzo si ritrova senza volerlo, in una frazione di secondo, con la mano infilata nella scollatura: l’istinto di voler riparare al danno l’ha rovinato.

E ora, in quei pochi secondi, è lì con la mano che brancola tra due palloni di carne, alla ricerca di un’oliva ormai dispera: è la tragedia. «Porco!! Brutto porco!», urla la barista. Tutto poteva dirgli, tranne quello: cuore infranto e cervello impazzito in una sola volta. Cicciuzzo scappa fuori dal bar, in preda all’ira: è diretto a tutta velocità contro la saracinesca di una vecchia drogheria dismessa. Impatto mostruoso e un corpo di uomo vergine che rotola scomposto e privo di sensi sull’asfalto. Ambulanza impazzita, corsa all’ospedale verso la salvezza: trauma cranico con amnesia è il verdetto per Cicciuzzo. Non ricorderà più nulla e Rachid, che gli vuole bene, gli ricorderà presto fantasie e conquiste, storie di donne ai suoi piedi, che l’hanno amato e venerato: al settimo piano di un condominio in costruzione, la vita sembra tutta diversa da laggiù.

La luna dietro ai cespugli

«Almeno lassù, il silenzio sarà vero, mica come quello di qui, che anche alle tre del mattino, la pace fa al massimo da sottofondo a un motorino con la marmitta che scorreggia». Nebbia guarda la luna stasera e vorrebbe vederla più da vicino, prendere una mongolfiera o mille palloncini gonfiati a elio. Perché su un’astronave non riesce a immaginarsi, non è capace di vedersi sposato alla tecnologia, è un poeta sempre e comunque: lo sbarco sulla luna è tornato di moda, tutti ne parlano e lo ricordano anche se, in quel 1969, non erano nemmeno nati, ma Nebbia ha un’idea “romantica” dello sbarco: «Per me si dovrebbe tornare là e farci un rifugio per quelli che si dissociano da sto mondo. Giusto un posto per riflettere un po’ e guardare la terra da lontano, prima di decidere se spararsi un colpo o tornare indietro. Uno sta lì, ci pensa un po’ e poi decide».
«Tass Nebbia, dì minga strunsà, bevi un Ramazzotti?», lo interrompe l’Alcide, per gli amici Gringo, vedetta all’ultimo avanposto di un’azienda ormai traslocata in periferia o, forse, in Cina. Se ne sono andati tutti dallo stabile del Musocco: impiegati, operai, fattorini, gran signori. Tutti tranne lui, che l’han lasciato lì a vegliare un dinosauro ormai deceduto, un palazzo che va in pezzi senza niente dentro: vive soltanto la sua stanza con un cucinino annesso. Gringo, portiere del nulla.
«No, leggo Voltaire, tu sei già al quinto di Ramazzotti, vai avanti così e ti fai tutto l’ellepi». Gringo non sa chi sia Voltaire è l’ultimo libro comparso nella sua portineria è stato un’edizione economica di aforismi, distribuito gratuitamente da un quotidiano, formato tascabile. Gli aforismi sono l’ideale per chi non regge la lettura di un capitolo al giorno e a Gringo la lettura proprio non piace: tuttavia, quel libretto lo tiene sempre in tasca, nei pantaloni, così ogni tanto tira fuori qualche frase che fa scena. Per reggere il confronto nelle discussioni «con i bauscia», dice lui. “Il riposo è una buona cosa, ma la noia è sua sorella”, trovata a casaccio sul momento. Per Gringo, è meglio l’azione: e per un portiere che vigilia sul vuoto è tutto dire. Come un soldato disperso al quale non hanno detto che la guerra è finita, l’Alcide si sfoga come può: la sua passione la s’intuisce dal soprannome, le pistole sono gli oggetti più venerati, feticci che conserva come reliquie. Arsenale tutto regolarmente denunciato e, qualche volta, riesce pure a sparare, nel parcheggio sotterraneo del suo dinosauro dormiente, ormai deserto: fabbrica munizioni in casa, scende nel parcheggio e spara, inebriato dal potere su tutto, sulla vita e sulla morte. «Per un decimo di secondo, quando premi il grilletto, sei l’essere più potente dell’universo».
«Te se matt, Gringo. Molla i cannoni, vieni con me in montagnetta, andiam su a vedere la luna», rilancia Nebbia con la poesia. E la proposta viene accettata: per noia più che per voglia.
Partenza da Certosa con un’unica Graziella, pieghevole anni Settanta, color grigio, senza cestino: pedala Nebbia e, come ai tempi della cicca bomba e della fionda, Gringo è in piedi sul portapacchi posteriore. Ma con l’inseparabile amica, la pistola, nascosta nei pantaloni.
La bici resta ai piedi della montagnetta di San Siro, la salita è a piedi, cinque minuti sotto un cielo che Milano non è abituata a trovarsi sopra la testa, con le stelle che brillano più dei lampioni e la luna, a spicchio, a dominare la scena. «Camminare su quella crosta là, mi dà l’idea di un enorme falce di borotalco…».
«Nebbia vivi proprio nel tuo mondo, qui a Milano il borotalco lo tirano su per il naso. Se si venisse a sapere che la luna è fatta di quella roba lì, l’avrebbe già comprata qualche mammasantissima». Gringo accarezza il ferro lucido dell’arma e fa venire i brividi all’amico: «E piantala con sta manìa delle pistolette, metti via sta roba che mi fai terrore».
«Ma va là che è pure scarica, anzi adesso che insisti, quasi quasi un colpo o due li metto dentro e ci sparo alla luna». Detto, fatto: con gli occhi da matto, carica l’arnese e fa partire un colpo nel cielo, verso lo spicchio argentato lontano migliaia di chilometri. Tra i due cala il silenzio.
Passa mezz’ora e Nebbia scende dal cucuzzolo, senza dire nulla, fumando quel che resta di un toscano acceso in mattinata. Gringo lo segue ciondolando sul sentiero, tra i cespugli del parco, per via del troppo Ramazzotti ingurgitato più o meno dallo stesso momento in cui Nebbia, stamane, inaugurò il sigaro. Ma con la pistola in mano.
«Vado a pisciare dietro la siepe», avvisa l’amico davanti a sé. Nebbia non si ferma, rallenta appena il passo. Si ferma a bocca spalancata dieci secondi dopo, nell’istante in cui uno sparo alle sue spalle lo fa sobbalzare dai sandali.
«Un urlo terrorizzato si alza nel cielo fino alla luna. Da dietro la siepe balza fuori un uomo completamente nudo, ma col cappello da vigile urbano. Alle sua spalle, si ricompone un donnone che sembra avere qualcosa in più tra le gambe e che fugge via in direzione opposta. Il vigile nudista ha il fiatone, ma trovandosi davanti a Nebbia, preferisce non farsi prendere dal panico e, con il piglio dell’autorità, lo redarguisce pure: «Che c’è da vedere?!! Mai visto un uomo sudato? Circolare!» e sparisce tra le piante.
Nebbia resta lì com’era un minuto prima, con la bocca spalancata, come una vignetta senza parole. Passano pochi secondi e un rutto precede, da dietro il cespuglio, l’incedere barcollante di Gringo. «T’è mia vist una léura?»«Una lepre?»
«Ho visto due orecchie agitarsi lì vicino, mi parevan due orecchie di lepre. Ho pensato al salmì, ma boiavacca, con tutto sto Ramazzotti in corpo, non so dove l’ho presa. Dal verso però ma pareva più un fasàn».
«L’hai ciccata Gringo, la léura l’è scapata e il fasàn l’hai mancato».
Dal mattino presto, il giorno seguente, sul posto operano carabinieri e cronisti, in un chiacchiericcio fatto di domande e risposte, mentre è in corso un sopralluogo: Nebbia è già tornato sul luogo del delitto, è lì sotto un platano, appoggiato alla Graziella e ascolta le voci che si sovrappongono, tra le panchine. «Un vigile urbano aggredito, ha denunciato lui stesso stamattina». «Ferito? No, denudato di tutto, dal cinturone alla divisa, tranne il cappello che ha difeso strenuamente». «E chi potrebbe essere stato?», «S’indaga nell’ambito della malavita degli spacciatori», «Testimoni?», «Nessuno», «E le mutande di pizzo rinvenute sul luogo dell’aggressione?», «Non comment». «Qualche dichiarazione sul borotalco rinvenuto nei pressi della mutandina?», «No comment», «E il libretto di aforismi rinvenuto lì vicino?», «Lo faremo analizzare, ma è visibilmente compromesso da sostanze organiche».
Un libretto bagnato, puzzolente e scolorito, ma aperto casualmente a pagine 17, alla frase: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. «Salvato dalla pipì», ridacchia Nebbia, ripensando a Gringo.

