Informazioni su Topo Franz

Ormai quarantenne, giornalista, scrittore per qualcuno, scribacchino per altri, sognatore, uomo di lago, cultore della buona tavola, pendolare, papà, marito, ex fisarmonicista, ex playmaker di basket, ciclista con la pancia

Esercizi di resistenza quotidiana

Sì, dai, basta silenzio. Un topo di campagna, dal basso della sua costituzione, non può certo tirarsela e diventare snob. Se la narrativa tace, da quando Nebbia è partito con il circo, un blog, o meglio un controblog, non può non comunicare.
Se oggi non hai un blog non sei nessuno, almeno sembra: proprio per questo avevo pensato a un controblog. Se i blog sono quasi sempre fiction camuffati presuntuosamente da realtà, sembrava giusto far sapere fin da subito che un topo altro non poteva che scrivere di finzione verosimile. Ma questo pallino del controblog ha poi finito stupidamente per prendere una piega sbagliata: se il blog è comunicazione, il controblog stava diventando silenzio. Ma allora, che ci sto a fare qua dentro, a occupare preziosi spazi virtuali? Lo spazio sul web è un privilegio che un roditore pendolare non può permettersi di sprecare. Si torna a viaggiare, un inverno è alle porte, come sempre in mezzo ai pendolari trafelati, a mille, centomila vite che s’incrociano e si sfiorano per un istante, qualche minuto, un’ora, su un treno o su un autobus. Direzione Milano metropoli, il gran Milan che tutto ingloba, hinterland compreso, ma che si distingue da un altro mondo che sta fuori, la provincia ipocrita e un po’ invidiosa, un enorme dormitorio che si anima soltanto poche ore, la sera e la mattina, il sabato, la domenica e le feste comandate.
E nei pochi spazi di libertà, dentro e fuori la metropoli, si lotta ogni giorno contro l’alienazione. Altro che silenzio! Un controblog, scritto da un topo, non può che essere un esercizio di resistenza quotidiana. Anche quando non c’è poesia. Ma stasera, sul locale per Varese, la poesia c’è: si chiama Mario e ha quattro anni, dorme profondamente sulla spalla della mamma. Lei cerca di svegliarlo, in vista della loro fermata, ma il piccolo Mario dorme e sogna chissà quale mondo: lontano da tutto, dalla mediocrità di noi adulti e dalla monotonia dei pendolari. Anche questo è un piccolo, grande, gesto di resistenza.

Fiaba per bimbi cresciuti

Un mese con una sola illusione; la vincita ultramilionaria intergalattica. Insomma la soluzione di tutto, in un biglietto della lotteria o in pochi numeri estratti… illusione da spiaggia, cullata col pensiero, a metà tra il sonno e la veglia, sotto un ombrellone. Voglia di provare una sensazione liberatoria: che farò con una montagna di denaro? Il gioco consiste nel fare decine di ipotesi, tutte meravigliose, per alimentare un sollievo virtuale, mentre il sole riscalda le ultime giornate di fannullismo.
Illusione finita anche quest’anno nella rincorsa al treno, al primo treno di settembre, quello del ritorno al lavoro: la sveglia che s’inceppa, le gambe imballate, gli occhi che sembrano non aprirsi. Insomma, niente gira per il verso giusto, al primo giorno: è come se il corpo si rifiutasse di tornare al solito, alienante, viaggio. Colazione saltata, lanciato a digiuno verso un binario che sembra decretare la sconfitta: fuori tempo massimo, ha vinto il treno. Il localaccio puzzolente e polveroso, quello della 6 e 43, se ne va, scorre e scricchiola mentre al volante entro in parcheggio come un pilota di rally.
A quel paese tutti quanti, la lotteria e il primo giorno di lavoro. Ma ora c’è il tempo per prendere fiato e guardarsi attorno: e là, in fondo al parcheggio, c’è un auto con le portiere aperte e un tizio dal volto noto. Charly, il consulente finanziario che lavora giù a Lambrate, prova a farsi la barba alla fontanella della stazione: «Ecco il mio nuovo domicilio» ci scherza su. Fuori di casa per una storia finita, cacciato dalla moglie, ma senza il coraggio di tornare dalla madre: «Sistemazione temporanea, servizio di bed & breakfast incluso». Breakfast al bar della stazione, caffè e brioche: bed con vista cielo stellato su quattro lati, anzi quattro ruote e sedili ergonomici. Charly non corre più per prendere il treno, ce l’ha fuori casa, ora. E anch’egli culla il suo sogno virtuale, per prendere sonno: in fondo si resta bambini, a ognuno la sua favola.

