La dura vita del fumettista

Il fumetto. Come il cinema e la televisione, è parte integrante della cultura popolare. Da Tex a Dylan Dog, da Diabolik a Topolino, da decenni unisce intere generazioni.
Grazie anche a fiere del fumetto come il Lucca Comics e i Cosplay, questo mondo ha continuato a crescere nel corso del tempo.

Cosa vuol dire, oggi, fare il fumettista? Abbiamo rivolto la domanda ad Antonio Stelitano che ci ha condotto nella complessità di questa professione.

Che cosa significa per lei essere un fumettista e che cosa lo ha spinto a diventarlo?
Significa essere un narratore. Poco conta qual è l’argomento trattato. Quello che ci distingue è la scelta del linguaggio che usiamo per narrare. Il linguaggio Fumetto appunto. Un linguaggio complesso e con una grammatica in continua evoluzione.

Da cosa è nata questa passione?
Da bambino, ho imparato a leggere sui fumetti che acquistava mio padre. Sono sempre stati una presenza fissa in casa nostra. Così, durante i primi anni di scuola, ho iniziato anche a scrivere delle storie con personaggi ispirati a quelle prime letture. Raccontare era diventato un fatto normale per me.

Da quanto disegna?
Il disegno è arrivato molto dopo rispetto alla scrittura. Un incontro faticoso e spesso demoralizzante; disegnare è difficile, soprattutto se non si ha una predisposizione per le arti grafiche e ci si deve affidare all’apprendimento meticoloso della tecnica.

Quanto ci vuole a disegnare una vignetta?
Dipende tutto dal soggetto raffigurato e dalla confidenza che abbiamo con la rappresentazione delle idee. Non esiste un metro uguale per tutti.

Come disegna? Con carta e penna oppure in digitale? Che cosa preferisce?
Preferisco ancora con matita e carta, ma per il colore mi affido volentieri al digitale che mi permette di essere più efficace in minor tempo.

Che cosa disegna (persone, animali, oggetti…)?
Nel fumetto si disegna qualunque cosa. Si finisce per studiare anatomia e prospettiva, fotografia e moda, e poi ancora architettura di ogni regione e momento storico, ambienti naturali di ogni tipo: bisogna anche imparare a far recitare i personaggi, col volto e con il corpo, o saper dare la giusta atmosfera con luci e tagli di inquadratura. E tanto altro.

Che messaggio vuole mandare? Qual è il fine del suo lavoro?
Ecco, nessun messaggio particolare. Voglio solo portare un istante di pausa e di divertimento, più o meno profondo nelle tematiche, ma senza tentare di imporre un qualche mio pensiero. Anche se di certo alcuni miei valori finiscono per influenzare il mio lavoro.

Lavora da solo o insieme a qualcuno?
Di solito da solo, ma mi capita di disegnare racconti scritti da altri. È sempre un’esperienza formativa.

Ha mai pensato di far diventare un suo fumetto un cartoon?
No. L’Italia non si presta facilmente a queste operazioni, forse nel prossimo futuro, con un’evoluzione della tecnologia e una nuova generazione di creativi, le cose potrebbero cambiare. In tal caso sarebbe un esperimento interessante.

Come sceglie gli argomenti?
Mi faccio influenzare dalle altre mie passioni ( è bene essere curiosi ed interessarsi a più discipline). Di sicuro, le relazioni umane e le emozioni sono fra gli argomenti che amo di più anche se li inserisco in contesti fantasiosi che permettono di veicolarli con maggiore efficacia.

Quanto è difficile entrare nel mondo dell’editoria?
Tanto, com’è giusto che sia. Bisogna essere bravi o originali più di tutti gli altri. E sono molti.

Ha mai pensato di smettere?
No.

Cosa consiglierebbe a chi vuole iniziare questo percorso?Pazienza, voglia di studiare e fatica.

Martina Sette

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