Informazioni su Topo Franz

Ormai quarantenne, giornalista, scrittore per qualcuno, scribacchino per altri, sognatore, uomo di lago, cultore della buona tavola, pendolare, papà, marito, ex fisarmonicista, ex playmaker di basket, ciclista con la pancia

Dimmi cosa leggi, pendolare…

Al bando la freepress, dunque, tra le prime cause d’inquinamento ambientale dei treni pendolari e d’inquinamento mentale degli stessi viaggiatori che ne fanno un uso smodato, spesso improprio. Sui locali del mattino e della sera, i libri, per fortuna, resistono… Anzi continua a essere il feticcio ideale del pendolare, è la finestra su un mondo parallelo, la scorciatoia verso una fantasia che permette di evadere almeno con la mente da una carrozza lercia e maleodorante che, stamane, ha raggiunto livelli al limite della vivibilità.

Treni, metrò, autobus: a ogni mezzo un libro. In genere la differenza sta nel formato e nel numero di pagine, ma a volte anche nel contenuto: questo vale soprattutto per chi, ogni mattina, prende un solo mezzo pubblico. Per chi, invece, si barcamena su più mezzi, la scelta dipende semplicemente l’umore del momento. Il libro da treno, in genere, è di un formato che si può tranquillamente appoggiare sulle ginocchia mentre si sta seduti. Io non faccio testo, poiché sto leggendo “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez, edizione economica, scritto piccolo: questo mi costringe a leggere lentamente, a soffermarmi di più e a rileggere spesso i passaggi più intensi. Insomma è un po’ più faticoso di un bel tomo scritto grande, come per esempio un rassicurante “Libro dei morti” di Patricia Cornwell elegantemente sorretto da un’avvenente signorina seduta di fronte a me, stamane. Chissà quali idee avrà per il week-end…

C’è poi il libro da metrò, in genere di dimensioni ridotte dal peso e formato minimo, facile da tenere in mano mentre si sta in piedi, nella vettura strapiena di gente: spesso la scelta cade su autori con ritmo veloce, dalla scrittura facile, immediata, che usa capitoli molto brevi. Andrea Vitali, per esempio, ha lo stile ideale per chi ama ingoiare capitoli che durano un paio di fermate o tre. Il libro da autobus, invece, è più light soprattutto come contenuto, in genere umoristico: la Littizzetto e Oreglio spopolano alle fermate.

Come accennato, chi usa più mezzi sceglie in base all’umore: e com’è l’umore dei pendolari, in questi giorni? Sbircio a destra a sinistra nella mia carrozza e vedo, lì accanto, un ragazzo assorto nella lettura di “A ritroso” di Joris Karl Huysmans. Chiedo di parlarmene e il giovane, sicuramente uno studente, risponde in poche parole: «È il manuale del perfetto decadente». Il protagonista è un nobile parigino, stanco della vita. Il libro racconta le fobìe di un uomo che vive in una stanza arredata come fosse una nave… Coraggio, pendolari: su con il morale!

Diario del pendolare: libertà di stampa

La libertà di stampa è un diritto, si sa. Ma comporta scelte e doveri per sostenerla, sia da chi i giornali li fa, sia da chi i giornali li legge.
I pendolari, da sempre, sono un popolo di lettori e sulle carrozze dei localacci, e non sulle linee dei signori dell’alta velocità, si riesce a tastare il polso dell’informazione dei lombardi che studiano e lavorano.
Ebbene l’edicola della stazione, un tempo strapiena di clienti, da qualche tempo è vuota. Le copertine e le prime pagine fanno bella mostra di sé sullo scaffale, ma rimangono dove sono. «Colpa di quelli che i giornali li danno gratis», si lamenta l’edicolante.
Quotidiani freepress (gratuiti), tra Milano e l’hinterland, oggi, se ne distribuiscono parecchi, migliaia e migliaia: spopolano agli ingressi delle stazioni e vanno a ruba tra i viaggiatori, per poi essere abbandonati sul posto. Notizie? Tutte uguali, riprese da Internet e scopiazzate dalle agenzie, un po’ di gnocca qua e là, tanta bella morbosità, il giusto mix di pettegolezzi per un lettore sempre più stressato, quello che viaggia. «Tanto anche sui quotidiani a pagamento è la stessa solfa», dice, sconsolato, un pendolare, ex lettore di quotidiani a pagamento, oggi rifugiatosi nella letteratura (Dan Brown trionfa sul passante ferroviario). La desolazione delle carrozze, al termine della giornata, con tutta quella carta sparsa qua e là, da un’idea precisa di quando si parla di “informazione spazzatura”.
Già, ma la difesa della libertà di stampa, quella che tanto fa infervorare la politica e i benpensanti, non comincia dall’investimento di 1 euro (uno) presso un’edicola?

La fortuna è cieca o miope?

Al bar dell’angolo sono anni che non si gioca più a briscola: ora, a tenere banco, c’è il reparto ricevitoria, dove ogni mattina la procace Marilena sta lì a raccogliere le giocate. Tra i tavoli, tra bicchierini di Marsala e caffè con rimorchio alla grappa, s’intonano litanie oscure: «Sei per quattro, ventiquattro, con novanta numeri, fanno cinq, meno sett, per venitquat, diviso tred, e la radice quadrata…». Attilio fa il matematico per gioco, inteso come superenalotto, ma ha solo la terza media in tasca: intona la sua cantilena sottovoce, trasformandosi in un pallottoliere umano che, con le dita, conta e riconta e trascrive su un foglio, sempre più scarabocchiato. Nebbia sta lì a tre metri, non capisce una parola, ma risponde a tono: «Nei secoli dei secoli, amen. Dovrebbero chiamarti Rosario, altro che Attilio».

L’Attilio fa i conti e la sua mente risale una scala fantastica di numeri e colori, china il capo giusto il tempo per trascrivere i numeri sul foglio, ma subito rialza lo sguardo al cielo, le sue mani si aprono come quelle di un sacerdote che dice messa e guarda su, verso un mondo tutto racchiuso nei suoi calcoli, come in trance. La scala prosegue sempre più ripida, moltiplicazione dopo divisione, somma dopo radice quadra fino a una porta immaginaria piena di luce che sembra quella del paradiso: «Sìììì, a g’ho truvà al sistemone!». Ha lo sguardo spiritato, Attilio, folgorato come san Paolo sulla via di Damasco: «Uh signur, se te ghé?», rispondono in coro i compari lì seduti tra i tavolini e un videopoker sempre acceso. L’illuminato li chiama a raccolta con un cenno della mano e, attorno a quel foglio scarabocchiato, si forma subito un capannello da cui fuoriesce un borbottìo interrotto soltanto da qualche pugno sbattuto sul tavolo. Finché l’Attilio prende la parola con il piglio di un novello messìa: «Una possibilità su un milione. Pochissimo!», gesticola come in predicazione. Tutti gli adepti, lì attorno, tacciono e osservano i movimenti delle mani che, in alcuni passaggi della spiegazione, sembrano quelle di un prestigiatore: «Quando uscirà l’asso di cuori dal polsino della camicia?», si chiede tra sé Giandomenico detto “tilt”, per via di un tic nervoso che, ogni tanto lo sembra paralizzare per un istante. Con lui, di fronte all’Attilio, ascoltano il Franz delle Varesine, un ex giostraio in pensione rigorosamente minima, il Venanzio un vecchietto fuggito dalla Baggina e rifugiatosi dall’amico Bartolo, anch’egli nella squadra del Superenalotto, così come Santino, uno stralunato tiratardi, un quasi giovane, senza un’età ben identificabile, senza lavoro, che sperpera la pensione del padre al videopoker.