Il gheppio

Fa lo spirito santo. Ovvero sfida la forza di gravità e rimane fermo a dieci metri dal suolo. Il gheppio dell’autostrada è la presenza fissa dell’ora del rientro dei pendolari, quasi sempre in coda alle porte di Milano. A passo d’uomo sull’asfalto rovente, costeggiano il carcere di Bollate, territorio di caccia per il gheppio: topi, lucertole, conigli, bisce, per loro la possibilità di fuga è nulla. Da quel carcere, da dietro le sbarre, i detenuti osservano un pezzetto di mondo puzzolente e inquinato. C’è soltanto il gheppio, e per fortuna, a ispirare un senso di libertà.
La natura l’ha fatto simile a un piccione, ma il gheppio ha ben altro portamento: rapido, elegante, spettacolare.

E anche Beppe, la guardia carceraria, attende ogni giorno il rito del gheppio con meraviglia quasi infantile, mentre lo osserva in cielo, a metà strada tra gli edifici scatoloni e le mura del carcere e l’autostrada intasata. Allo stesso modo, il poliziotto è stato l’unico ad emozionarsi l’altro giorno in tribunale, mentre è scoppiato il “finimondo” a causa di tre gheppi che volavano in un’aula piena di magistrati, avvocati e imputati. Si stava mettendo sotto processo la ndrangheta in Lombardia, ma tutto si è fermato, per una mattina, a causa di tre rapaci. La loro voglia di libertà ha avuto la precedenza e potrebbe essere un segno. Il gheppio, simbolo della natura che non accetta barriere e vola al di sopra di questa società degradata. E, per fortuna, stupisce ancora.

Scelte evangeliche del prete di oggi

Povertà, obbedienza, castità. Zac, l‘ex sindacalista di Cantù, canticchia: “Te vist cusè? Un vescovo! Ah bé sì bé, dai dai cunta su”. Il cardinale predica laggiù in centro, all’ombra del duomo. Anzi, ha già prodotto un probabile best seller. In libreria e in conferenza stampa pare che gli uomini siano tutti uguali. E anche nella predica del cardinale. Davanti a chi? A Dio. E i preti sono più uguali degli altri. “Ma non di fronte a un capotreno“, pensa tra sé Khaled, muratore senegalese con il broncio davanti all’imperturbabile Concetta, la capotreno, che l’ha scovato senza biglietto. Non ha i soldi né per l’abbonamento, né per altro, Khaled, ma sui treni ci sale lo stesso perché non sa come fare per arrivare al cantiere in orario, giù dove si lavora ai grattacieli. Preferisce correre il rischio e puntare sull’inefficienza del servizio delle ferrovie, punta tutto sulla carenza di personale. Ma quando sul treno c’è uno straccio di controllore è spacciato: mai che chiedano il biglietto a un prete, lo vanno a cercare da lui, che la risposta alla sua povertà la sente ogni giorno: “Tornatene a casa, negher”.

Povertà, obbedienza, castità. E intanto Fatima torna dalla giornata passata a studiare in Cattolica e sa che dovrà passar l’esame di teologia per rimanere in media. Ieri, dopo la lezione, al gruppo di preghiera, qualcuno l’ha pure criticato, il vescovo… «Ma è fin troppo comunista, questo qui», perché secondo loro il Vangelo non va letto, va prima interpretato. Fatima è d’accordo, ma da tre settimane in crisi, non sa che fare, forse non lo dirà nemmeno in confessione: «Ho avuto un pensiero impuro», confida al cielo a mani giunte, come se il Cielo non lo sapesse già e non la vedesse con quella faccia smorta da paura dell’inferno, quando invece è soltanto un’anima in pena su una carrozza viaggiatori. Anche sta storia della castità che aiuta ad amare non l’ha mai capita, ma preferisce non aggiungere altri pensieri impuri. Certe cose non si pensano. E se si fanno, non si dicono. Ma sono cose che non la riguardano, per lei la castità non è una questione di scelta.