Anche le biglietterie automatiche hanno un cuore

Un pendolare minaccia una biglietteria automatica con la pistola: arrestato. Purtroppo, tra uomo e macchina i rapporti restano difficili, ma la legge trionfa. Alla stazione di Busto Arsizio ha prevalso la tecnologia, perché ha avuto più sangue freddo. L’animale a due gambe, quando non riesce ad aver ragione con le buone, finisce sempre per sbroccare e passare alle maniere cattive: la violenza, è evidente, si dimostra più che mai sintomo di debolezza, al contrario di quello che molti potrebbero pensare. E la dinamica è sempre la stessa, dalla politica internazionale alla coda al semaforo, fino alla vita quotidiana spesa tra le banchine delle stazioni e le carrozze degradate di un treno localissimo.

È vero, la biglietteria automatica a volte è bastarda, ma almeno non fa sciopero: tra le tante sigle sindacali che proliferano tra i ferrovieri, non ce n’è una che abbia mai pensato di difendere i loro diritti, anche se, a questo punto, qualcuno potrebbe pensarci. Non potendo azzardare vertenze su orari di lavoro, minimi salariali e ammortizzatori sociali, almeno uno straccio di comitato potrebbe valutare una campagna di sensibilizzazione sulla sicurezza: scorta armata o possibilità di difendersi. Basta violenza, insomma: anche le biglietterie automatiche, in fondo, hanno un’anima. Altrimenti che si torni all’occhio per occhio.

Ogni lunedì mattina, lo sanno tutti, la stazioni sono una giungla, ma come nei peggiori saloon è comunque vietato sparare sul pianista. Un pistolero esaurito, invece, ha infranto l’unica regola ancora in vigore nel far west e la legge, implacabile, ha fatto il suo corso. Il popolo dei pendolari è in subbuglio, perché voci incontrollate, ma non smentite, sostengono che tra i meandri del pacchetto sicurezza ci sia un articolo che istituisce anche il reato d’ingiuria e sputi ai danni delle macchinette automatiche: è la fine di un’epoca, i maleducati sono avvertiti e, presto, anche le macchinette saranno autorizzate a rispondere per le rime. «Ridammi il resto, zoccola!», «E tu pigia il tasto corretto, stronzo!». La fanno franca, invece, i soliti maniaci: eppure, sembra non siano pochi i casi di stupro delle biglietterie automatiche nelle stazioni più desolate della Pianura Padana. Ma il ministro per le Pari opportunità si sta già attivando.