Santino pigia i tasti tutto il giorno, davanti a quella macchinetta infernale che, ogni tanto, fa tintinnare qualche moneta, ma per il resto è tutta una musichetta da cartone animato, con svariati “game over” accolti da una bestemmia dal giocatore, sempre appollaiato lì davanti, su uno sgabello, con un bicchiere di vermouth appoggiato su una mensola. Il giorno prima, con tutta la famiglia, Santino era andato in Duomo per la festa di don Gnocchi: papà Alfredo era stato salvato dal prete, nel dopoguerra. Cieco da un occhio, era stato raccolto e accudito dal sacerdote degli umili. Don Gnocchi proclamato beato davanti a 50.000 milanesi: Alfredo non poteva mancare e la sua famiglia, pure. «Era sempre accanto agli ultimi, ma se ora non siamo più ultimi è grazie a lui». Ma subito ne venne fuori una discussione con Santino che l’aveva contraddetto: «Chi l’ha stabilito che non siamo più ultimi?». La preghiera e l’emozione avevano impedito a quel litigio di degenerare: Alfredo commosso era rientrato a casa per una domenica speciale, anche se Santino non lo capiva. Anzi, si ritrovava nel piatto la solita gallina lessa che mamma preparava a ogni festa. Domenica di beatificazione, prima di una settimana di ordinaria alienazione, dal lunedì al sabato.

La predica dell’Attilio è ormai all’epilogo: «Sessanta euro, sessanta euro a testa, gente. A partire da questa settimana, mettiamo su un sistemone che prima o poi facciamo bingo. Asasbaglianò, la matematica l’ è mia un’opinione. E se si vince, io prendo la metà, perché g’ho truvà la sulusiùn, e voi tutto il resto». L’effetto sui compari produce una vocale, una “o”, pronunciata in coro a mezza voce: più che un senso di meraviglia, ai suoi compari, quell’idea aveva sortito lo stesso risultato di una provocazione: “adesso lui vuole vedere se abbiamo le palle di mettere lì sessanta euro ogni settimana, ma crede che non ne siamo capaci?”, pensava tra sé Giandomenico “tilt”, ma io «i sessanta euro te li vinco subito e te li metto qui sull’unghia, caro Attilio», lo rassicura. E si rivolge alla Marilena: «Damm un gratta e vinci, nina…».
«Devo aprire il pacchetto nuovo, aspetti»
«Non darmi il primo, però. Al numer zero, al porta rogna», risponde lui.
Detto, fatto. Cinque euro sul banco, pronto il gratta e vinci e una moneta da dieci centesimi per andare a scoprire il risultato: «Zero, niente porca vacca».
«Riprovi», rilancia Marilena.
«Aspetto un attimo per passare questo momento di sfiga, chissà mai che qui fuori stava girando qualche menagramo e non me n’ero accorto».

Lì fuori, il menagramo, o una sua sottospecie, c’è davvero: è il Vallardi, con la sua moto già di prima mattina, che ha appena scaricato all’angolo un transessuale, dolce compagnia di una nottata brava, l’ennesima stronzata di una vita che non si accontenta più della solita minestra. Dirige un’azienda che aveva ottanta dipendenti, il Vallardi, poi ha capito che quaranta potevano bastare, se si trovava l’officina giusta a Shangai. Anzi, perché non provare solo con trenta? Altri dieci «fuori dalle balle», come dice lui in termini diplomatici e dieci belle letterine nella borsa in pelle di coccodrillo da consegnare oggi stesso, riposte nel portaoggetti del suo scooterone “made in China”. Business is business. Entra al bar, ma già puzza di whisky, il Vallardi, con le dita tremanti che, a malapena reggono un mozzicone di sigaro toscano. Il breakfast dell’alcolista è a base di caffè scorretto, ovvero con un aggiunta abnorme di qualsiasi liquido disponibile, basta che sia superiore ai 40 gradi.

A due metri c’è di nuovo il Giandomenico che tra uno scatto di mento e un frullo di orecchio, per via del tic, domanda un nuovo gratta e vinci: «Questo qui tienilo tu, il diciassette è roba da disgrazia», scarta una schedina e piglia quella successiva tornando al suo posto e ricominciando a grattare. Ma appena intravede, sotto l’argento smosso dalla monetina, il colore della sconfitta, si lascia sfuggire l’ennesimo “mundlàder”.
«Cià, dallo a me quel gratta e vinci», interviene il Vallardi reggendosi sui gomiti al bancone di marmo. Rompe la monotonia con quel gioco di fortuna, sfregando sul cartoncino con il fermacravatta d’oro, regalo della prima moglie, una fotomodella spagnola poi fuggita a Cuba con “no global”. «Cos’ho vinto?» chiede sottovoce tra due colpi di tosse.
«Maronna mia!»: Marilena riguarda la combinazione sul biglietto del Vallardi. Non ha dubbi: «Duecentomila, Vallardi, duecentomila». Nel locale tutto si ferma, dal videopoker alla macchina del caffè, dalle voci alle teste pensanti, dalle mani agli sguardi, tutti rivolti verso quell’omone barcollante lì al banco. Con la schedina in mano, senza guardare in faccia a nessuno, s’infila in bocca il sigaro e tra i denti lascia uscire un messaggio: «Segna sul conto, bella», e se ne va.
Un minuto di fermo immagine, ma poi il bar torna a rianimarsi, con un brontolio, dal quale emerge il solito predicatore del superenalotto: «Eh no, boiavacca! A questi qui non può andar sempre bene – dice, scaraventando la penna sul tavolo -. Altro che sistemone, a chi i soldi li ha già e li toglie alla povera gente, non bisogna farli giocare. Regole uguali per tutti? Ma qui, per qualcuno sono più uguali, per altri no. Se la fortuna non è cieca, alùra mi giughi pù. Non gioco più!»: l’Attilio prende il cappello e se ne va pure lui.