Povertà, obbedienza e castità. E lì sul vagone c’è Pino che costruisce ascensori, anzi pezzi di ascensori in periferia di Milano. Da quando l’azienda è in crisi non lavora più di notte e prende pure il treno. Come un colletto bianco. Eppure ha lo stomaco contratto per la rabbia: per buon senso vorrebbe produrre più pezzi, ma i capi hanno detto che non si può. Lui che aveva il record del reparto, si sente a mezzo servizio. Le consegne sono in ritardo, ma i manager preferiscono rallentare, “per far pagare un po’ lo Stato, per fare qualche porcheria in più”, pensa. Obbedisce, anche Pino.
Fa caldo sul treno delle sei, che sembra viaggiare dentro il sole, il cielo quasi non ha colore, è una nuvola di favore, ha una sua consistenza, come la cotta bianca di un prete indossata in una sauna. Anche Zac, l’ex sindacalista ha cantato nel coro di don Saverio, molti anni fa.
E sempre allegri bisogna stare, il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”

Aria condizionata

Il segno del progresso non è bene nasconderlo. Sui treni, in particolare, quando c’è tecnologia, quelli delle ferrovie dello stato la ostentano: e così, l’aria condizionata che non funziona mai, quando invece funziona, viene sparata a zero gradi come un vento di tormenta su pancini scoperti di decine e decine di pendolari, tra i quali anche ex majorettes che si ostinano a mostrare l’ombelico. Tutto è apparenza, in una società di viaggiatori, e di questi tempi l’apparenza passa anche per la scollatura “golfo ligure” e la vita bassa “rigatanga”. Ma in un frigorifero, anche la più sgamata tra le la pendolarsoubrette è un animale a rischio.
Treno ad alta frequentazione, ovvero, pieno come un uovo: il localaccio per Varese, da qualche tempo si è rifatto il look, a cominciare da questo nome ad effetto. L’alta frequentazione porta a una condivisione totale per un tempo variabile quotidiano di: titoli e didascalie di quotidiani, suonerie telefoniche, confidenze riservate e piccanti al telefono, pettegolezzi sulle suocere, odori animaleschi, deodoranti afrodisiaci, peti malcelati, aliti da notti brave, rumori corporei di ogni tipo, fino alle pulci e altre bestiole gentilmente ospitate …
E così, sul Varese dell’ora di punta, capita spesso di vivere promiscuità impreviste con nemici del sapone, oppure con uomini/bufali da traversata del deserto. Soltanto in rari casi, tuttavia, capita di vivere esperienze memorabili con sacerdotesse di lambada: e in quei giorni da grande occasione, vorresti che il treno ci mettesse una vita ad arrivare a casa. La normalità è il treno in ritardo spinto dalle parolacce di chi ci sta sopra, ma quando ci si trova a tu per tu con la Jessica Rabbit della quinta carrozza capita anche di dimenticare il tempo che sfugge…
