Itinerario n.2: San Clemente di Sangiano

conquista S Clemente

Dopo l’epico esordio nel bel mezzo di una battuta al cinghiale (qui il link al post) mi sentivo pronto e carico per una seconda avventura pedestre. Decidevo di cimentarmi in un percorso un po’ più impegnativo, anche se non particolarmente lungo: dal Picuz di Sangiano fino alla chiesetta di San Clemente, in cima al monte (sempre di Sangiano). Quasi 2 km di sterrato con una ripidissima salita finale di ben 300 mt. Gli scarponcini della misura giusta ancora non erano arrivati, ma decisi di farmene una ragione e, come la prima volta, non mi lasciai scoraggiare, pregustando la meraviglia di conquistare quell’affaccio mozzafiato sul lago Maggiore e sui monti circostanti.

mappa S Clemente

E mozzafiato fu, in tutti i sensi, quella via crucis redentrice di ogni peccato gastronomico, ultimo, tremendissimo ostacolo prima di accedere allo straordinario spettacolo di un panorama senza eguali. Il lago di un azzurro intenso, incastonato tra i monti innevati, sotto un cielo terso e benevolo, si offriva a me in tutta la sua maestosità a premiare il mio sacrificio di qualche litro di sudore e un paio di polmoni ancora servibili.

San Clemente1

Infilata la via Monte Nero, a fianco del Municipo di Sangiano, e dopo lo sterrato che dal bivio del Picuz porta all’abitato di San Clemente, inizia la salita vera e propria, punteggiata dalle stazioni lignee della via crucis (qui maggiori dettagli sull’itinerario). Distrattamente guardai le prime tre o quattro cappelle, poi quando la salita si fece più dura cominciai a scrutare con attenzione i bassorilievi per cercare di capire quanto ancora mancasse alla meta.  “Ma quante sono le stazioni della via crucis?” Tentavo disperatamente di riordinare i ricordi da chierichetto, che si facevano sempre più confusi, colpa  forse del debito d’ossigeno.

Via crucis S Clemente

L’erta finale era micidiale. In preda allo sconforto, e a un pizzico di ipoglicemia, presi a commiserarmi per il peso della mia croce. “La Sua era di certo ben più pesante” pensai, e mi vergognai.  In quel momento preciso mi parve però di sentire un sollievo, di colpo ero più leggero, come se qualcuno mi avesse preso sottobraccio per accompagnarmi negli ultimi metri, ma non potrei giurarlo.

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La bellezza della natura e dell’ingegno umano sono un potentissimo rimedio contro ogni male dell’anima e del fisico, e l’umile chiesetta del nono secolo, già contesa tra le diocesi di Como e di Milano, oggetto di risse memorabili tra chierici e fedeli delle due fazioni, con la sua cornice di laghi e di montagne, ebbe ben presto ragione del mio affanno. Il gioco ne valse sicuramente la candela, e la soddisfazione dell’aver spostato, anche se di poco, il mio limite, arricchiva il premio di cui già mi riempivo gli occhi.

Chissà dove potrò arrivare con le mie scarpe nuove? Non perdetevi le prossime puntate.

San Clemente

 

Potato skins, croccanti bucce antispreco

Potato skins

Nel suo libro “cucinare senza sprechi” (Ponte Alle Grazie, Milano, 2012), Andrea Segrè “ci spiega con competenza e dovizia di argomenti che ridurre gli sprechi in cucina, a tavola e prima ancora facendo la spesa, è un atteggiamento vantaggioso e insieme responsabile, un modo per guardare al cibo come risultato e parte di un processo globale che coinvolge il suolo, l’acqua, le risorse energetiche e quelle umane, e rispettarlo come si faceva nelle cucine dei nostri nonni. Dove i torsoli di pera e il pane raffermo, i noccioli di prugna e gli ossi della carne erano ingredienti a pieno titolo, e non andavano sprecati”.  Si calcola che ogni anno nel mondo si sprechi all’incirca un miliardo e trecento milioni di tonnellate di cibo. In pratica un terzo del cibo che acquistiamo finisce nel pattume. Voglio provare a cambiare una cosa, piccola, minima, irrisoria, ma se siamo in tanti a farla – appunto perché è facile e minima – forse un qualche effetto lo si sortisce. Se IO non inizio a fare qualcosa in modo diverso, NIENTE potrà mai cambiare.