In quell’angolo triste e isolato della stazione di Busto si è consumato un dramma che, se alle biglietterie automatiche fosse garantito il diritto di replica, si sarebbe potuto evitare:
«Vuoi fare la furba eh!? Io il biglietto l’ho già pagato, ora vediamo se di fronte alla mia pistolona, ti torna la voglia di fottermi»
«Dai non fare così, ragiona, ti posso spiegare tutto…»
«Spiegare cosa? Mi hai tradito e io non ti perdono»
«Fai presto a dire tradito, ma prova a riflettere su come mi hai trattata. Come sempre hai fatto tutto di fretta, ma ti ho sempre chiesto di fare attenzione ai preliminari. Non tutti i buchi sono buoni, poi: per chi mi hai preso?»
«Basta, ho già ascoltato abbastanza, è giunta la tua ora»
«Su, aspetta, non perdere la testa. Se metti via la pistola, ti dò l’indirizzo di una mia amica che li dà gratis e lo fa da tutti i buchi»
«Le solite favole, ma dove l’hai vista, con le bagnine di Baywatch?»
«Quali favole, esiste veramente ed è a due passi da qui»
«Ma almeno è carina?»
«Beh, è simpatica»
«Ecco, siamo alle solite: allora è sicuramente tutta arrugginita con i tasti unti e tappezzata di chewing gum»
«Non è verò, caro, come posso definirla, è un tipo… Nel senso che in certi orari fa la sua figura e parla quattro lingue»
«Mi stai, per caso, dicendo di trovarmi un’altra? Tra noi è proprio finita, dunque?»
«Ho bisogno di tempo per riflettere»
«Vuoi prenderti una pausa, ma non è che hai un altro? Scommetto che mi tradirai con il primo che passa»
«Ma quale altro, mi hai fatto soffrire troppo. Certe ferite non si guariscono in cinque minuti»
«Non volevo farti del male, lo sai, e la pistola è scarica»
«Presto avrò la forza di perdonarti, ma prima di ricominciare lasciami un po’ di tempo per pensare»
«Ok, è giusto che tu prenda i tuoi tempi, ma non ti ricordi quanto è bello fare la pace, poi?»
«Prometti di non farlo più?»
«Promesso»
«Bravo, prima o poi ci riproveremo, contaci. Ma la prossima volta, ricordati la carta di credito, amore»

Pendolari: Mino, cespuglio senza freni

L’artista del fuori corso cambia vita: non per scelta, ma per minaccia. Presenza fissa al binario due, tra le sette e trenta e le otto, eccolo all’ultima discesa verso la grande Milano: Mino, per gli amici cespuglio, prova a familiarizzare con la parola “lavoro”. E lo fa dopo una vita teorica e troppi amori troppo poco platonici. Un carrozziere di Legnano una sera l’ha preso per il bavero e sollevato da terra di dieci centimetri: «Hai voluto fare il porco con mia figlia? Adesso il pupo lo mantieni tu e vedi di essere uomo». Domani sarà il giorno imposto per essere uomo: nella carrozzeria di Legnano, naturalmente.

Presenza carismatica del chiostro dell’università, come le colonne in granito rosa piantate lì fin dal medioevo: facoltà di filosofia, settimo anno fuori corso, ma frequentante. «Bisogna farsi una posizione, in questo mondo», diceva al primo anno. Sua madre glielo aveva inculcato per tutta l’adolescenza, questo concetto: Mino impiegò pochi mesi, tra i banchi delle aule affollate di pensatori in erba, a confondersi le idee: la filosofia, intesa come amore per la sapienza, non offre certezze, anzi le distrugge. E i primi dubbi sulla posizione sorsero già a metà dell’incontro con Parmenide ed Eraclito, tra la filosofia dell’essere e il “panta rei”. E lì cespuglio, il nemico dei barbieri, fece la sua prima scelta: prima di approdare a Socrate già sapeva di non sapere e optò per Marilù, specialista in teoria e pratica dello sbattacchiar di ciglia. Mino frequentava e frequenta: per coerenza più che per dovere morale, perché è meglio indugiare sulle scollature delle studentesse, puntando sul fascino dell’intellettuale incompreso dal mondo. Perché è meglio pensare che è il mondo a non capire, piuttosto che sospettare di essere noi stessi a non capire il mondo. Rachele, la scosciata che odiava Cartesio, invece, aveva capito tutto e passava gli esami con argomenti decisamente più interessanti rispetto alle teorie di Mino: faceva presa su giovani assistenti di cattedratici incartapecoriti, uomini mai stati maschi che, davanti allo svolazzar di tessuti della signorina, scoprivano inaspettate applicazioni del pensiero di Hobbes, secondo il quale la sostanza unica è la materia. Ma quella materia, mostrata dalla Rachele, aveva tutt’altra sostanza: quanto basta per mandare il cervello in “game over” e affibbiare un ventisei su trenta per manifesta superiorità della carne sul pensiero.

Già, la Rachele mandò in pappa anche i pochi neuroni di Mino che, dietro le sue sottane, smarrì un altro anno di corso, con montagne di libri impolverati che rimanevano oggetti inesplorati. Come fare a capire se cespuglio avesse o meno aperto e studiato un libro? Semplice, bastava aprirli e verificarne la presenza della forfora tra le pagine. Ormai lo sapeva benissimo anche il prof di filosofia moderna a ogni sessione d’esame. Prima ancora di formulare la domanda d’inizio allo studente, gli bastava dare un’occhiatina al libro che aveva con sé lo svogliato, per capire che andazzo avrebbero preso quei dieci minuti d’interrogazione.
Mino, però, non si perdeva mai d’animo, né per la bocciatore, né per i due di picche: «La filosofia è cultura», diceva lui. E la cultura ha bisogno dei suoi tempi per essere capita e studiata: «In questa società frenetica, ora si capisce perché non si fa più cultura», era la sua giustificazione.
Per darsi un tono, perché non si è mai capito se ci credesse veramente, si fece una posizione anche nel comitato leninista universitario: roba da superintellettuali, con riunioni interminabili a parlare di partito e lotta di classe che sfociavano, quasi sempre, in desolanti battibecchi farciti di “Juve merda” e “milanista del cazzo”. A quel punto Mino si era fatto l’idea che, per essere un leninista credibile, avrebbe dovuto tifare Inter: in primo luogo perché, a quei tempi, l’Inter non ne imbroccava una ed era un po’ come la classe operaia che mai andava in paradiso. E poi, l’interista era la contrapposizione netta al berlusconismo imperante che aveva nel Milan, un simbolo di potere quasi dispotico.