Tutto sembra rianimarsi con grande eccitazione per il lieto evento. Tutto, tranne il corpo del Giandomenico: «Mi sa che tilt ha fatto bang», si lascia sfuggire Nebbia, mentre, alzatosi dal suo tavolino, osserva l’uomo, come pietrificato, seduto lì accanto. Ha gli occhi fissi verso la Marilena, la bocca spalancata, ma sembra non respirare. Giandomenico! Gli gridano a dieci centimetri dal grugno, lo schiaffeggiano, lo scuotono, ma non serve a nulla. Tilt, stavolta, ha fatto le cose in grande e ha chiuso le trasmissioni: il cervello è fermo a quella schedina numero diciassette, lasciata lì, rifiutata e gettata in pasto a un puttaniere miliardario. Game over, come un videopoker di periferia.
La Marilena già parla con i giornalisti del quartiere, si atteggia a vip, a figlia della dea bendata, quando arriva l’ambulanza per recuperare quella statua di uomo, più rigido e bianco di un’opera del Canova. Gli amici lo vedono sparire sull’autolettiga e rimangono in silenzio, gli altri sono assolutamente indifferenti.
Al Niguarda, intanto, stanno già visitando un uomo sulla cinquantina, un imprenditore rinvenuto da poco, appiccicato a un muro, a due metri dal cancello della sua azienda: ha visto gli alieni, sono state le sue parole rivolte ai medici, ma è tutto rotto. Un testimone l’ha visto arrivare a gran velocità e prendere la curva larga, troppo larga: quattro metri di cancello mancati, fuori come un rigore di Materazzi. Sul posto, soltanto uno scooter ridotto in briciole, dieci buste e un gratta e vinci usato.

Diario del pendolare: il guasto

Binario due, pienone in banchina, termometro a cinque gradi: ecco il giorno ideale per iniziare il diario del pendolare. Perché fino a qualche settimana fa, i treni viaggiavano ancora mezzi vuoti e perché il caldo fuori stagione regalava fin troppo sollievo. A Milano, sembrava quasi di andarci per una gita.

Oggi ci siamo, però: comincia la stagione. Donne, che fino a ieri concedevano generose scollature a sguardi neanche tanto indiscreti, stazionano appallottolate negli scialli, uomini intabarrati e irrigiditi come merluzzi norvegesi: tutti in attesa del treno delle 6,43, con lo stomaco contratto per il freddo e la testa che già è sprofondata nel sedile di una carrozza di seconda classe. Sagome asessuate di un mattino tipico di ogni pendolare, con un venticello che taglia la faccia, alzato dal treno in arrivo.

Si sale e ci si lascia cadere su una poltroncina impolverata e lercia, ma comoda quanto basta per entrare nel mondo di Orfeo che sembra attendere quella massa di sfrattati dalle lenzuola come un San Bernardo con la grappa sotto il mento, per dare un po’ di tepore. Quasi all’istante ci s’ingloba in un intero popolo dormiente, sfatto dal ritmo quotidiano, che a quell’ora non ha la forza di leggere nemmeno un aforisma o una barzelletta. Libri, quotidiani, pc ordinatamente riposti sulle ginocchia di ognuno, testa appoggiata all’indietro e respiro pesante: soltanto qualche studentello alle prime esperienze trova l’energia per starnazzare e ridacchiare, quanto basta per liberare un “vadavialcù” da una bocca impastata di sonno.

“Gallarate, stazione di Gallarate. Il treno fermo al binario 2 termina la corsa”. Guasto nefasto e bastardo, annunciato da un altoparlante non abbastanza carismatico per farsi ascoltare da uomini e donne in fase rem. Passano minuti prima che qualcuno, almeno tra gli insonni, si accorga del trappolone: il passaparola solleva sederi appesantiti al grido di «uè andiamo al sei, c’è la coincidenza per Pioltello»: è l’odissea tipica del pendolare, animale apparentemente senza meta, ma con un punto d’arrivo ipotetico, almeno ipotetico.

La transumanza al binario 6 è completa, o quasi: tuttavia, nei meccanismi perversi della quotidianità, qualcuno resta impigliato. Gimmy, per esempio, è rimasto di là sul treno spento: la sua sagoma la s’intravede appena, dietro il finestrino. Sogna un mondo diverso, è protagonista della storia d’amore che avrebbe voluto scrivere e pubblicare, vaga in un’isola esotica, deserta, accanto a Monica Bellucci. La trama è confusa, ma la scena è troppo intensa per risvegliarsi. Di fronte a Gimmy, poi, c’è Silvana, che si vede “più bella che intelligente”, ma è troppo immersa nella lettura per accorgersi di quanto accade attorno: dentro la sua realtà virtuale, è nel vivo delle Ragazze di Sanfrediano di Pratolini, un storia che prova a immaginare ai giorni nostri, perché la fantasia è bizzarra, non si ferma mai. Bob, il protagonista, donnaiolo e finto partigiano, è un novello Silvio B. capitato nelle grinfie di un gruppo di veline sedotte e deluse che, con violenza, esprimono il loro “non siamo a tua disposizione”.

Due anime disperse su un binario morto e nemmeno un straccio di samaritano pronto a riportarli nel mondo reale. Il resto della massa di corpi deambulanti è già sul localaccio delle 7,08: addio ai sogni, tutti in piedi e pedalare. Tutti in piedi, tranne Gimmy e Silvana, due destini che hanno deciso di fermarsi uno di fronte all’altro: chissà, a volte è così che nascono le storie d’amore.

La legge della salsiccia

Pizza, birra e caffé? «Seicinquanta».
Spaghetti, acqua e caffé? «Seicinquanta».
Bistecca, vino e caffé? «Seicinquanta».
Nessuno conosce il suo nome egiziano e chiunque glielo domandi, lui risponde Beppe: ma per i clienti del quartiere non è credibile con quel nome, meglio soprannominarlo Mohammed, più adatto alle sue origini e al suo aspetto fisico. Ha problemi con la matematica, non l’ha mai imparata nei pochi anni, forse giorni, di scuola frequentata alla periferia del Cairo. E nemmeno la digerisce oggi: nella sua pizzeria, allora, ha fatto una scelta… di marketing. Prezzo fisso, che più fisso non si può: “seicinquanta”, è quanto gli basta per ogni bocca da sfamare, tra operai e impiegati del “mezdì”, come gli ha insegnato Nebbia che, in cambio dei primi rudimenti in lingua locale, riesce ogni tanto a spuntare pizza e birra. «Se ci stiamo dentro con i conti, va bene così», dice Beppe.
La sera, però, il prezzo fisso non vale. Per fortuna c’è Margherita, la sua figliola che ha voluto chiamare all’italiana, non per passione floreale, ma perché fu il primo nome che gli venne in mente una mattina di dodici anni fa, mentre tirava la pasta in una pizzeria: un amico vucumprà era appena arrivato a informarlo del lieto evento della moglie, un provvidenziale ambasciatore, ingaggiato poiché il titolare del ristorante non gli aveva concesso di lasciare il lavoro per rimanere accanto alla sua signora, in sala parto.