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Leggendo il volumetto scopro quale insospettata risorsa culinaria si celi in quel che banalmente definiremmo “scarto”. Ad esempio le bucce delle verdure, che regolarmente finiscono “nell’umido” possono anelare a nuova vita gastronomica, non meno dignitosa di quella degli ortaggi che rivestivano.

L’occasione mi si presenta subito, con le patate saltate in padella che acompagnano una costata di fassona piemontese a filiera corta. Naturalmente le servo “glabre” com’è mia consuetudine, ma stavolta ne conservo le bucce anziché consegnatrle alla pattumiera. Il giorno appresso realizzo una semplice pastella morbida con farina e acqua, vi ci passo le bucce e le friggo senza ulteriori cerimonie. Non proprio una ricettina dietetica, ma di certo dal nulla è saltato fuori un contorno, o un aperitivo, originale e davvero appagante. Più ricche di gusto delle semplici patate (molti degli elementi nutritivi si trovano proprio nella buccia), sono anche più croccanti. Se proprio non vogliamo chiamarle bucce di patate, usiamo il loro nome americano “potato skins” per nobilitarle al momento di propinarle alle nostre ignare cavie. Con me a ha funzionato alla grande. A presto per altre ricette antispreco testate personalmente.

 

Non aspettare che tutto sia perfetto

promenade dans les bois…Quel momento non arriverà mai, semplicemente inizia. Con questo banale aforisma “da cioccolatino” si potrebbe perfettamente descrivere il mio esordio nel mondo dei fisicamente attivi. OK, dalla foto sembro più un pingue contadino-possidente del tardo Ottocento che un agguerrito e modeno trekker, ma ci vuole un inizio per tutto.

Non ho certo aspettato che fosse tutto perfetto, ben lungi. Per cominciare il tempo era gelido, e la neve caduta di recente ingombrava il sentiero. Avevo anche un rimasuglio di raffreddore, ma soprattutto le annunciate scarpe ordinate in rete erano sì arrivate, ma di un numero sotto il mio. Ci ho provato a far finta di niente, indossandole per oltre un’ora nel tentativo di convincermi che in fondo potevano andar bene. Dovevo arrendermi all’evidenza, mi facevano male, furiosamente.

timberland piccole

Senza perdermi d’animo escogitavo un piano B e recuperavo dalla cantina un paio di vecchi scarponcini squarciati. Con un buon paio di calze sarei riuscito a tenere a bada il freddo per almeno un paio d’ore. Mi imbacuccavo poi con quel che mi capitava, un vecchio giaccone di panno, lo sciarpone Vuitton, guanti di pecari, i miei fedeli jeans, berretto di cashemire regalato dai suoceri a Natale e un bastone da allevatore di bestiame. Sì, forse la cravatta la potevo anche evitare…

Scarpone squarciato

Prontissimo, caricavo le cagnette sul pandino 4×4 e convergevo sul rione Mirabella di Gemonio, da dove parte un sentiero piuttosto in piano che collega Gemonio ad Azzio.

L’obiettivo era quello di acclimatarmi, come lo farebbe un alpinista sulle pendici dell’Himalaya prima di sfidare la vetta. Siamo sui primi contrafforti del Campo dei Fiori, sotto Orino, e da qui si vede benissimo la mia futura meta. Il mio percorso di oggi prevedeva l’arrivo nei pressi dell’agriturismo Terra Libera di Azzio.

mappa walking

A circa metà del cammino sentivo d’improvviso un gran vociare, rumori di rami rotti, corsa sfrenata attraverso la boscaglia. Poi una scarica di fucilate, fortissime, vicinissime,  e  un uomo che gridava concitato “E’ grosso, è grosso! Occhio ai cani! Qui per portarlo via dovremo metterci in sei!”. Surreale. Per un attimo mi sono leggermente preoccupato, poi ragionando ho intuito che si riferivano ad un grosso cinghiale, abbattuto poco dopo dal resto dei fucilatori appostati più in basso.

Per oggi poteva bastare, decidevo di non finire impallinato e facevo dietrofront, seguito docilmente da Milla e Bubu che sembravano approvare il rientro anticipato. Comunque avevamo camminato per un’ora buona. Troppo presto per il calcolo delle calorie e ogni altra considerazione statistica, non sono ancora entrato nella mentalità. Per ora mi sono goduto una tranquilla, o quasi, camminata nel bosco in compagnia dei miei cani. Domani ritorneremo, cercando di spingere più in là il nostro modestissimo limite. Irrisorio, forse, ma il concetto è proprio questo: muoversi, un passo alla volta!