Poi i tempi sono cambiati e anche l’Inter non è stata più la stessa di qualche anno fa. Mino si è un po’ distaccato dal calcio, per dovere morale, perché un leninista non può stare con chi vince sempre e troppo. «Mino! Ma quand’è che ti fai una posizione?», domandava mamma Irma, che si sentiva invecchiare e avvertiva, al contrario del figlio, il vero senso del tutto scorre, panta rei… «e quel lazarun l’è semper là cunt i liber in man». Con i libri in mano, pensava mamma Irma, ma non conosceva la musa ispiratrice del figlio, Clotilde, donna modificata al silicone e trasformata in sventola. Mai avrebbe pensato, Mino, che avrebbe capitolato nelle grinfie di una sirena del capitalismo, perché la chirurgia estetica è l’emblema più attuale dell’ineguaglianza sociale. Ma Clotilde, filosofa di Legnano con papà carrozziere, aveva tutta un’altra idea della posizione e avrebbe voluto sposare un manager d’azienda: e con un seno piccolo, si sarebbe sentita depressa. E una donna depressa mai avrebbe potuto sedurre un manager. «Per una donna, la filosofia è vero amore per la sapienza se riuscisse a trovare un marito con un bel conto in banca».

Ma la natura, spesso, prevale e la sognatrice sottovalutava l’impeto del leninista, con quella forza che sale dal basso come una rivoluzione: e mentre Mino faceva la sua rivoluzione, la situazione sfuggiva di mano, come capita nelle più caotiche sommosse popolari, ma più probabilmente per scarsa dimestichezza con la materia artificiale, ovvero il silicone. Undici anni di “onorata carriera” (quattro più sette fuori corso) per dare un senso ai “perché della vita e del mondo” non sono bastati per capire che, a volte, nella vita è meglio tirare i freni: Mino, per una sera, non ha frenato, non si è tenuto e la vita ha scelto per lui. «Meglio così» Panta rei, tutto scorre, e niente sarà più come prima: la natura ha fatto il suo corso, il treno per Milano, da ora in avanti per lui si ferma prima, nella ridente Legnano (“che cavolo avrà mai da ridere ‘sta città”, pensa spesso tra sé l’ex leninista). Il suo destino passa da una carrozzeria, svolta beffarda, ma inevitabile: «un papà che si rispetti deve farsi una posizione» e Mino si rassegna al suo futuro, o meglio, ad avere un futuro. Per essere uomo.