Margherita con i conti è un portento, la migliore della famiglia, ma a pranzo è a scuola: soltanto la sera può stare dietro al registratore di cassa, fino alle 10, mentre Beppe è al forno e la sua signora serve ai tavoli. Dopo le 10, Mergherita e mamma vanno a dormire, il locale chiude e il pizzaiolo si concede una pausa di piacere: non a base di sigarette o alcol, bensì mettendo sotto i denti una succulenta salamella, orgoglio della grigliata brianzola, che Beppe, l’egiziano, ama più di ogni altra cosa. La consuma calda di piastra, nel mezzo di un panino, seduto nella veranda esterna alla sua pizzeria, proprio sul viale che conduce all’autostrada: un profumo delizioso si spande lungo tutto il marciapiedi, fino all’angolo, sotto il semaforo dove sta Soraya, un travestito che fa marchette quando le serrande dei ristoranti si abbassano e i marciapiedi si oscurano. Ma per il transessuale non sembra una gran serata, questa, poiché rimedia da un’ora soltanto vaffanculo ridacchiati dai finestrini delle auto e altri sfottò.

«Già, fanculo a tutti», si lascia sfuggire Beppe, a bocca piena, mentre osserva la scena. Più che un’imprecazione, un’ode alla libertà, dopo due settimane da incubo. Tutto è cominciato in una sera come questa, mentre Beppe, seduto su quella stessa sedia, ha visto la porta d’ingresso al suo ristorante andare a fuoco per una bottiglia incendiaria lanciata da un motorino che, sfrecciando di lì a velocità folle, fuggiva in un istante lasciando in scia un grido: «Mohammed senza dio!».
Questo è stato l’inizio, la continuazione ha visto entrare in scena il brigadiere Salvatore Braccialarga: «Ma lei, signor Mohammed, è assicurato?», è stata la prima domanda.
Risposta: «Primo, non mi chiamo Mohammed. Secondo, che importa se sono assicurato? Mi hanno quasi fatto saltare in aria il ristorante, non le basta per indagare?».
«Uè, cheffà, vuol sostituirsi al mio ruolo?». Il Braccialarga indispettito per essere stato in qualche modo contraddetto, ha avvisato la Guardia di finanza che è intervenuta con il solerte commissario Lanzafame Vito, grande amico del brigadiere, allo stesso modo in conflitto con nomi e cognomi: «Sicché, signor Beppe Mohammed, lei che proviene probabilmente da un Paese arretrato è riuscito a metter su la baracca in quanti anni?».
Risposta: «Dieci».
«Come!? In soli dieci anni, lei è riuscito a guadagnare abbastanza per comprarsi un ristorante? E i soldi dove li ha presi? E se tutta la vicenda fosse una storia di pizzo? In questo quartiere sospettiamo ci siano strozzini e mezzi mafiosi…».
«I soldi li ho presi dal sudore della fronte, tutti sofferti e risparmiati e, oggi, contati addirittura da mia figlia, controlli tutta la contabilità, è tutto in regola»
«E quanti anni ha sua figlia?»
«Ma che importa?»
«E la figlia ha imparato da lei anche l’insolenza? E poi ci sono le premesse per lo sfruttamento minorile».

Un’autorità messa in discussione da un extracomunitario, non può che complicare la situazione. Tant’è che il Lanzafame ha ritenuto necessario un sopralluogo dei vigili urbani, che, rappresentati dal dinamico agente Girafumi Tullio che, dopo rapido esame dei rilievi dei colleghi, ha colto un aspetto che, incresciosamente, non era stato chiarito: «Ma lei che denuncia un atto teppistico di tale gravità, paga regolarmente il plateatico? Visto che mangiava bellamente una salsiccia al di fuori del locale, proprio durante il fattaccio…».
Risposta: «Ma che significa? Ero io a mangiare qui fuori, mica i clienti, e poi il ristorante era chiuso…». Come benzina sul fuoco.
Un Girafumi imbufalito era la cosa peggiore che potesse capitare a un pizzaiolo egiziano alla ricerca di una verità scomoda: poteva non esserlo, ma poi è diventata scomoda. Soprattutto per interessamento dell’Asl, allertata, per ripicca, dal ghisa e piombata in pizzeria a corpo morto, con le sembianze di una mole informe, ovvero i 110 chili del funzionario Losurdo Gaetano, grande amico dell’assessore. Proprio quel politico che, da anni, ha dichiarato guerra ai ristoranti etnici: «Come sarebbe a dire, signor Mohammed, che lei non ha un ristorante egiziano? Lei è egiziano? Mi faccia il piacere di essere più collaborativo e se l’igiene lascia a desiderare lo scopriremo presto».
Risposta: «Ma il mio portone bruciato che c’entra con l’igiene?».
«Ah! Ma allora lei non vuol capire, caro Mohammed. Tutti così voi musulmani: fate finta di non capire, ma so benissimo come volete fregarci. E pensate di fare i furbi con il paravento della religione: ma come la mettiamo, allora, con quella salamella di maiale, caro il mio islamico?».
«E come la mettiamo? Sono di religione copta».
«Ah sì? Ma cotta o cruda non fa differenza, sa».

Già, la religione copta ortodossa… Mentre il Braccialarga brancolava nel buio, il pizzaiolo ha tastato la pista giusta. Per risolvere il suo giallo, avrebbe dovuto chiamare Mastro Lindo, soprannome di un pony express tunisino che vive a due isolati dal ristorante: grande amico del muezzin Omar, che ha indagando nel sottobosco della comunità islamica e ha chiarito l’equivoco. Due giovani integralisti, schegge impazzite di una cellula estremista, hanno scambiato Beppe per un musulmano vero e, vedendolo ogni sera infrangere i comandamenti con quella maledetta salamella, avevano pensato di minacciarlo con il fuoco. Tutto risolto, in cambio del ritiro della denuncia.

Mastro Lindo, dopo due settimane, ha fatto il suo ritorno, con un biglietto di scuse e una pacca sulle spalle. Ma come chiudere tutta la vicenda che, come uno strano gioco di scatole cinesi, ha tirato in ballo cotanta forza dello stato assetata di giustizia?
Cinque pacchi, consegnati da un furgone frigorifero del macellaio Scafetta, il re della fettina del Musocco: cinque pacchi di salamelle nostrane, equamente assegnati. Uno al Braccialarga, uno al Lanzafame, uno al Girafumi, uno al Losurdo e uno a Mastro Lindo.