 

 

Lo spezzatino vegano, quello reducetariano e l’acqua che si mangia (seconda parte)

stufato di sanato piemonteseL’aspetto dello spezzatino di seitan era davvero invitante, e il profumo carico di promesse gustative. Arpionavo una patata con la forchetta e ci scarpettavo un po’ di sugo a guisa di preliminare. Ottimo, sapido e stuzzicante. Senza ulteriori indugi puntavo allora un bocconcino, e lo addentavo.

Il primo impatto sulla lingua, mediato dal manto di sugo che subito si diffuse all’interno della bocca, fu piacevole, ma la successiva sensazione di aver ingollato un pezzo di caucciù mi colse impreparato. Preso dal panico lavoravo di mascella e saliva e riuscivo a macinare il boccone in un più deglutibile, si fa per dire, pugnetto di calcestruzzo. Mezzo bicchiere di Chateau De Fiates, chiamato d’urgenza a soccorso, sbloccava la situazione. “Perché non lo testiamo anche sui cani?” mi chiese perfidamente una delle mie cavie umane, passando un boccone all’incolpevole cagnetta Milla che però sembrò soddisfarsene. Il confronto immediatamente successivo con lo spezzatino tradizionale di sanato piemontese segnò la Caporetto, almeno in quella sede, della versione vegana.

Potevamo ora passare alla seconda fase dell’esperimento, lo spezzatino reducetariano. Il termine reducetarianesimo (dal verbo to reduce, ridurre), inventato dallo statunitense Brian Kateman,  è forse il peggior nome che si potesse trovare per definire una corrente di pensiero sostenibile che in verità riunisce sotto una singola denominzazione schiere di indecisi, edonisti gastronomici, shabby-chic e foodies. In sostanza sta nel mezzo, riconoscendo la non percorribilità della strada attuale del consumismo sfrenato, e senza arrivare ad eliminare del tutto la carne, si propone di ridurne semplicemente il consumo. Si evita così di allontanarsi troppo dalla propria identità culturale, legata alla nostra alimentazione. Si basa su tre principi, facilmente comprensibili da tutti:

  1. Un minor consumo di carne, in termini generali, è benefico per la nostra salute. Il mondo scientifico e la medicina concordano su questo punto.
  2. E’ facile. I reducetariani si prefissano degli obiettivi gestibili e raggiungibili. Ricordiamo che anche un piccolo miglioramento compiuto da molti può cambiare le cose.
  3. E’ moralmente buono, evitando la sofferenza e il sacrificio di molti esseri viventi.

In un certo senso, questa filosofia non è in contradizione con le tesi avanzate da movimenti che propongono un consumo minore ma di miglior qualità, come ad esempio Slow-Food.

Il concetto è “consumo carne meno spesso, ma di maggior qualità”, ove qualità è intesa anche come il tipo di allevamento, l’alimentazione, il rispetto dell’animale, delle tradizioni e dell’ambiente. Ecco quindi la mia versione dello spezzatino reducetariano, a base  di sanato piemontese “a filiera corta”, cioè selezionato in stalla, macellato e commercializato dallo stesso maestro artigiano. Nel mio caso l’amico Paolo, che conosceremo in una prossima intervista. Protagonista un vitello di fassona di 8 mesi in stabulazione libera, cioè senza catena e sulla paglia, allevato nella zona di Cavour ai piedi delle montagne del cuneese. Una delle carni più tenere, saporite e sane che possano esistere.

Una volta infarinata la carne, debitamente salata e pepata, la rosolavo nel coccio in olio e burro. Appena preso un bel colore, giuntavo carote e cipolla a mirepoix – un trito fine – due rametti di timo e una foglia d’alloro del giardino. Lasciavo ammorbidire e bagnavo quindi con vino rosso, unendo quasi subito passata di pomodoro, poi altro vino e brodo, fino a coprire a filo. Lasciavo allora sobbollire a fiamma lenta per quasi due ore. Poco prima di servire, univo patate a tocchi già cotte al vapore affinché s’insaporissero senza inamidare troppo il sugo. Spenta la fiamma, lasciai lo spezzatino riflettere e concentrarsi per venti minuti buoni per rendere piena giustizia ad uno dei pilastri più profondamente radicati nella nostra cultura, un intramontabile specialità delle nostre mamme e delle nostre nonne. Alla loro salute innalzammo i calici di Bordeaux, vino preferito di mia nonna Thérèse. D’obbligo la scarpetta.