Ma un giorno infausto, una sera nel freezer su rotaia, un sogno s’infrange contro una porta sempre chiusa, quella della toilette. Fuori trenta gradi umidissimi, tutti assorbiti da un corpo sofferente e un po’ sformato sulla banchina della stazione, dentro ci sono i pinguini pronti a ricordarti che, la prossima volta, è meglio non mangiarsi la peperonata a pranzo, quella che resta per ore ed ore allo stato magmatico nel pancino di ognuno. E il vulcano islandese, a confronto, è innocuo.
Tu fuori con l’ascella unta, mentre là dentro nello scompartimento, c’è lei, Jessica tutta curve, accanto ai pinguini: e, incurante dei possibili rischi, giochi il tutto per tutto e vai a metterti proprio tra lei e i pinguini a dieci centimetri dalle sue curve. Ha il viso abbronzato lei, ma non ci fai caso perché preferisci ripassare una lezione di anatomia, grazie a un vestitino a guaina che risparmia tessuto ovunque. Come una regina della lap dance, è avvinghiata al palo centrale dello scompartimento, quello che fa da sostegno ai pendolari temerari che sfidano il macchinista più brusco del west. E a meno di dieci centimetri da quella fantasia collinare c’è la tua mano, nella speranza che la frenata sia più brusca del solito…
L’illusione di una favola, sul treno freezer, tuttavia, dura meno di una fermata: la peperonata si ripropone in maniera subdola. Vorresti aver dato retta a tua madre, la predicatrice della canottiera di lana sempre e comunque, ma hai preferito far di testa tua: e ora sei lì, di fianco a una creatura che la natura ha disegnato come un rigoglioso bassorilievo barocco, ma con un dramma che prende forma dentro di te. Lo stomaco ti si contrae e sul viso ti appare tutta la tensione del momento che precede una tragedia: ma come farà lei, con tutta quella carne al fresco, a non mostrare nemmeno un po’ di pelle d’oca?
La via di scampo è troppo lontana: la intravedi giù in fondo alla carrozza, dietro a una porta blu con la scritta wc. Porta sempre e irrimediabilmente chiusa per guasto: lì, avvinghiato a quel palo gelato, con la tormenta che fa imbizzarrire la peperonata, ti senti spacciato. Vorresti essere un bimbo che, con innocenza, vive la colichetta con disarmante naturalezza: strilla un po’, ma poi sonoramente si libera… Tu, invece, non hai scampo e vorresti scomparire da lì, da quella posizione favorevole con panorama da urlo: ma dove andare? È tutto pieno su questa carrozza.
E il treno si avvicina a quella curva con semaforo, dopo la stazione di Rho, quella che tante volte hai stramaledetto per via della frenata da ribaltamento che, puntualmente, il macchinista ti regala. Un colpo sordo, gente che sobbalza sulla carrozza e lei, Jessica, che come una pantera ti finisce addosso con tutta la sua perfezione rotonda. Nel giorno e nel momento sbagliato. Lei dice “mi scusi” e tu sommessamente tossici cercando di soffocare tutto il resto. Un colpo di tosse per mascherare l’irrimediabile fine del sogno.