Il mestiere, la cassa integrazione e la resistenza

Pizzo e raso: Chantal nutre da sempre una passione quasi morbosa per questi dettagli, nella lingerie. E da una sottoveste di pizzo e raso, nella notte, ha ricavato un velo da chiesa, l’ha cucito con grande dedizione ed è venuto pronto per il mattino. Non entrava nella Certosa da molti anni, ma ora, pensa tra sé, è il momento di chiedere un intervento dall’alto, anzi «non resta che affidarsi all’Altissimo», ha sussurrato a Nebbia, incrociandolo sul marciapiede che porta al sagrato. Un minuto, non di più, per confrontarsi con la croce e accendere un cero e domandare una grazia, giusto il tempo per fare venire una vampata d’inquietudine a don Nicola, quanto basta per sollevare nell’aria il chiacchiericcio di due pettegole, come il borbottìo di una pentola di fagioli in una stanza vuota.
La litania sacra non la conosce, Chantal: intona il suo lamento profano poco dopo, al tavolino del bar, davanti al suo confessore pagano, il Nebbia, che finge di leggere una pagina delle Metamorfosi di Ovidio, con gli occhi su una frase che suona beffarda: “Apprendemmo troppo tardi dai contadini, in quella pianta si era nascosta, per sfuggire alle voglie oscene di Priàpo, la ninfa Loti, mutando aspetto ma non il nome”. La ninfa Chantal chiede rifugio a Nebbia e lui, invece, fa quel che può, tenendo a bada una ormai rara impennata di desiderio.«E ora che faccio, i saldi? Chi me la dà a me, la cassa integrazione? L’affitto lo devo pagare lo stesso». Chantal, capelli rossi raccolti, occhi verdi, curve sinuose che scendono fino ai piedi, mostrando pelle liscia che fuoriesce dai vestiti, ombre tra carne e tessuto, un ‘opera d’arte un po’ attempata, ma che ancora regge bene il confronto con ben altre gatte di vent’anni più giovani: una vita a vendere intimità, a lavorare sodo con emozioni e piaceri comprate o affittate da uomini soli, deboli che fanno i duri soltanto grazie a maschere di opportunismo, benestanti annoiati, operai e dirigenti, giovani e vecchi. Ha vissuto per anni all’ombra di un’economia discreta e ipocrita, tra fabbriche, uffici, grandi concessionarie di auto, ricevendo i suoi clienti in un dignitoso appartamentino a due passi dal cimitero Musocco. Ora, con la crisi, le aziende o hanno chiuso o sono in cassa integrazione, molte si sono trasferite all’esterno della città: palazzi e capannoni si sono svuotati in pochi mesi.
Al quartiere rimane soltanto l’economia del caro estinto, ovvero pompe funebri e dintorni. Ma, seppur brava nel suo genere, Chantal non è ancora in grado di resuscitare i morti: con loro, la scollatura non fa più effetto, non gli resta che qualche fedelissimo o pochi principianti sovraeccitati da un annuncio sul giornale, gente da cinque minuti compreso il bidé. Ottanta euro gettati sempre più di rado sulle lenzuola sfatte di un letto che, in altri tempi, ha visto ben altro. Ora anche il materasso sembra soffrire la carestia e sembra incurvarsi sotto il peso dell’usura, come la gomma piuma sulle reti di San Vittore. Chantal è dama di compagnia per uomini d’altri tempi, non certo per pornografi dopati dai siti internet, non ha futuro nella Milano bulimica del sesso che sa di cocaina. E sul marciapiede non ci vuole più tornare, sono vent’anni che non lo fa più così.
«La commessa? Potrò mai fare la commessa?»
«Ah, perché no? – la consola a suo modo Nebbia-. Ne cercano uno, di commesso, giù in ferramenta. Uomo o donna, non stiamo a sottilizzare, meglio donna, no? Secondo me, tu vai bene in ferramenta».
«In una ferramenta ci sono entrata una sola volta nella vita. Per una scommessa con la Wanda, quella che lavorava a piazza Firenze».
«E hai vinto?»
«Certo, ma erano solo diecimila lire. Dovevo entrare e mangiare una banana».
«E com’è andata?»
«L’ho fatto. Solo che la banana mi è un po’ rimasta sullo stomaco, non la digerisco bene».
«Potresti rifarlo. A scopo promozionale, diciamo così».
«Non rimedierei neanche una sveltina, in ferramenta girano certi calendari… con tutte quelle bambolone gonfiate dal silicone».
«Ah se non c’è partita in ferramenta, prova giù al centro anziani, con certe pilloline oggi si fanno i miracoli anche a settant’anni. Guarda cosa succede in Parlamento».
Chantal sorride e non dice nulla, si fuma una sigaretta lì al tavolino e, dopo il caffè, si alza e sparisce dietro l’angolo con un ancheggiare da ragazzina. Nebbia china di nuovo il capo su Ovidio “Se scompare il mare, la terra e la reggia del cielo, nel caos antico ci annulleremo. Salvalo dalle fiamme quel poco che ancora resta: abbi a cuore l’universo!”.
L’indomani, verso mezzogiorno, il silenzio unto di afa di una mattinata di luglio è rotto da sirene d’ambulanza. Nebbia, dal marciapiede del viale, allunga il collo e cerca di capire dove è diretta: proprio giù in fondo, all’altezza del condominio della Chantal. Centoventi passi, non di più per scoprire l’ennesima “tragedia sul lavoro”.
I portantini si affrettano a varcare l’uscio e a caricare sull’autolettiga le spoglie del povero Brambilla. Sì, proprio lui, il Vanni Brambilla, ex partigiano duro e puro, da anni asserragliato al circolo per anziani dietro bandiere di una rivoluzione mai avvenuta, vittima della sua unica debolezza: il veleno del capitalismo si è impossessato della sua mente con l’illusione dell’elisir di lunga vita e lunga durata, sottoforma di pastiglie azzurre acquistate sottobanco alla farmacia di Pero. Un solo errore, una sola volta, quella fatale. Vanni Brambilla saluta il mondo dalle lenzuola della Chantal. Nell’ultimo bagliore di luce ha visto e accarezzato morbide fantasie di pizzo e raso: caduto sul campo di battaglia, non sotto i colpi dell’artiglieria tedesca, ma per troppo ardore, per aver creduto in una finta giovinezza.
Nebbia sta lì, seduto sul marciapiede, guarda l’ambulanza allontanarsi senza più la sirena accesa. La strada del Vanni, verso l’obitorio è breve: «Tanto poi torni domani da queste parti, rifarai la strada fino giù in fondo». Pensa ad alta voce, guardando verso il cimitero Maggiore. Cinque minuti dopo scende Chantal con una valigia in mano e il magone negli occhi: «Nebbia, ciao Nebbia. Io glielo dicevo al Vanni di frenare. Va piano Vanni! Sta fermo! E invece al sa tegneva mia e l’è scoppiato».
«La resistenza. Tradito dalla resistenza. Segno dei tempi. Forse era meglio la ferramenta, con ‘sti vecchietti si corrono dei rischi».
Solo un cenno di saluto, prima di salire sull’autobus, con la valigia in mano: Chantal saluta Musocco e il suo mondo finito in cassa integrazione. Destinazione ignota, ma Nebbia non si rassegna: «Prima o poi torna. Finire come il Vanni, magari a 99 anni, sarebbe il mio sogno».

Gibbone in fuga, preso con le mani in mano

Gh’è scapà al gibòn. Si aggirava in viale Papiniano, camminava ciondolante senza meta. L’hanno notato in molti, oggi ne parlano tutti i giornali. C’è già una segreteria di partito che studia una strategia per la prossima campagna elettorale: la faccia buca il video, indubbiamente. Il gibbone è un inedito che potrebbe diventare il simbolo della riscossa delle facce da schiaffi, degli uomini scimmia, o soltanto delle scimmie.
Si grattava il capo nervosamente, il gibbone, e non sapeva se valesse la pena di attraversare il viale oppure rimanere lì, sotto il platano: il dilemma di una giornata di un milanese, forse un po’ atipico, ma pur sempre con una dignità. Più di qualsiasi clochard, di un miserabile, come i tanti che vagano alla stessa maniera e riscuotono soltanto indifferenza: almeno il gibbone non è sembrato una comparsa scomoda, ma attore protagonista di qualche fotogramma della giornata più appiccicosa dell’anno, con l’afa che fa molto equatore.
Ma un gibbone o un chicchessia finisce comunque per fare massa e in città la massa finisce per dare fastidio. Già dopo una mezz’oretta che era lì con le mani in mano, sotto il platano, c’era qualcuno, sul marciapiede opposto che mugugnava alla vista dell’energumeno peloso: «Di questi extracomunitari non se ne può più». E già ci sono opinionisti che si chiedono se si tratti di razzismo oppure di un passaggio di grado, da semplice scimmia a extracomunitario, categoria che a Milano ristagna nei piani più bassi del rispetto, purtroppo.
Gh’è scapà al gibòn e potrebbe diventare presidente. Dove? Una poltrona qualsiasi. E se non ci fosse posto, va bene anche manager. Ci starebbe seduto giusto il tempo per far danni e mandare qualche azienda sul lastrico e, magari, come buona uscita, è a buon mercato e si accontenta di un casco di banane: una convenienza, tutta da valutare.
Ghé scapà al gibòn, ma poi l’hanno arrestato, come un malandrino: si potrà mai permettere, uno scimmione, di fermarsi a pensare se attraversare una strada oppure no? Dietro le sbarre, ma presto in libertà, assicurano i benpensati: «Al suo paese, magari. Rimandiamolo da dove è venuto». Qualche deputato protesterà e c’è chi farà gazzarra su ‘sta cosa, un’interrogazione parlamentare potrebbe essere all’ordine del giorno. Clandestino è una brutta parola di questi tempi, ma ancora non è chiaro se esiste una normativa che faccia distinzione tra uomo e scimmia. Soltanto la tivù, a questo punto, potrebbe salvare il gibbone di Milano dal triste destino di un “sans papier”: un talk show farebbe al caso suo, ma in estate i palinsesti sono tutti bloccati. Rien à faire, non se ne fa niente: gh’è scapà al gibon e Milano non è più la stessa. O forse no.