 

Sul fronte del gusto ovviamente non vi fu gara: Vegani 0 – vitello piemontese 1, a mani basse!! Inoltre un chilo di questa carne unica al mondo mi è costato poco più di 15 euro, contro i 17 del seitan! Se si considera invece l’impatto sull’ambiente, c’è da calcolare il minor consumo di energia per la cottura dello spezzatinbo vegano: soli venti minuti a fronte di due ore buone per la carne vera. C’è poi la questione dei grassi animali e del colesterolo, a tuttoggi oggetto di accesi dibattiti. Mi ripromettevo comunque di ritornare sull’argomento, meglio equipaggiato culturalmente e dopo i debiti ulteriori accertamenti. Ad esempio mi accorsi che il seitan, essendo costituito praticamente da glutine puro – la proteina del frumento – non fornisce tutti gli aminoacidi necessari alla corretta alimentazione umana, e che occorre integrarlo con legumi o cereali, in particolare segale. Ecco perché molte ricette presenti in rete lo abbinavano ai piselli.

Del tutto prematura quindi una condanna, anche perchè, approfondendo l’argomento con l’aiuto di Segrè, scoprivo che in realtà nell’equazione relativa al modello alimentare del mondo industrializzato entrava pure un sovraconsumo di acqua dovuto al suo largo impiego nell’allevamento di animali da macello. In altre parole, quando parliamo di consumi di acqua, non teniamo conto di quella che “mangiamo” letteralmente! Per produrre una bistecca di carne rossa di 200g si consumano circa 3.000 litri di acqua tra l’allevamento dell’animale e la produzione del foraggio per la sua alimentazione. Ogni giorno, in una dieta carnivora, “mangiamo” così 3.800 litri di acqua, mentre per un vegetariano il consumo è di “soli” 2.300 litri (Andrea Segrè, il libro blu dello spreco in Italia: l’acqua Edizioni Ambiente, Milano, 2012). Un argomento da trattare assolutamente in un prossimo incontro-intervista con Segrè.

Insomma la partita è ancora aperta, ma una cosa è certa, se vogliono avere successo, anche i reducetariani dovranno cambiare : il nome!

Lo spezzatino vegano, quello reducetariano e l’acqua che si mangia (prima parte)

Leggendo, per principiar d’istruirmi nel merito dell’impatto dei nostri costumi sul pianeta, il volume “Vivere a spreco zero”[ed. Marsilio, Venezia, 2013] di Andrea Segrè, direttore del Dipartimento di scienze agro-alimentari dell’università di Bologna, trovavo conferma dell’ormai accettato teorema per il quale il modello di consumo di carne delle nostre società cosiddette “avanzate”, legato all’allevamento intensivo su larga scala, sarebbe alquanto inefficiente in termini di utilizzo delle (scarse) risorse naturali.libro Segrè

Cosa fare, dunque? Smettere di mangiare carne, come da anni preconizzano vegetariani e vegani? Occorrebbe quindi sostituire le proteine animali con quelle di origine vegetale. E’ un cambiamento piuttosto radicale, che modificherebbe non di poco le nostre comode abitudini, e siccome siamo quello che mangiamo, qui c’è il rischio di rinunciare per sempre alla nostra identità. Che dire poi della tradizione, della cultura, oltre ad alcuni aspetti dell’economia rurale?

Ma sono curioso e voglio provare, sulla mia pelle ed in modo totalmente empirico, l’effetto che fa cucinare e mangiare uno spezzatino vegano. Sono tentato di recarmi in un ristorante vegano e sperimentare lì questo tipo di cibo, ma non sarebbe veritiero. Troppo facile farselo acquistare e cucinare da un cuoco vegano esperto, questo blog parla di esperimento reale, il più vicino possibile a quello che faremmo tutti, inclusi gli sbagli e le ingenuità, se decidessimo di optare per l’una o per l’altra dieta alimentare.