L’autista che vuole cambiare il mondo

Metti un virus nel motore. E se improvvisamente la benzina non servisse più a nulla? Ecco la questione ecologica vista da Sante, autista di autobus, di giorno traghettatore di pendolari e sfigati di giorno, di notte procreatore: ed è già al quinto figlio. Sante, mani e scorza rudi, getta il cuore oltre lo smog stamane, oltre quella polvere invisibile che intacca i polmoni di chi sta giù ad aspettare, alla fermata sul marciapiede.
Quando è al volante fa il predicatore, alla testa del torpedone sembra un condottiero che istruisce la sua truppa. Alle sue spalle, ogni mattina e ogni sera due fedelissimi dell’andata e ritorno, l’Enea e la Giusy, centocinquant’anni in due; gli unici a partecipare al dibattito. Il resto dell’involontaria platea, che egli osserva dello specchietto retrovisore, è una variegata assemblea di dormienti che gli ricorda tanto la gente che seguiva messa alle 6 del mattino, quando da bambino, mamma lo mandava a schiaffoni a fare il chierichetto all’alba. Tutta gente con le palpebre semichiuse, sfatta da una giornata di lavoro, con la voglia di spegnere quel sermone quotidiano così come si spegne l’autoradio quando gracchia.

Ma Sante prende fiato e comincia, tutte le volte, implacabile:
«Ormai siamo condannati a fare una brutta fine.»
«Pensi che l’altro giorno mi è appassita persino la sterlizia. L’avevo pagata trenta euro.», ribatte la Giusy, vispa come una pettegola di paese.
«L’aria è pesante, cara la mea dona, la gente prende il tumore come niente. Tutte le capitali europee soffocano, non c’è scampo l’inquinamento sarà la nostra tomba se non cambiamo, non duriamo altri vent’anni.»
«Beh, io fino a settantanove anni son rivato. Per altri venti ci metto la firma», mette le mani avanti l’Enea.
«L’ha parlà al pussèe bun, ma tu non pensi ai tuoi nipoti? La gente mette al mondo i figli e poi cosa lascia in eredità? Un mondo che va a rotoli, pieno di veleni»
«Con tutta questa gente che chiede la carità dove andremo a finire…», sbuffa la Giusy.
«Non c’è mica da fidarsi sa, non dia confidenza alla marmaglia, sciùra. Poi li vedi ‘sti maruchini tutti a bere birra con il telefonino in mano. Dicono che hanno fame, ma non è mica vero, chiedono la carità e fanno i soldi senza pagar le tasse.»
«Caro Enea, sono troppi, ma che tornino a casa loro. Io sono vecchia mi fanno paura”.
«Perché in Italia, funziona così. Tutto concesso, tutto perdonato, l’è come il Bengodi, ma poi li manteniamo noi quelli lì.»
«A casa loro e di corsa! Sante hai un lavoro? Sì. Loro non hanno un lavoro? Non hanno una casa? Cosa stanno qui a fare.»
«Quando noi avevamo fame, non siamo scappati tutti in Svizzera. Adesso questi cosa pretendono?»
«E poi ci sono gli zingari, è un mondaccio.»
«Con quest’aria qui, non c’è futuro. Anche a Copenaghen hanno problemi.»
«Ma indové Copenaghen?»

Silenzio. Dieci chilometri di tregua, tanto per riflettere: non tanto sulla geografia, quanto sull’ipotesi che tanto assilla l’autista: «I computer vanno in tilt con i virus, ma se capitasse la stessa cosa con la benzina? Un domani potrei venirvi a prendere col cavallo. Pensa che bel mondo diventerebbe! Tutto come una volta. Se potessi pisciar dentro in ogni serbatoio…»

Inquinare la benzina per non inquinare più: tra Milano e la provincia, Sante cova nuove forme di terrorismo. E intanto è lì, fermo in coda, alla barriera di Lainate: «Ah guarda là quell’àsan cunt al suv, lui farà il manager, vardell là. Fermo come me con la mia balena, e col suo bolide al ga trà a sunàa. Quel clacson te lo metto n…»
«Sciur Sante, per misericordia!» la Giusy prova a censurare.
«No, a sa pò no. Non c’è soluzione siamo in troppi, anche noi» riattacca l’Enea.

L’ingorgo svanisce lentamente, il bus riparte, corre incontro al tramonto verso il monte Rosa. Ancora silenzio per altri dieci chilometri. E Sante guida con lo sguardo fisso all’orizzonte tutto rosso e sospira: «A noi provinciali, tutto il giorno a correr dietro a quei milanesi. Persino per mangiare l’hamburger facciamo la coda. Ma non può andar sempre così…»
«Bé el g’ha rasòn» riconosce Enea.
«Ah quella roba lì non fa per me. Ho già la gli asparagi, per stasera. Li faccio con le uova» si reinserisce la Giusy.
«Ah gli asparagi, quelli li mangerei tutti i giorni. Anche se li ho visti un po’ cari dal verdurée. Ma crepi l’avarizia, per certe cose»
«Ma sì, non bisogna stare a guardare tutto. Vadiaviaiciàpp anche all’inquinamento» sentenzia Enea.
«No, non bisogna guardare a tutto, no». Mentre guida e guarda il tramonto, Sante pensa agli asparagi e al sesto figlio. “No, non siamo in troppi, gh’è post anche per lui”, pensa tra sé
Non ha ancora deciso di cosa parlerà domani, della televisione o della violenza negli stadi, della mezza stagione che non c’è più. O forse delle banche: «Sì e indove andremo a finire con ‘sti tassi d’interesse?»