E stasera, finalmente, Beppe si riprende la libertà che, per un pizzaiolo egiziano, può essere racchiusa in un momento tutto suo, con un panino in mano e guardare il cielo: «Non sarà il cielo del deserto, ma in fondo anche questo posto ha la sua finestra per guardare su e respirare», confida Beppe alla sua salsiccia.
La poesia, però, è rotta dallo scoppiettare di un motorino che, per un istante, fa venire di nuovo la pelle d’oca al pizzaiolo: per fortuna è soltanto Mastro Lindo, con un sacchetto in mano. «Ti riporto i salami, a me non servono. Allah non gradirebbe» e li appoggia su un tavolino accanto all’esterno del ristorante.
«Non sai cosa ti perdi!». Un cenno di saluto, tra le briciole che piovono ai suoi piedi. Torna il silenzio, ma il destino di questa serata è segnato. Dopo Mastro Lindo, è la volta di Soraya, statuaria belva color d’ebano, pantera scosciata infilata in due stivaloni che sembrano trampoli, in piedi a un metro da lui: «Salsicce?» e indica il sacchetto appena abbandonato dal pony express.
Beppe fa cenno di sì: «Hai fiuto per certe cose, non fartele sfuggire».
«Allora stasera te le compro io. Mi sono rotta di starmene qui a perder tempo, oggi non batto chiodo, me ne torno a casa a mangiare. Quanto costano?».
«Seicinquanta».

Avviso ai naviganti

…era ora! Il topo di campagna non è finito in trappola, sta lavorando a una partita di formaggio di dimensioni pazzesche. Ma dal 28 settembre ritornerà e con un sacco di storie da raccontare. Quelle di un pizzaiolo egiziano, di un amante non corrisposto, di un imprenditore alcolista, di un cinese che canta Morandi, dell’Adelina (la ricordate? era quella fuggita dal marito…) che pare abbia intenzione di tornare a casa e quella del solito Nebbia che vigila sul quartiere. Aspettatemi!

La volata di Bogdan

«Settimo, non rubare!». Il piccolo Bodgan non ha idea di cosa significhi “settimo”, lui non si chiama con quel nome, ma quel grido di don Filippo, ogni volta che lo becca sul fico della canonica, lo fa sgattaiolare di scatto, giù dal muro di cinta e via di corsa sul marciapiede, dopo aver raccolto al volo il secchio e la spugna. Quasi sempre, però, allo zingarello del semaforo riesce di completare la colazione con quei frutti così dolci che penzolano a mezz’aria, a poche decine di metri dal vialone che immette sull’autostrada.

Poco prima, lascia la mamma e la sorella più piccola al capolinea dei tram, sul piazzale davanti al cimitero. Bogdan le accompagna, le vede salire sul 14, rimane lì fino a che il tramviere chiude le porte, mentre mamma ha già iniziato la cantilena per l’elemosina: “io povera, sensa casa, bambina malata, vengo da guera, prego aiutateci…”. Dal piazzale al semaforo, il posto di lavoro dello zingarello, ci sono quattrocento metri che si possono percorrere sullo stradone, oppure, allungando un po’ il percorso, si arriva allo stesso punto, ma passando per un viale alberato che conduce alla Certosa di Garegnano, non lontano dal tavolino del bar da cui Nebbia scruta il mondo, e poi, svoltando a destra si prende una strada stretta, lungo la quale, da sopra il muro della canonica, i rami di un enorme fico si piegano fin sulla strada, sembrano quasi spezzarsi per il peso dei frutti maturi: quello, ovviamente, è il percorso preferito da Bogdan, con pausa colazione inclusa.

Fino a sera, lo zingarello sa di dover rimanere al semaforo, accanto al cavalcavia dell’autostrada, nascosto dietro una colonna e pronto a sbucar fuori a ogni rosso, con secchiello e spugna pronto a lavar vetri. Quanti anni abbia non l’ha mai saputo, ma da pochi mesi Bogdan sa di essere grande, o meglio, alto abbastanza per poter arrivare con una spugna allungabile a passare per intero il parabrezza delle automobili, quelle normali, poiché i suv e altri macchinoni sono ancora inarrivabili per la sua statura. Ha poi scoperto che dall’alto dei suoi centimetri, ora, riesce anche ad arrampicarsi sul muro della canonica per raggiungere i rami più alti, quelli più ricchi di fichi e che persino don Filippo lascia al loro destino, perché non ha voglia e tempo di raggiungerli con una scala. Al prete basta raccoglierne un paio al giorno, di più non osa perché i fichi gli gonfiano lo stomaco. E allora perché non lasciar fare allo zingarello? «L’è mia tant la questione dei fichi, ma l’è il principio. Il fatto che oramai ‘sta gente, ‘sti zingheri non han paura di nessuno, già da bambini. E alùra ti ghe dè la man, si prendono il braccio. Chissà dove arriveremo di questo passo».

Ne parlava proprio l’altra sera con il Salmoiraghi, baffuto come Stalin, ma conosciuto con il nomignolo di “camicia verde” per il suo convinto attivismo leghista: «Padrùn à cà nosta», era il suo credo, imparato a colpi di vino rosso e morsi di salamella a Pontida, durante la festa popolare del partito lumbard. Don Filippo aveva voluto organizzare un dibattito “tra persone civili”, sull’accoglienza e l’integrazione e si era presto ritrovato in una bolgia tutt’altro che moderata con ovazioni e risate al grido di “gli zingari, peggio dei topi”. Per una decina di minuti, circa, il sacerdote aveva cercato di mantenere la discussione su toni pacati, poi aveva perso il controllo della sala riunioni dell’oratorio finendo per rimediare uno sputo in fronte, vile attentato a opera di un esagitato giovanotto con l’orecchino e uno spinello tra le dita che aveva chiuso il dibattito al grido di «Fasssisti».

La gente per bene non può più di questi fannulloni dei centri sociali, diceva tra sé don Filippo, intento a passarsi un fazzoletto sulla fronte mentre il Salmoiraghi regalava una perla di moderazione: «Comunista… va a dàa via i ciapp, e magari con gli strolig». Poi tutti a dormire a poche ore dal risveglio mattutino che, dopo la Santa Messa, per don Filippo aveva il sapore di una fuga d’altri tempi, in sella alla sua bicicletta da corsa modello Ghisallo, la compagna di mille avventure condivise proprio con il camicia verde che, in versione ciclistica era decisamente meno bauscia, a giudicare da come ansimava sulla rampe del Lissolo, una salita in Brianza, non lontano dalla metropoli milanese. In bici, guai a parlare di politica, era la regola numero uno. Mai. Nemmeno in casi estremi, come quel giorno in cui passando davanti al tendone della festa dell’Unità di Bollate, avevano rimediato un “drogati!” urlato da una ragazzina che quel giorno, uscendo da un dibattito, si sentiva di polemizzare sul doping, «lei che non ha mai pedalato e le farebbe bene», aveva risposto.

