Qua si lavora così

Siamo in Nicaragua, CENTROAMERICA, e queste foto si riferiscono alla “normalità” quotidiana del lavoro in questo paese “in via di sviluppo”. Lavori pericolosi realizzati per quattro soldi, senza contratto, senza assicurazioni, senza niente di niente, una miseria, per sopravvivere qua e per aiutare in qualche modo la famiglia, i figli a crescere….. per evitare di dover rubare o di dover ingrossare le file dell’esodo biblico verso il NORD.
Quelli che riescono a trovare un “pegue” (cioè un lavoretto) sono fortunati…e si buttano a qualsiasi condizione…dimostrano il loro coraggio…che sono “verdaderos machos” (veri uomini)…che non hanno paura del pericolo…e se non succede niente si prendono i loro 50 cordobas al giorno (due euro)….
Ma fino a quando?
Il “Diritti dei Lavoratori” , e non i “diritti degli speculatori”,  dovrebbero essere la base principale, preziosa, concreta e indispensabile, per costruire futuro……

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Riproduciamo una riflessione di Edoardo Galeano su questi argomenti:

I diritti dei lavoratori: roba da archeologi?

I resti delle conquiste strappate nel corso di due secoli di lotte operaie in tutto il mondo.

Più di 900 milioni di clienti entrano ogni settimana nei negozi Wal-Mart. I suoi impiegati, più di 900 mila, hanno il divieto di affiliazione a qualsiasi sindacato. Quando a qualcuno di loro viene questa idea, questo qualcuno si converte immediatamente in un disoccupato in più.
Questa impresa di successo nega, senza nasconderlo, uno dei diritti umani proclamati dalle Nazioni Unite: la libertà di associazione. Il fondatore di Wal-Mart, Sam Walton, ha ricevuto nel 1992 la Medaglia della Libertà, una delle più alte onorificenze degli Stati Uniti d’America.
Negli Stati Uniti, un adulto su quattro e nove bambini su dieci, ingoiano da McDonald’s il cibo di plastica che li fa ingrassare. I lavoratori di McDonald’s sono usa e getta come il cibo che servono: vengono tritati dalla stessa macchina. Neanche loro hanno il diritto alla sindacalizzazione.
In Malesia, dove i sindacati operai ancora esistono e operano, le imprese Intel, Motorola, Texas Instruments e Hewlett Packard sono riuscite ad evitare questo disturbo. Il governo della Malesia ha dichiarato “libero da sindacato” (“union free”) il settore dell’elettronica.
Non avevano il diritto di associarsi neanche le 190 operaie che sono morte in Tailandia nel 1993, nei magazzini chiusi dall’esterno dove fabbricavano i pupazzi di Sesame Street, Bart Simpson e i Muppets.
George W. Bush e Al Gore condividevano, durante la campagna elettorale dell’anno scorso, la necessità di continuare a imporre il modello nordamericano dei rapporti di lavoro. “Il nostro modello di lavoro”, entrambi lo definivano così, è quello che sta segnando il passo della globalizzazione, che avanza con stivali di sette leghe e arriva fino ai più remoti angoli del pianeta.

La tecnologia che ha annullato le distanze permette adesso che un operaio della Nike in Indonesia debba lavorare centomila anni per guadagnare quello che guadagna, in un solo anno, un manager della Nike negli Stati Uniti e che un operaio dell’IBM nelle Filippine fabbrichi computers che non può permettersi di comprare. E’ la continuazione dell’epoca coloniale, ad un livello mai conosciuto.

I poveri del mondo continuano a svolgere la loro funzione tradizionale: mettono a disposizione braccia e prodotti a basso prezzo; oggi producono pupazzi, scarpe sportive, computers o strumenti ad alta tecnologia oltre a produrre, come facevano prima, gomma, riso, caffè, zucchero ed altre cose maledette per il mercato mondiale.
Dal 1919 sono stati firmati 183 accordi internazionali che regolarizzano le relazioni di lavoro nel mondo. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT) di questi 183 accordi, la Francia ne ha ratificati 115, la Norvegia 106, la Germania 76 e gli Stati Uniti…14. Il paese che guida la globalizzazione obbedisce solamente ai propri ordini. Così facendo garantisce sufficiente impunità alle sue grandi corporazioni, alla ricerca di mano d’opera economica e di territori che le industrie sporche possono inquinare a loro piacimento.