Alieni esperti in business objects

Stefania prende il treno ogni mattina alle sei e mezza. E sta per sposarsi, ha già fissato la data delle nozze: il 31 luglio. «Per quella data è tutto ok, anche al mio capo andava bene». Al mio capo? E al futuro marito? «A entrambi».
Stefania ha studiato una vita intera nell’università più “in” di Milano, ora lavora in un gruppo finanziario in zona Loreto. E che fa? «Analista datastage». Cosa, scusa? «Perché ho maturato una buona esperienza in ambienti di datawarehouse». Ah ok, adesso è tutto chiaro.
Stefania entra in ufficio alle 8 di mattina e ci esce alle 19: «Ma non faccio pausa pranzo, per fare prima». E perché? «Perché altrimenti rientrerei in provincia alle 10 di sera, sai con questi treni». Già, i treni. Nel frattempo, viaggiando sulle carrozze semisfaciate dei treni locali, messaggia a manetta con il suo promesso sposo. E lui che fa? «Lavora in Svizzera, ci si vede dal venerdì alla domenica». E dopo, da sposati? «Idem». Stefania sogna di avere bambini, ma sa che non potrà permetterseli… Perché se lo sapesse il capo…

Anche Giusy prende il treno alle sei e mezza e sono dieci anni che prende treni. Prima per andare a studiare, ora per andare a lavorare. Che fa? «Programmatrice business objects». Ah ok, idem come sopra, tutto chiaro. La data del suo matrimonio è fissata per il 4 luglio «ma non posso permettermi il viaggio di nozze, lo farò ad agosto, quando la mia azienda mi lascia». Eh già, perché l’azienda oggi conta. Chiude l’ufficio ogni sera alle sette e mezza, Giusy, e poi si fa un’oretta di treno, prima di entrare in casa: «Doccia, cena e un quarto d’ora di televisione con il mio cucciolo. Poi sveniamo nel sonno, entrambi sul divano». Il cucciolo, un cagnolino? «No, il mio lui, viviamo già insieme da un annetto». E lui che fa nella vita? «Il sales account in una società finanziaria anche lui a Milano. Solo che lui non ha orari e viaggia in auto». Perfetto: e a quando casa a Milano? «Mai. Costano troppo». Giusy è preoccupata perché quando si sarà sposata, la sua azienda aprirà un nuovo brand, e sarà lei a occuparsene: potrebbe lavorare dodici ore, una in più di adesso.

Sullo stesso binario, alla stessa ora, c’è Carla che è già sposata e un figlio lo ha partorito due anni fa: lo lascia ogni mattina all’alba da sua madre che lo porterà all’asilo nido, dal quale, sempre sua madre, lo preleverà nel pomeriggio. Lei, Carla, rivedrà il suo bimbo alle otto, per cena: «Poi alle nove, va a nanna, il mio frugolino». E lei stira e fa il bucato. Il marito c’è stato fino a un anno fa: «Poi se n’è andato». Dove? Non è dato a sapersi, ma con chi lei lo sa bene. Storia finita. Ora Carla sogna di aprire un negozio di abbigliamento al suo paese, a un’ora da Milano: «Ma non posso permettermelo, mi toccherebbe fare un mutuo, e per iniziare un’attività commerciale, in Italia, paghi troppe tasse. E poi ci sono gli studi di settore: se non lavori, paghi lo stesso. Perché, secondo lo Stato, se un commerciante non guadagna, significa che evade le tasse… E ti danno della disonesta». E allora che fa? «Addetta al servizio it per una compagnia assicurativa». E che vuol dire? «Faccio da interfaccia verso gli outsourcer». Urca, roba seria. Per undici ore al giorno. «Così è la vita»

Tre storie di donne pendolari, che oggi sono molto diverse da quelle della generazione precedente che facevano le ragioniere, le sarte, le segretarie. Dottori e dottoresse escono a migliaia dall’università con lauree a pieni voti e le lacrimucce di mamma e papà. E con un pezzo di carta in mano, un titolo che deve per forza contare, ora: e li trasformerà in alieni.