Da profano mi ritrovo quindi nel mio supermercato. Avevo già notato gli scaffali dedicati ai cibi bio, vegetariani, naturali e quant’altro di alternativo e “buono”. Andando a casaccio acquisto del seitan, che dalla foto sulla confezione ha un bell’aspetto carnoso.  Tornato a casa, non senza aver sborsato ben 17 euro e cinquanta centisimi per un chilo di finta carne, mi informo sul mio acquisto. Scopro così, grazie alla rete, che il seitan è un derivato del glutine, e contiene inoltre della soia, del sale e dell’alga kombu che contribuiscono a donargli sapore. Bene. Qui ci sarebbe la questione dei celiaci, ma approfondiremo in un’altra occasione. Ora si tratta di cucinare e provare, finalmente, il mio prezioso seitan.

Sempre dalla rete intuisco che il metodo di cottura è più o meno simile a quello della carne, con tempi molto ridotti. In pratica il seitan è già cotto. Numerose, sul web, le ricette di spezzatino. Decido di optare per uno spezzatino classico con patate. Più tardi scorprirò perchè tutte le ricette me lo propinavano invece coi piselli. Realizzato un profumato soffritto in olio extravergine con cipolla e carota, univo il seitan – spezzato a mano come preconizzava l’utente-esperto di un forum che sembrava saperla lunga – e lo lasciavo insaporire per qualche minuto. Sfumavo poi con un po’ di vino, e aggiungevo mezza scatola di pelati di ottima marca, qualche rametto di rosmarino e una foglia d’alloro, finendo di coprire il mo spezzatino con poco brodo rigorosamente vegetale. Lasciavo così sobbollire per una ventina di minuti secondo i consigli dei vari blogger. Verso fine cottura univo alcune patate a pezzettoni, già cotte a vapore, aggiustavo di sale e pepe e portavo trionfalmente in tavola. (continua)

stufato di seitan

Il primo passo

Più sani per cambiare il pianeta, fare attività fisica per diventare più sostenibili. Da dove comincio? Mi sento una pesante responsabilità, se ce la faccio io, ce la possono fare tutti, e il mio caso potrebbe essere di esempio a migliaia di diversamente sportivi. Coraggio! Ispirato dal bell’articolo di Davide Cionfrini sull’ultimo numero di Focus, decido che il forte di Orino, panoramico baluardo della città di Varese ad un’ipotetica invasione Austro-ungarica dai confini elvetici, costituirà uno degli obiettivi principali del mio programma “proviamo a cambiare stile di vita”. Articolo Orino Cionfrini Focus Una sana attività fisica dovrebbe, secondo il comune sentire sostenìbile, condurre a maggior consapevolezza del proprio benessere fisico e di conseguenza ad un diverso modello di consumo. Dice Massimo Cirri, nota voce di Radio2 nella fortunata trasmissione Caterpillar“Questa crisi può essere l’ocasione giusta per cambiare il proprio stile di vita. In meglio”.  Ci voglio credere.

Anche in azienda quello di uno stile di vita attivo è molto in voga: “io sono un runner” mi ha dichiarato, perentorio e al primo abboccamento il mio nuovo capo. Fantozzianamente sentivo l’irrefrenabile tentazione di rispondergli “anch’io”. Non ce l’ho fatta. Molti nella top leadership aziendale vantano tempi kenyoti sulla mezza, singola e doppia maratona, e non è infrequente avvistarli nelle loro splendenti e aderenti armature fluorescenti prima dell’alba sulle strade della nostra provincia, bardati di sofisticate apparecchiature elettroniche. E neppure è infrequente vederli correre fianco a fianco con operai della linea, o semplici impiegati. Qui conta solo il fiato e la preparazione. la sezione podistica del CRAL aziendale vanta in effetti una lunga tradizione. Che sia anche un modo di azzerare le distanze gerarchiche, promuovendo inoltre una coesione sociale davvero democratica perché questo sport è alla portata di tutti? Ci ritorneremo. Comunque sono bellissimi, ahimé irraggiungibili. Per noti e pregressi motivi fisici, è escluso per me qualsiasi tipo di corsa podistica. Per il momento decido di optare per delle semplici passeggiate, meno trendy ma più accessibili, specie per un improvvisato neofita come me, senza adeguata preparazione né monitoraggio medico. Ogni cosa a suo tempo.