Milano vista da Pero

Ci sono quelli del Musocco e della Certosa, che Milano la vivono ai margini. Poi c’è un mondo appena fuori, oltre le mura, si diceva un tempo: la grande metropoli sputa fuori in continuazione vita, storie, lavori, paranoie. Come accade alla periferia di Pero, vista inceneritore, dove sono finito oggi. E da qui, riprenderò a raccontare, tra uomini e donne dal passo veloce, su e giù dai treni, per arrivare sempre più in tempo. Chissà dove, chissà perché.

Quando l’aria è troppo pesante…

… un topo di campagna ha bisogno di prendersi qualche giorno lontano dalla città. Ma ho ancora un sacco di vita da raccontare, storie di uomini e bestie, pendolari e cronisti della monotonia, tra l’odore dello smog e i condomini ingrigiti che segnano l’orizzonte, l’alba e il tramonto ai margini di una metropoli. Nebbia e gli altri sono ancora all’ombra della Certosa, come ogni giorno, ai tavolini del bar dell’angolo. Oltre la città, c’è una ciminiera che manda odore di cavolo lesso: là sotto, in mezzo ad altre teste “contaminate”, topo di campagna riprenderà a raccontarvi le prossime storie. Ma dopo il 28 giugno…

Taleggio e cronaca nera

Giacomo è un lupo della cronaca, detto Schiscetta. Un lupo diurno che parte da lontano ogni mattina: un’ora di treno, stop in periferia. Milano Certosa, la porta del far west, e un chilometro a piedi fino alla redazione. Mentre il treno saltella sulla traversine dei binari, ha tempo per sognare e pensare, leggere e tacchinare giovani studentesse inebetite dal fascino del reporter. Lui, esperto lavoratore ai fianchi, soprattutto quelli scavati e sinuosi, non ha tempo da perdere, deve “far girare il giradischi“, dice lui. Inteso come sfangare parole e notizie ai margini della città. E così, per risparmiare tempo e denaro, la moglie Nunzia, sarta in cassa integrazione nella “Brianza bene”, gli confeziona pranzi al sacco alla vecchia maniera: al bar dell’angolo, panino, birra e caffè fanno più di dieci euro. Per molto meno, Nunzia propone sfilatino agli sgombri alternata a michetta con taleggio e focaccia con mortadella, rigorosamente con pistacchi. Regola numero uno, variare il menù, secondo l’alternanza classica: tre sapori opposti, tre odori diversi che si spandano, uno per giorno, tra le quattro mura di un ufficio polveroso e pieno zeppo di carta e scrivanie.
Il posto di Giacomo è il playground dell’acaro, ma poco distante c’è il paradiso della Wilma, pantera della rosa, regina del pettegolezzo e del cambio merci: notizie glamour al prezzo di profumi ed elisir di giovinezza. Il suo silenzio sugli scandali in cambio di creme per il seno e autoabbronzanti.
Sedici metri quadri nei quali concentrare i fatti di un giorno sudicio, suddivisi in quattro angoli, tra i quali spiccano l’angolo della bionda che manda aroma di mughetto e menta e, ai confini della realtà, la nicchia modello Calcutta, dove abitualmente siede e sverna Giacomino che “gira il giradischi”.

Pausa pranzo in solitudine per lui, un uomo in trincea tra scrivanie deserte: oggi è il giorno del taleggio, pasta morbida che stoppa un po’, ma con un buon chinotto va giù senza fare il bozzo in gola. Tace Milano, la cronaca fatta di coltelli, transessuali e gelosia, per ora lascia un po’ di tregua. Masticando in intimità, la mente viaggia agli anni della gavetta, quando il Giacomo faceva il galoppino in provincia, sempre a caccia di liti da cortile, scambi di vedute e ceffoni in consiglio comunale, roba da poco. Nella periferia di una metropoli si vive impelagati nel torbido, con la vita che ogni giorno vale sempre meno: nei palazzi bene, si accendono telecamere e si mostrano paillettes, qui la gente si accoltella per un niente, sangue che diventa titolo per un giorno, anzi meno. E poi i morti scompaiono presto, oscurati del delitto del giorno seguente: tritacarne mediatico, lo chiamano. E Giacomo fa “girare il giradischi”, nel senso che muove un sottobosco d’informatori, una rete costruita da topi e talpe di città.
Nemmeno il tempo per il secondo morso al panino, nemmeno un fiato di chinotto, il telefono è come una fitta allo stomaco, se squilla quando non dovrebbe: «Per Dio, pronto! Ex domatore depresso è fermo sul cornicione di via Sapri? E che fa, aspetta il trapezista? Guarda giù e non sa che fare? Senza la rete? Forse non si butta, ah…ok, corro lì». Boiavacca a ripetizione, nel giro di dieci secondi, panino in mano, canapino e penna a sfera nel taschino della giacca, Giacomo scatta dalla scrivania, ma sbaglia le misure di dieci centimetri: inciampa e vola, con un porc…. formato arcobaleno. Gomiti a terra e una michetta che rotola inesorabilmente sul pavimento come un frisbee lanciato male. Non c’è tempo, c’è da correre sotto il cornicione, il panino finisce nel cestino dell’immondizia, beffa vigliacca prima di sparire e raggiungere il domatore.

