Una volta il clero cattolico usava bruciare vive le persone, dopo lunghe sessioni di torture truculente. E così è successo anche al nostro collega pittore Riccardo Perucolo nel 1500.
Fu, come quasi sempre succedeva, il capro espiatorio individuato per terrorizzare le pecorelle del gregge di Conegliano e dintorni di Venezia. Le accuse contro di lui furono inconsistenti e francamente ridicole, come si può notare dalla puntigliosa ricostruzione dei fatti nel libro di Lionello Puppi “UN TRONO DI FUOCO”.
I papi, vescovi, preti e frati usavano questi metodi sicuramente per questioni di POTERE: bruciare vivi gli accusati nella piazza principale in mezzo alla folla non poteva avere altro significato (immaginatevi le grida, il terrore, il puzzo di carne bruciata, il fumo nero, le viscere, ossa, carni arrostite che rimanevano esposte per giorni, mosche, odore cadaverico…..).
Mentre non si spiegano le interminabili e atroci sessioni di tortura da parte dei frati inquisitori, se non per un loro puro piacere perverso, sadico e morboso: gente sicuramente con gravi problemi mentali che operava “in nome di Dio”.
Qualche cosa del genere è rimasto ancora oggi nelle file dei preti pedofili, dei cappellani militari dei colpi di stato recenti (Argentina, Cile, Guatemala ecc. ecc.) e del clero che, come oggi in Nicaragua, impediscono l’aborto terapeutico condannando così a morte, dopo mesi di sofferenze, centinaia di bambine, adolescenti e donne ogni anno.
Quelle usanze atroci e disumane applicate in Europa nel 1500 furono esportate in America Latina durante la colonizzazione e conversione forzata dei popoli indigeni a autoctoni. In questo continente è stato compiuto il più grande genocidio della storia della umanità, in nome di una religione che pretendeva l’esclusiva mondiale sulla interpretazione della parola di Dio.
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Lionello PUPPI “Il trono di fuoco, Arte e martirio di un pittore eretico del Cinquecento”, Ed. Centauri 1995
Riccardo Perucolo, pittore ed eretico, visse, dipinse e morì a Conegliano. Qui, nella soavità fulgida e misurata delle colline trevigiane, con clamore si consumò tra le fiamme la sua tragedia, per subito fuggire dalla memoria della sua terra. Della sua arte rimangono tracce esilissime, qualche fregio a decorazione di palazzi patrizi; della sua vita parlano le poche carte dei suoi carnefici.
Ora Lionello Puppi ha ricostruito, in un libro di originale forza narrativa, la vicenda del dimenticato artista eretico, la sua robusta e ferma passione religiosa, i contorni della sua arte perduta. Rivivono così i suoi libri, fonte di letture ispiratrici insieme d’arte ed eresia, condivise con i suoi pavidi compari di scandalo; la famiglia e i committenti, la cui stima gli aveva concesso una modesta agiatezza; infine, il lungo travaglio dei processi che lo porteranno al rogo con l’accusa di essere l’autore di «obbrobriose» raffigurazioni del Cristo.
Pur serrata e ricchissima, la storia di Perucolo è affrontata da Lionello Puppi come qualcosa di più di un mero episodio meritevole di ricostruzione: essa diviene il luogo di riflessioni e ragionamenti d’ordine critico e storico sui meccanismi dell’ispirazione artistica, sul confine tra il mestiere, l’«orgoglio espressivo» e la visione del mondo di un artista cinquecentesco, potremmo dire, eccentricamente tipico.
Ma non solo: attraverso la dolorosa sorte di Riccardo, lo sguardo dello storico riesce a penetrare a fondo nella vita di quelle rocche e città e ville che punteggiavano la «terraferma» della Serenissima Repubblica, restituendo un ritratto vivissimo della loro vita fervida, indolente e appassionata.
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Riccardo Perucolo: al rogo quell’artista
di Lionello Puppi
Il 20 marzo 1568 Valerio Fenzi, inquisitore del Sant’Uffizio in Venezia, comunicava al Segretario di Stato vaticano d’aver “ricevuto una lettera del clarissimo podestà di Conegliano” – ch’era allora Girolamo Miani -, “et scrive d’haver fatto abbrusciare publicamente Ricardo pitor con molta satisfatione del populo et molta edificatione”. Alla stessa data ed allo stesso destinatario, il nunzio apostolico presso la Serenissima – il fanatico Giannantonio Facchinetti, cui toccherà d’occupare il soglio pontificio per sessantadue giorni col nome eccessivo di Innocenzo X – s’indirizzava per commentar soddisfatto come “quel Ricardo pittore relapso fu per esempio de gl’altri abbrugiato publicamente in Conigliano, et questa pena del fuoco s’è in questa occasione discussa di modo che non voglio già promettere di certo”.