L’ordinamento del regno

“La dottrina d’assoluto accentramento, ora posta inanzi da’ suoi avversarii come cosa propria, stringe tutta l’azione legislativa in un solo parlamento. Da questo, come nell’antica costituzione data novecento anni fa dagli Ottoni, si balza senza intermezzo ai municipii. ch’erano allora le attuali provincie. Ma non si badò per nulla che le provincie sono da secoli aggruppate in sistemi legislativi, sovra principii capitalmente diversi. rappresentanti nei singoli Stati della penisola e nelle tre isole ordini molto diversi di civiltà. Perioché, mentre negli Stati Romani, in Sardegna, in Sicilia, in Corsica, sopravivono molte tradizioni del medio evo, la Toscana in molte cose, la Lombardia in alcune altre, sono veramente all’avanguardia del progresso. Il Piemonte afferrando l’egemonia militare, doveva porsi in grado di precedere anche coll’egemonia civile. Ma gli uomini che si fecero per dodici anni arbitri delle cose, paghi d’esercitar la potenza e non curanti di farsene strumento di progresso, si lasciarono sopragiungere dagli eventi. Quindi la necessità d’applicare in fretta e in furia i pieni poteri a riparare i danni dell’ostinata inerzia, e di moltiplicare li atti legislativi, intantoché non vi erano i legislatori. Ma il Piemonte, anche addensando in sei mesi i progressi d’un secolo, si trovò inferiore in diritto penale alla Toscana, in diritto civile a Parma, in ordini comunali alla Lombardia; ebbe la disgrazia d’apportare ai popoli, come un beneficio, nuove leggi ch’essi accolsero come un disturbo e un danno. Li assennati riputarono un vituperio che il popolo preferisse le leggi austriache alle italiane, e non si avvidero che il vituperio era che le leggi italiane potessero apparire peggiori delle austriache. Ogni mutazione di leggi, che non sia un vero miglioramento, è un danno; perché sospende il rapido corso delle transazioni, diffonde una dubiezza universale, rende insufficienti tutte le cognizioni pratiche, costringe gli uomini a rifar da capo tutti i loro giudizii e calcoli”.

Carlo Cattaneo, da Il politecnico, luglio 1860

Aspettando la primavera

Una bella stagione che tarda ad arrivare, una Milano monotona e troppo immersa nella mediocrità. Da tempo, troppo tempo. Ora, è tempo di elezioni: la gente non ne può più della politica, quasi la odia, eppure non si parla d’altro per imposizione dei media. Lo starnazzare senza ritegno di candidati di ogni schieramento lascia pochi spazi di serenità per chi vuole ragionare davvero in libertà sull’attualità. Non resta che rifugiarsi, in attesa della primavera, nelle oasi inviolate, quelle della letteratura. Ci sono isole talmente estranee dalla ricerca del consenso che nessun politico oserebbe avvicinarvisi. Anche se, in nome dell’immagine, c’è qualche eccezione. Fa molto “in”, oggi, parlare per esempio di Alda Merini. Ancora meglio se alla presenza di giornalisti e a un comizio, oppure davanti a una targa ricordo e a un nastro tricolore da tagliare.
Ma il politico ,si sa, non guarda alla sostanza, ma all’effetto che fa (televisivo e pubblicitario). E così, per nostra fortuna, non si addentra fino al cuore, all’essenziale della poesia. Lì, dentro quell’isola, c’è ancora libertà vera.

Ruba a qualcuno la tua forsennata stanchezza
o gemma che trapassi il suono
col tuo respiro l’ombra che sta ferma
di fronte ad un porto di paura
quel trascendere il mito
come se fosse forzatamente azzurro
o chi senza abbandono
che non sanno che il pianto dei poeti
è solo canto.
Canto rubato al vecchio del portone
rubato al remo del rematore
alla ruota dell’ultimo carro
o pianto di ginestra
dove fioriva l’amatore immoto
dalle turbe angosciose di declino
io sono l’acqua che si genuflette
davanti alla montagna del tuo amore.

(Alda Merini)