Cose che capitano, si dice in questi casi, ma a volte la sorte prende pieghe bizzarre: come la piega della fetta di taleggio che, per uno strano destino, va a infilarsi sotto la scrivania della Wilma, ignara e assente. Un centro perfetto in un pertugio tra scrivania e parete, prima di scomparire nelle tenebre. Ma il taleggio, si sa, non è all’occhio che desta scalpore, bensì all’olfatto: la sua presenza non la si vede, ma la si avverte sempre, questo è sicuro. La peggior disgrazia immaginabile per la bionda Wilma che, mezz’ora dopo il rientro dalla pausa coiffeur, sospira nervosamente come se stesse preannunciando un attacco d’asma. «Non è nemmeno colpa del Giacomo», pensa tra sé, accorgendosi che il collega è fuori sede, ma l’inquietudine non si placa. Il dramma impone un intervento drastico, firmato Chanel numero 5 spruzzato a litri: ne esce, però, un mix mefitico, perché il taleggio è bastardo, non si placa nemmeno dentro una tanica di acqua di colonia.
La redazione si anima, un viavai di collaboratori, informatori, pony express, nella selva di parole e squilli di telefono, ma anche agli uomini più avvezzi al sentore selvaggio non sfugge l’olezzo della Wilma: un istante, quasi un mancamento, imbarazzo di un secondo e tutto riprende. Ma per la Wilma, no, la vita non è più la stessa, questa è la peggior tragedia che le sia mai capitata, dopo il black out della doccia solare del 2004: continua a guardarsi attorno, sul pavimento, non vede nulla, tutto è come sempre. Non resta che passare in continuazione la scrivania con il multiuso, ma niente, l’aroma è quello di un sandalo di marciatore al termine di una giornata d’estate.

E così va per tre giorni, con Giacomo e i suoi panini che non fanno più breccia nell’atmosfera guastata dal terribile nemico invisibile. La cronaca corre, non ha tempo per guardarsi attorno, ma la Wilma non potrà resistere a lungo. Fino alla catastrofe. Il caporedattore si alza con fare scocciato e gli si para davanti, mentre lei è al pc: «Wilma, porca troia, ta spuzzan i pé». Non servono traduzioni per immaginare l’effetto devastante di tale attacco frontale che fa vacillare il volto truccatissimo della pantera della rosa. Volto color fucsia, misto rabbia.
Dieci minuti di terrore sulla sua scrivania, la Wilma fulmina tutti con lo sguardo e sposta furiosamente ogni cosa gli capiti sotto mano, alla ricerca di una prova che possa in qualche modo scagionarla: «Se potessi sbattergli i piedi in faccia, a quello là, per fargli capire che io i piedi me li lavo eccome».

Un urto accidentale, la scrivania si muove di un centimetro. Dall’oscurità, vicino alla parete, fa capolino qualcosa di giallo, che visto da vicino viene identificato. Wilma lancia un urlo che è più di liberazione che di terrore: «È formaggio! Non sono io!» Gelo e silenzio tra le quattro mura e quattro giornalisti accampati lì: volti che si girano all’angolo Calcutta, con Giacomo che diventa un punto di domanda vivente. Prima non capisce, poi accetta il verdetto: il destino ha voluto punirlo, beffardo, e a girare il giradischi, ora, è nel sottoscala, per ordine del direttore. Lontano dal mondo che conta, esattamente come le sue notizie giornaliere.
«È una questione di sopravvivenza. Qualità e immagine prima di tutto!», urlano le gerarchie dentro gli uffici passati con la cera. Una fetta di taleggio, oggi, è quanto basta per rivoluzionare la politica di un giornale, soprattutto se va a scapito della reputazione di una gattona che vive in una nuvola di Chanel. La prima pagina ora è un gran florilegio di sfilate e feste, scollature e lustrini. Non c’è futuro per i cronisti con la schiscetta. Tempi duri anche per gli ex domatori che passeggiano sui cornicioni.

La disfatta dell’anarchico

«Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato». (Matteo 28,19-20)
Nina Orapronobis ha una fede inattaccabile, non c’è tentazione che faccia breccia nel suo cuore. Nebbia ogni tanto la incontra lungo la strada che conduce alla fermata del tram e, ormai, ha smesso di discutere con lei di religione: qualche anno fa, ci passava svariate mezz’ore a contestare le certezze della donna, in materia di aldilà e profeti. È la colonna portante della sezione locale dell’Aziona cattolica, la Nina: inversamente proporzionale al suo aspetto, esile come un roditore, ma un gigante nei valori. Nebbia ce l’aveva in particolare con la vecchia storia della castità – non che la Nina l’avesse mai indotto in tentazione, ipotesi peraltro fin troppo audace per la fantasia di chiunque – e con l’influenza clericale sulla vita politica. Ma la Nina, nulla, aveva sempre replicato colpo su colpo a ogni provocazione, come un libro stampato e quando si ritrovava messa all’angolo, sfoderava un vecchio adagio, che le figlie di Maria, anni fa, sbandieravano come un grido di battaglia: «Sott al campanin sa fa mai cattiva fin».