Come dire che, se pur gli stava bene che il braccio secolare avesse acceso a Conegliano, ed insomma in un anfratto urbano della Terraferma abbastanza recondito, il fuoco della punizione riservato all’eretico impenitente Riccardo Perucolo, la speranza non lo abbandonava che, presto o tardi, le supreme Autorità della veneta Repubblica, sin là riluttanti per il timore delle reazioni che ne sarebbero venute dagli ambasciatori dei paesi protestanti, potessero gettar i rei del peccato insopportabile di eresia tra le fiamme di roghi avvampanti e crepitanti sulle piazze marciane della Capitale, anziché, siccome usava, affondarne il corpo vivo e palpitante – braccia e gambe legate, ed una pesante pietra al collo – nelle acque torbide della laguna notturna e silenziosa.
Ma chi era “quel Ricardo pittore” messo a morte “publicamente” nel grande slargo dei mercati (più o meno ove sta oggi la stazione ferroviaria) di Conegliano, in un giorno imprecisato della vigilia di primavera dell’anno del Signore 1568?
I manoscritti consentono di recuperare alla memoria, cui doveva essere sottratto e cui veramente era stato sottratto dalla sentenza che metteva fine alla sua vita, maestro Riccardo Perucolo pittore: si tratta degli incartamenti relativi ai processi cui fu sottoposto nel 1549 e 1568, che inzeppano le buste 7 e 24 del fondo del Sant’Uffizio presso l’Archivio di Stato di Venezia; di atti rogati dal notaio Bernardino Vezzati tra 1543-1551, 1556-1562, 1562-1569 e 1568-1575, contenuti nelle buste 821 e 822 del notarile presso l’Archivio di Stato di Treviso; degli estimi, e desciptiones animarum dell’Archivio Municipale Vecchio di Conegliano; di lacerti di corrispondenza relativa alla Nunziatura di Venezia disseminati nel Cod. Barb. Lat. 3615 della Biblioteca Apostolica Vaticana e tra le carte della Segreteria di Stato dell’Archivio Segreto Vaticano.
Doveva esser stato battezzato Riccardo tra 1515 e 1520 al fonte della pieve della natia Zoppé – poche case di pietra e coperte di tegole col loro cortiletto cintato, pozzo tezza stalla, e casoni di paglia impastata col fango, gravitanti intorno alla piccola chiesa – presso la strada comune diretta da Conegliano a Ceneda e Serravalle (riunite oggi in Vittorio Veneto); era il terzo della prole (Santo ed Elisabetta, i fratelli) che Antonio Perucolo e la moglie Cecilia avevano messo al mondo ed allevato non proprio – a quanto pare – nelle ristrettezze, se godevano della proprietà della terza parte di una casa di muro e di un appezzamento di terra prativa ed arativa con vigneto. Antonio faceva il muratore (“murarius”) e, ove pur manca ogni indizio che possa autorizzarci a pensar che abbia mai attinto il ruolo di capomastro e messo su bottega, il lavoro non dovette mancargli mai, in una congiuntura di gran fervore edilizio.
Riccardo poté, così, goder del vantaggio di un’istruzione che gli consentì d’imparare a leggere e a scrivere. “Mi so lezer un pocho volgar e scrivo molto mal”, testimonierà all’inquisitore, ma sapeva bene che gli conveniva esser cautissimo al riguardo. In realtà, la redazione autografa della denuncia presentata al Fisco di Conegliano, non esibisce affatto un mezzo analfabeta e men che mai il possesso di una biblioteca di nove volumi (tra questi, il Nuovo Testamento, gli Atti degli Apostoli e le Epistole di San Paolo, tutti in volgare come un’edizione delle Metamorfosi ovidiane), scovata, e sequestrata, nel corso di una perquisizione: che, all’epoca, era patrimonio librario individuale di tutto rispetto…….
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