Pedalare, a settembre, è un piacere che aiuta a pensare, a meditare, a ricordare quando si era giovani e persino a immaginare una Milano diversa, senza quella cappa che toglie il fiato e l’odore che rovina il buonumore. Un paio d’ore in scioltezza, in maglia rosa, prima di tornare alla propria quotidianità, un prete e un politico: e in scioltezza viene spontaneo saltare l’ultimo incrocio, quello vicino all’autostrada dove, «porca sidèla, tel là», don Filippo scorge lo zingarello del mattino con il secchio in mano. Nel voltarsi ha uno sbandamento che mette fuori controllo la sua bici e quella del camicia verde, mentre alle loro spalle un automobilista spietato li urta a colpi di clacson e vaffanculo: perché non si è mai visto, a Milano, un qualsiasi mezzo a quattro ruote arrestarsi di fronte a due ciclisti fetenti. Nell’urto, la ruota della bici di don Filippo finisce nelle rotaie del tram, impennandosi sulla ruota posteriore, come un cavallo imbizzarrito. Risultato: un botto da rovinarsi il grugno che, una frazione di secondo più tardi, si ripete con un’evoluzione ancora più plastica del Salmoiraghi, che struscia sull’asfalto sbriciolandosi calzoncini e maglietta come se si avesse litigato con un doberman inferocito. «Vai Girardengo, vai a cag…..», è l’unico messaggio di conforto ricevuto da un suv alto due piani, in accelerazione.

Due corpi a terra, come due salami rotolati giù da un bancone di salumiere, nell’indifferenza dei passanti. Don Filippo ha soltanto la forza di alzare lo sguardo verso l’unica sagoma umana a un metro da lui. «Prendi questa, pulisciti con questa», gli dice il piccolo Bogdan porgendogli una bottiglietta d’acqua minerale. Stessa frase e stessa scena, Bogdan la ripete al Salmoiraghi a mezzo metro di distanza. Poi sparisce dicendo: «Spettatemi»
«Sti ciclisti hanno rotto il c…», è, nel frattempo, il messaggio di cordoglio proveniente da una Nissan. «Ma andate a piedi!» è il contributo audio di una Fiat. Senza parole, invece, il commento di una Renault che esibisce un dito medio alzato, fuori da un finestrino.

Due minuti e Bogdan è ancora lì, con una scatola di cerotti e una busta di fazzoletti disinfettanti: «Sono di mio amigo marocchino, li vende all’altro semaforo. Per voi gratis». Nello strombazzar di clacson, i due malcapitati provano a rialzarsi, don Filippo con la maglia rosa a brandelli, il Salmoiraghi con una vecchia casacca Cilo-Aufina in lana, orrendamente bucata.
«Fermi là, ho visto tutto», accorre un vigile urbano.
«E le è piaciuto lo spettacolo?», replica don Filippo., ancora sui binari.
«Tanto per cominciare, mi fornisca i documenti. Le ricordo che i ciclisti sono tenuti a rispettare il codice della strada e quel semaforo, se lei non l’ha notato, era rosso… Avanti, documenti…».
«Senti ghisa, lassa perd. Ti manca lavoro? Guarda là quanti maruchit da mandar via! Vieni qui a infierire con un curato?», lo rimbrotta Salmoiraghi che non rinuncia a far leva sulla propria fama maturata nei comitati di quartiere.
«Ah, ma è lei! Salmoiraghi! Così agghindato, mi pareva il Gimondi. Vabbé cosa facciamo…mi giro di là e non vi ho visto. A proposito…». E, nel voltarsi, il vigile urta proprio il piccolo Bogdan: «Guardalo qui, il furbone!» e lo afferra per un braccio.
«Bé spècia un attimo…», sembra volerlo fermare il camicia verde, ma con un tono più sommesso.
«Cosa c’è dottore? Non vorrà mica ignorare il problema di questi delinquenti?».
Silenzio del Salmoiraghi: ne va della sua immagine, meglio rialzarsi pedalare.

Anche Don Filippo assiste alla scena e non dice nulla, ma di scatto si rialza piazzando una testata al basso ventre dell’agente che crolla a terra rannicchiandosi sui suoi attributi spappolati più o meno maldestramente: «La mi scusi, signor vigile…non ho mica fatto apposta».
Nel frattempo si volta verso Bogdan indicandogli la sua bici e facendogli segno di pedalare via: lo zingarello capisce al volo, salta in un baleno sulla canna della specialissima modello Ghisallo e fugge via, come Saronni al Mondiale dell’82. Spinge sui pedali, in equilibrio precario, poiché ha le gambe troppo corte per riuscire a salire in sella: ma la tecnica dell’arrangiarsi lo porta lontano, lontanissimo, fino a farlo sparire nel nulla. Bogdan sapeva di essere ormai quasi grande, ma ora sa di poter pedalare su una bicicletta da corsa da grandi.
«T’è vist al bastardo?», sbotta il Salmoiraghi indicando ragazzino ormai in fondo al vialone. Detto soltanto per dovere istituzionale, di fronte alla forza pubblica che sembra imprecare qualcosa d’indicibile lì a terra, ancora alle prese con la testata al basso ventre.
Un gesto d’istinto, quello di don Filippo, ma la sua fidanzata in alluminio, la sua pantera a pedali, come la definiva lui, ora, chi la troverà mai più? «Faremo una colletta con il comitato di quartiere», lo rassicura Salmoiraghi che, alla fine, ne potrebbe trarre pure un vantaggio d’immagine. E già sogna il titolo sul giornale locale: “Rubano la bici al prete, il quartiere gliela ricompra”, con tanto di foto che, in tempi di campagna elettorale, vale moltissimo.

Notte insonne, quella che segue, sia per il sacerdote, sia per il politico: colpa delle sbucciature e degli acciacchi, bruciori e mal di ossa tipici dei ciclisti disarcionati. Notte a leccarsi le ferite e a pensare… La mattina dalla pianta di fichi mancano molti frutti: quel furfantello deve essere già passato a far colazione. Ma, oltre il muro, sul marciapiede, spicca una bicicletta da corsa, modello Ghisallo.
«Da domani, colazione senza predica», commenta ad alta voce il sacerdote.