Preso dall’entusiasmo, decido seduta stante di acquistare tutto l’equipaggiamento adatto al mio folle piano: un bel paio di pedule, o scarponcini da passeggio. Mi reco quindi in un negozio di articoli sportivi, la cui vetrina è un tripudio di scarpe tecniche nei colori più sgargianti. Il commesso, con aria di commiserazione e sospetto, mi spiega che hanno tutto per il running, il calcio e il calcetto, ma di pedule non ha proprio mai sentito parlare. Senza perdermi d’animo attraverso metà provincia per raggiungere una megastore dell’abbigliamento sportivo. Appena entrato mi accorgo subito che mi sono infilato in un altro tempio del running; scarpini colorati a perdita d’occhio, tutine aderenti fluorescenti, GPS contapassi/misura-falcata/battito cardiaco/analisi-della-corsa-in-tempo-reale che neanche ai box della ferrari… Batto in ritirata, ma non mi do per vinto. ScaponciniDecido di smettere di inquinare la provincia con le emissioni del mio mezzo, e mi affido alla rete. Vittoria! Dopo poco, “acquisto con 1 click”, uno splendido paio di scarponcini di nota marca paninara, mi si conceda l’amarcord, concepiti per la camminata simplex. Consegna mercoledì.  Per adesso il forte di Orino rimane inespugnato, comincerò tra qualche giorno la mia salutare trasformazione. Non vedo l’ora, ma sono sfinito e ancora non ho fatto un passo! La via della sostenibilità individuale potrebbe essere più ardua di quel che m’immaginavo, ma vado avanti. Mi organizzerò meglio. Vi terrò informati, non perdete d’occhio questo spazio.

 

Expo sulla mia pelle! Diario personale di un cambiamento globale

Se l’argomento centrale di Expo “nutrire il pianeta, energia per la vita” riprende l’annoso e ben noto tema della sopravvivenza del pianeta e dei suoi abitanti, con la contrapposizione tra chi spreca il cibo e chi invece patisce la fame, ancora non ci si rende ben conto che il cambiamento necessario non può essere semplicemente delegato a vaghe autorità competenti o alla comunità scientifica, ma deve anche partire da ognuno di noi.

Per questo motivo ho deciso di provare a fare la mia parte, e di raccontarlo attraverso un blog, in attesa di giungere al grande appuntamento di maggio 2015. Una specie di cammino sulla via di Expo, sperimentando sulla mia pelle quello che finora, per molti di noi, rimane un interessante argomento di dibattito teorico.

Cercherò di capire, all’atto pratico, cosa significa consumare in modo più responsabile e sostenibile: da consumatore, come mi posso orientare nella selva delle proposte e delle mode che vanno dal buon senso della stagionalità, al biologico, al km zero, al commercio equo e solidale, passando da scelte vegetariane e vegane? Quali quelle meno impattanti su ambiente ed economie locali, pur mantenendo la mia identità, poichè in fondo siamo quello che mangiamo anche dal punto di vista culturale? Ma soprattutto, in che modo la grande distribuzione può fornire risposte sostenibili “ anche per le mie tasche”? Sì, perchè se il consumo responsabile non è alla portata di tutti, il gioco finisce qui. Proverò inoltre sistematicamente ad applicare i principi della lotta agli spechi alimentari, proponendo ricette e accorgimenti.

Un altro risvolto del tema di Expo, più nascosto, è quello relativo ai danni provocati dal sovraconsumo nella parte di pianeta più economicamente avanzata, in primis l’obesità dilagante nel mondo occidentale, che porta a problemi sanitari che impattano profondamente la nostra società. Tenterò quindi di modificare alcune abitudini di vita, in particolare quelle legate all’alimentazione e all’attività fisica, cercando di migliorare la mia “sostenibilità” individuale, e poichè ognuno deve sfruttare le risorse che ha a disposizione, potrà essere questa l’occasione per scoprire alcune bellezze del territorio varesino. Sport, trekking, semplici passeggiate, tutto può servire. A ognuno il proprio livello di impegno fisico. Anche una piccola modifica, in positivo, di queste abitudini, se adottata da molti, può fare una grande differenza. E se ce la faccio io possono farcela tutti!

In questo cammino incrocerò molte persone, esperti, amici, semplici incontri casuali… facendomi raccontare da ognuno la loro visione e la loro prospettiva, nell’intento di giungere all’appuntamento Expo con un quadro della situazione il più completo possibile. Il mio cammino inizia ora, vi va di accompagnarmi?