Da qualche anno, però, il tarlo della politica aveva in qualche modo intaccato il suo integralismo, noto in tutto il quartiere. Lì c’era ancora da litigare, secondo Nebbia. Lo scudocrociato in decadenza non fa più breccia nell’affetto di una generazione, dopo cinquant’anni di battaglia contro una falcemartello che, all’ombra della Certosa, non si è mai capito bene cosa e chi insidiasse. Nina ha nel cuore la figura di un novello cavaliere della salvezza, che gli ha comunque permesso di salvaguardare il suo motto, che vive da cinquant’anni: «Il genio del male va respinto dai luoghi di potere, via i senzadio dai posti di comando», inculcavano dai pulpiti. E le angeliche portatrici del messaggio evangelico, delle quali Nina era la guida, erano in prima linea, con le loro voci eteree, nel trasmettere dai marciapiedi fino su, ai terrazzini più miseri di ogni condominio, il messaggio chiaro che veniva dal fronte bianco contro l’anticristo, in genere di colore rosso e con barba e capelli incolti. Nunc et semper, nelle case degli italiani, dai marciapiedi alle tivù.

Caso vuole che Nebbia rientri perfettamente nella fisionomia del maligno: la natura lo ha fatto troppo simile a Karl Marx, in quel suo irsutismo che non lo fa certo somigliare a una creatura angelica. Nebbia vive l’anarchia, è anarchia fatta persona, ma la gente lo crede comunista. E lui ci gioca, su questa ambiguità, soprattutto con la signora Orapronobis, immacolata anche nella cabina elettorale: «La rivoluzione può darsi che non avverrà mai, ma lei sarà travolta dall’esercito del presidente, cara Nina, un plotone di maggiorate chiappe al vento».
«Muccala Nebbia, lavati la bocca, sempre con questa calunnia montata ad arte. Ci vuol rispetto per chi lavora. Famiglia e lavoro, che ne sapete voi che vivete allo stato brado?».
«Ora et labora Nina, che il tuo presidente tromba… ma che ne sai tu di sta materia? Al catechismo non le insegnano queste cose, ma al night club da oggi si prendono i voti dei cattolici».
«Sempre il solito volgare, sei un panefanagott, sempre in giro a spese della società. E ringrazia che c’è la carità cristiana, altrimenti quelli come te… dritti all’inferno da un pezzo».
Parla così bene il presidente, è gentiluomo vecchio stile: «L’è anca un bel omm. Si vede che è uno che si è fatto da solo, che lavora. Ci piaccion le belle donne? Chissà quanto ricamano quegli invidiosi dei suoi avversari. Già, l’invidia è una brutta bestia. Il vescovo dice che bisogna difendere la famiglia, lui è il baluardo».
«Ma se il suo partito è un covo di divorziati!».
«Va, va Nebbia, lassum istàa, ti ghe madumà ball. A contare le frottole, vai all’osteria».
Tutto il cancan sulla politica di questi giorni, ha fatto venir voglia pure a Nebbia di andare a votare. Il certificato elettorale, immacolato e inviolato come la Nina Orapronobis, è presto ritrovato, sul fondo di un vecchio cassetto. Seggio 3, non si può sbagliare: «Vado là e mi diverto io, poi. Io sì che ho le idee chiare e mai le nascondo».

Dieci minuti in coda, non di più, carta d’identità alla mano. Piccole formalità burocratiche per sentirsi, con matita e scheda in mano, di contare qualcosa: «Lo Stato mi dà il potere per un giorno, io lo uso come mi pare», dice tra sé. Se un anarchico va dallo Stato, deve valerne la pena. E Nebbia ha deciso che oggi ne vale la pena, ribadendo un motto che ha fatto storia tra i contestatori: “viva la gnocca” scritto a caratteri cubitali. Ecco il suo voto, in disprezzo al sistema: dietro la tenda della cabina è pronto al suo gesto, come un terrorista delle piccole cose. Ma un terribile dubbio lo assale, imprevedibile: «Mund lader, ma viva la gnocca è la linea del presidente, non si può dar ragione a quello là». Bisogna pensare a qualcos’altro e, soprattutto, mai arrendersi alla scheda bianca, simbolo dell’inconsistenza: «Se io conto, qualcosa devo scrivere su sta scheda». Passano i minuti e alle sue spalle, là fuori, c’è chi mugugna.
Mai accaduto prima. Nebbia è nel panico e, in cerca di una soluzione, gli capita di fissare i simboli dei partiti: tanti disegnini, «qualcosa bisogna pur scegliere», gli balena per la testa. «Ma quanti sono? Ma chi c…, ma come cavolo». La mente è come un flipper in tilt, gli occhi vagano da un simbolino all’altro e, assalito da un senso di disperazione, quasi sfinito, mette la sua croce che sembra uno sbrego sulla scheda. Chiude il plico senza pensare, senza vedere, imbuca nell’urna e scappa via, in dieci secondi, senza dar peso agli altri che lo osservano perplessi. Fino al marciapiede, giù in strada, appoggiato al muro della scuola: voto regolare e conteggiato, il primo nella sua carriera di anarchico. Segno della resa. Rinsavisce e ricorda: una croce su quel tricolore su fondo azzurro… «Boiavacca, ma perché non sono andato a pescare!», impreca ad alta voce.
Il presidente ha vinto anche stavolta, l’esercito delle maggiorate sventola bandiere e poppe. La Nina, che il reggiseno non l’ha mai indossato perché non previsto dalla scritture, passa di lì e, senza sapere, rifila una battuta che sembra un gancio di Mike Tyson: «Che l’amore trionfi, figliolo. Ma voi comunisti sapete anche leggere, per votare?». La disfatta è compiuta: «In saecula saeculorum, amen», risponde Nebbia.
“Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi” (Niccolò Machiavelli, Il principe)