Non c’è crisi per l’idraulico

«Mille per mille e il libro di Marco Polo, tre orizzontale». Parole crociate in libertà, di prima mattina, condivise ad alta voce dal tavolino del bar dell’angolo e per tutto il marciapiede: ecco uno dei passatempi preferiti di Nebbia che corruccia lo sguardo, si passa la matita nel cespuglio che ha al posto della barba, conosce la risposta, ma tace per qualche istante. L’enigmistica a lui serve per socializzare, per sentire una voce che si unisce al gioco e poi, chissà, finisce a parlare della vita, delle donne o dell’Inter. E intanto fuma un pezzo di toscano.
Il primo di agosto, però, i cruciverba a Certosa sono cantilena nel deserto di un quartiere chiuso per ferie, non morto, ma assopito. Non in vacanza, ma ritirato chissà dove, dietro persiane semichiuse verso strade che sprigionano calore e umidità. C’è Sandro, il barista, ma è rintanato là dentro, in compagnia della sola aria condizionata, e c’è il ragionier Ponchio che sembra non aver voglia di giocare, ma la risposta gli vien fuori così, come d’istinto per uno come lui che con i numeri ha una certa dimestichezza: «Mille per mille fa un milione, quello che mi ci vorrebbe per mandare affanculo tutti». Nebbia risponde con una risata soffocata da un colpo di tosse, perché non gli era mai capitato di sentire la voce del Ponchio e mai si sarebbe immaginato che un signore così riservato potesse lasciarsi andare con simili espressioni. Sono quattro giorni che il ragioniere passa le giornate seduto al tavolino: arriva di buon mattino, alle otto. Sta lì seduto tra giornali e caffè, ogni tanto fuma, sbircia nella sua valigetta, guarda nel vuoto, si nasconde dietro a un cellulare microscopico e tace. Soprattutto, tace. Nebbia conosce la verità, non l’ha saputa da nessuno, l’ha semplicemente intuita: il ragionier Ponchio, da quattro giorni, non va in ufficio ed è un libro aperto al capitolo disperazione. «La situazione attuale, sa, ci costringe a scelte dolorose e lei capirà, il suo rapporto di lavoro con noi finisce qui. La ringraziamo e le auguriamo buona fortuna»: è andata, più o meno, così. Licenziato in due minuti, quanto basta per buttare nel cesso ventitré anni di sacrifici, per l’azienda, per la causa comune: «Già, ma ora come faccio da dirlo a mia moglie e ai miei figli?», sono state le sue parole intrise di magone pronunciate davanti al direttore del personale. Sono passati quattro giorni e la famiglia Ponchio non sa nulla. E un ex ragioniere continua a prendere il treno al binario uno di Canegrate, convoglio carrettone privo di ogni comfort e con fermata a Certosa: a seguire, dieci minuti a piedi tra fabbriche dismesse e un cavalcavia dell’autostrada e altri cinque lungo un viale che, invece di condurre al suo ufficio, ora si ferma prima, a quel tavolino tra i platani e il marciapiede. La moglie a casa, i figli all’oratorio e lui lì seduto a consultare annunci di lavoro.
«Ditzamo, guardi, ditzamo che lei Ponchio, qui, non conta un cazzo», era stato l’avvertimento di un perfido manager di origine emiliana, ma che della sua terra, ora, non conserva che la parlata. Era un messaggio chiaro, quello, dopo che il superiore aveva scoperto che il Ponchio si era incautamente confidato al collega Perelli, noto aziendalista e spione, dicendo di volersi iscrivere al sindacato. Poi, dopo qualche settimana, altri segnali poco confortanti. «Sa, la crisi, ditzamo che richiede un’attenta valutazione, ditzamo, che prenda in esame la congiuntura che porterà probabilmente, ditzamo, a un riassetto strutturale in attesa che il mercato, ditzamo, riprenda a dare segnali confortanti»: aria fritta mirabilmente modellata da un supermanager da ottomila euro al mese, più buona uscita da nababbo, in caso di affondamento dell’azienda. Si fregia del titolo di bocconiano, l’emiliano, mica come un ragioniere qualunque, qual è il Ponchio. Studente a pieni voti presso il santuario milanese del “fàa danée” e oggi autentico sacerdote dell’unico grande credo che esalta i cattedratici della finanza: gli utili a monte, le perdite a valle. A monte ci sta lui, a valle i poveri cristi con le loro famiglie. E il Ponchio era un povero cristo, anche se non completamente scemo, tant’è che aveva colto il senso del discorso: il riassetto strutturale sarebbe passato dalle chiappe di qualcuno, forse anche le sue.
«Il milione, ragioniere, la risposta esatta è proprio milione. E lei che ci farebbe con un milione?», prova a sdrammatizzare Nebbia, lontano da lui non più di tre metri e due tazzine di caffè.
«Prima bisogna averlo davvero in mano il milione, poi quando si è sicuri di avercelo, si può ragionare. Io comincerei con l’andare fino a quell’azienda là, nell’isolato qui vicino, salirei le scale e andrei da un certo signore: “ditzamo che ora lei se ne va a fare in culo, ditzamo, a fare in culo lei, la congiuntura e il riassetto strutturale”, sarebbe il primo sfizio, poi al resto ci penso».
«Se l’avessi io, forse glieli regalerei, sa. Non me ne frega, io ci ho paura dei trop danée, caso mai mi vadano alla testa. E a proposito di testa, già sono messo male così, figuriamoci se i soldi la guastassero ancora di più. Anzi no, magari del milione farei metà: una a lei e l’altra metà me la tengo per assumere una badante brasiliana superaccessoriata, “solo distinti”. Già perché con un milione sei un distinto, mica un puttaniere qualsiasi». Ci aveva provato a dipingersi come l’uomo del gran gesto, Nebbia, ma anche in sogno sbraca sulla gnocca: ecco il vero difetto che gli impedisce di passare per filosofo professionista.
Intanto, però, il Ponchio riprende morale: «Se la mettessimo sulla fantasia, allora avrei un sacco di idee anch’io. Intanto manderei i figli a studiare in America e io e la mia signora ci passiamo un bel periodo da coppia di mezza età. Eh, la mia signora… già che ci sono, la manderei anche dal carrozziere, ma uno di quelli buoni, quello dei vip, a rifarsi un paio di taglie o tre di seno: è un regaluccio che ogni tanto mi chiede, ma che indubbiamente farebbe piacere anche a me. Mia moglie dice che la signora Santucci, la donna dell’idraulico, ha trovato una clinica in Brianza che faceva pure gli sconti e già che c’era si è fatta gonfiare davanti e tirare su dietro».
«Eccola, la piccola borghesia che si perde nel silicone!».
«Sì, ma fare l’idraulico, oggi, è quasi come fare il gioielliere. Però ha la figlia che si droga».
«Con la mamma che vuol fare la soubrette, è il minimo…io che pensavo che voi in provincia avevate le mogli che pensano a fare la salsa di pomodoro, visto che siamo ad agosto».
«La passata la troviamo al discount, quanto al resto, da noi in provincia, l’importante è che sembri tutto normale, tutto perfetto».
E anche il ragionier Ponchio, egli lo sa bene, è uomo di provincia, di una provincia troppo vicina alla città e troppo lontana dalla campagna, troppo piccola per soffocare il pettegolezzo, troppo cresciuta per essere immune dai mali tipici della periferia di una metropoli: meglio tacere, non dire, non far sapere e tutto sembrerà come sempre. Ma a fine mese qualcosa accadrà, la verità verrà a galla… È più o meno così che scoppiano le tragedie di provincia. Ma un ragioniere non può perdere la testa, dice lui, gesti insani e folli non ce ne saranno. «Domani vedremo», dice sempre. Intanto sorseggia il suo caffè davanti a Nebbia, fissando un telefonino muto.
«Quasi quasi vendo questo aggeggio al marocchino là al semaforo. L’altro ieri mi ha offerto cinquanta euro… almeno con quello ci porto la mia signora in pizzeria anche domenica, come facciamo sempre».
«Ah, per me quella è chincaglieria, ma per lei, ragioniere… meglio che lo tenga da conto, caso mai arrivasse la telefonata della svolta».
«Ah, allora per me è già venduto».
La mattinata scorre lenta e appiccicosa, il pomeriggio ancora di più. Nel mezzo, una michetta col salame e spuma nera mischiata al vino rosso, come nelle vecchie osterie meneghine. L’indomani arriva comunque, presto, nonostante la noia.
Poche ore e un nuovo caffè è sul tavolino del ragioniere, che prima di sedersi si aggiusta la cravatta proprio come se stesse per appoggiarsi alla scrivania dell’ufficio, un gesto che non ha mai perso, è come un tic. Anche Nebbia è sempre là, dove l’aveva lasciato il giorno precedente, con il cruciverba sotto gli occhi, la matita che scrolla un po’ di forfora dalla nuca e un dodici verticale da completare. Ma stavolta è Ponchio a rompere il silenzio: «Oggi te lo faccio io l’indovinello: dove va a dormire un cornuto?»
«Quelli veri dormono sempre nello stesso letto, con la moglie. Che è successo, ragioniere?».
«L’idraulico, boiavacca…Ieri ho preso il treno prima perché mi annoiavo qui al bar e l’idraulico Santucci aveva un gran lavoro sulla nostra lavatrice. Ma tra lui e la lavatrice, c’era in mezzo la mia signora…. Chela troia!».
«Oh Madonna! E il telefonino, cosa cavolo lo tiene in tasca per fare? Lei non sa, ragioniere, che è sempre buona regola telefonare alla moglie prima di rientrare in casa? E che ha fatto quando ha scoperto il fattaccio?»
«Chi ha fatto cosa? Lei, come niente fosse, è andata a farsi la doccia e almeno quella funzionava. Io, invece, sono stato cacciato di casa perché le ho detto che mi hanno licenziato, ma l’ho chiamata zoccola. L’idraulico, invece, ha tirato su i pantaloni e prima di andarsene ha pure salutato. Perché l’educazione viene prima di tutto».
«Non se la prenda ragioniere. Certo che l’idraulico è un tipo strano… manda la moglie a gonfiarsi come un canotto in clinica, ma poi si riconverte alle tardone vecchia maniera. La riparazione della lavatrice almeno l’avrà fatta gratis e le persone per bene si vedono dal saluto».
Ragionier Gianantonio Ponchio, disoccupato reo confesso e pigro nell’utilizzare il telefonino, torna sul mercato e, nel frattempo, alloggia da mamma Esterina: «Ecco dove va a dormire un cornuto di provincia. Una pensione minima in due può bastare, almeno per un po’». La povera donnetta che l’ha allevato lo considera ancora un ragazzotto che deve farsi le ossa: quarantasei anni sono pochi per capire come vanno il mondo e le donne di oggi, dice lei. «Sicuramente mi metterà a zappare nell’orto, mi ha già detto che ci sono i pomodori da cogliere. Quando ha saputo che torno da lei, è rifiorita, dice che vuol fare la salsa come tanti anni fa».
Le mamme di provincia, ad agosto, cuociono e imbottigliano passata di pomodoro. Lo fanno ancora, ma soltanto quelle dai settant’anni in su. La metropoli è lontanissima per loro, lavano a mano e non hanno tempo per i cruciverba. Nebbia farà a meno delle risposte del ragionier Ponchio, ma sui pomodori è sensibile: «Lei è fortunato! Pensi che io ho dei gran pomodori giù in fondo, vicino al cimitero, ma non ho nessuno che mi faccia la salsa».
«Se lo sapesse mamma Esterina… c’è un treno locale che ferma alla mia stazione già di buon mattino. Portali su, i pomodori, che domani facciamo giornata».

Ci vuole pazienza

Un post che, invertendo le lettere, diventa uno spot…..ci sono un sacco di nuovi racconti in preparazione e in arrivo, ma all’ombra dell’inceneritore di Pero, non c’è tregua per un povero scribacchino di provincia. Esco vivo dal tritacarne (redazione) e, nei prossimi giorni, ricomincio a pubblicare a manetta. Intanto Milano è sempre lì…

Lettera a Varesenews

“Per raccontar Milano è bene partire dal basso, dai marciapiedi, più che dalle alte vette, il primato sociale e civile dato una volta per scontato o la capitale morale andata in frantumi come un vaso di terraglia”.
L’incipit di Corrado Stajano nella sua analisi pubblicata sul Corriere della sera un po’ m’inorgoglisce e mi conforta: perché l’opinione di un grande giornalista ricalca, in parte, la linea di pensiero che alimenta un progetto modesto, ma che ritengo prezioso, un’ opportunità per la quale vorrei ringraziarti: le Cronache milanesi raccontate nel blog che mi hai consentito di far nascere sono uno spaccato proprio sulla realtà quotidiana di una metropoli, una denuncia attraverso l’ironia e la fantasia di una decadenza sociale della periferia.
La fantasia è uno strumento che consente attraverso personaggi (sia quelli reali, sia quelli verosimili) di fare una riflessione, spesso spietata e ai limiti della caricatura, sulla vita quotidiana della Milano da marciapiede, quella terra di conquista per avventurieri, cialtroni, sognatori o semplici pendolari e, al tempo stesso, unico scenario, spesso alienante, delle giornate di molte persone che vivono nei quartieri lontano dal centro. Persone lontane, anche idealmente, dai messaggi patinati che offrono le vetrine delle strade della moda o i locali più “in” di una città un po’ snob e un po’ finta.
La città amara di cui parla Stajano che, in parte, emerge anche dalle Cronache milanesi, sottovaluta, però, il cuore ancora pulsante di certi quartieri: il degrado morale è evidente, ma la giungla metropolitana brulica di vita. Una città bastarda, puzzolente, inquinata, crudele, indifferente, ma viva. E in questa esplosione di vita ci sono anche individualità e spunti che sono forza positiva: al di là dei manifesti culturali, è da questa forza che Milano può ripartire.
Un blog che magari farà storcere il naso agli abitudinari del web, che richiede uno sforzo e un pizzico di tempo in più per essere compreso, ma che, evidentemente, entra a suo modo nel vivo del dibattito sul presente e il futuro di una metropoli: grazie ancora per questa opportunità.