Paradossalmente questo paese, che non conosce altra legge che quella del lavoro fuori legge, è lo stesso che adesso dice che non ci sarà rimedio se non quello di inserire “clausole sociali” e di “protezione ambientale” negli accordi di libero commercio. Come sarebbe la realtà senza la pubblicità che la maschera?
Queste clausole sono semplici tasse che il vizio paga alla virtù, a carico della voce delle relazioni pubbliche, ma la sola menzione dei diritti dei lavoratori fa venire la pelle d’oca ai più ferventi avvocati difensori del salario da fame, l’orario flessibile e il licenziamento libero.

Quando Ernesto Zedillo ha lasciato la presidenza del Messico è divenuto membro dei direttivi della Union Pacific Corporation e del consorzio Procter & Gamble, che opera in 140 paesi. Inoltre è alla guida di una commissione delle Nazioni Unite e diffonde il suo pensiero dalle colonne della rivista Forbes: con un linguaggio tecnocratico mostra indignazione contro “l’imposizione di standards di lavoro omogenei nei nuovi accordi commerciali”. Tradotto ciò significa: buttiamo al secchio una buona volta tutta la legislazione internazionale che ancora protegge i lavoratori. Il presidente in pensione viene pagato per predicare la schiavitù. Ma il primo direttore esecutivo della General Electric lo dice in maniera più chiara: “Per competere è necessario spremere limoni”. I fatti sono i fatti.

Di fronte alle denunce e alle proteste le imprese si lavano le mani: non siamo stati noi! Nell’industria postmoderna il lavoro non è più concentrato: così avviene da tutte le parti e non solo nell’attività privata. I contrattisti esterni producono i tre quarti delle parti necessarie per le vetture della Toyota. In Brasile, su 5 lavoratori della Wolkswagen, solamente uno è dipendente dell’impresa. Degli 81 lavoratori di Petrobras morti per incidenti sul lavoro negli ultimi tre anni, 66 lavoravano al servizio di contrattisti che non rispettavano le norme sulla sicurezza. Grazie a trecento imprese contrattiste la Cina produce la metà di tutte le bambole Barbie per le bambine di tutto il mondo. In Cina ci sono sì sindacati, ma obbediscono a uno stato che in nome de socialismo si occupa della disciplina della mano d’opera: “Noi combattiamo le agitazioni operaie e l’instabilità sociale per assicurare un clima favorevole agli investitori”, ha spiegato recentemente Bo Xilai, segretario generale del Partito Comunista in uno dei principali porti del paese.

Il potere economico è più concentrato che mai, ma i paesi e le persone si fanno concorrenza per quello che possono: vediamo chi offre di più per meno, vediamo chi lavora il doppio in cambio della metà. Ai margini del cammino rimangono i resti delle conquiste strappate nel corso di due secoli di lotte operaie in tutto il mondo. Gli impianti e magazzini del Messico, del Centro America e dei Caraibi, che a ragione si chiamano “sweat-shop”, laboratori del sudore, crescono ad un ritmo molto più veloce di tutta l’industria nel suo insieme. In Argentina, su dieci nuovi posti di lavoro, otto sono in nero, senza nessuna protezione sociale. In tutta America latina, su dieci posti di lavoro nove fanno parte del “settore informale”, un eufemismo per dire che i lavoratori sono lasciati in balia di Dio.

La stabilità lavorativa e gli altri diritti dei lavoratori saranno da qui a poco un argomento per gli archeologi? Solo ricordi di una spece estinta?

Nel mondo al contrario, la libertà opprime: la libertà del denaro esige lavoratori prigionieri del carcere della paura, che è il carcere di tutte le carceri. Il dio del mercato minaccia e castiga; e lo sanno bene tutti i lavoratori, in ogni luogo. La paura della disoccupazione, che serve ai datori di lavoro per ridurre i costi della mano d’opera e moltiplicare la produttività è, oggigiorno, la fonte di angustia universale. Chi può considerarsi al riparo dal panico di trovarsi nelle lunghe code di coloro che cercano lavoro? Chi non teme di trasformarsi in un “ostacolo interno”, per dirlo con le parole del presidente della Coca-Cola, che un anno e mezzo fa ha spiegato il licenziamento di migliaia di lavoratori dicendo che “abbiamo solamente eliminato gli ostacoli interni”?

Un’ultima domanda: di fronte alla globalizzazione del denaro, che divide il mondo in domatori e domati, si potrà internazionalizzare la lotta per la dignità del lavoro? Sfida difficile.

traduzione di Andrea Meloni http://www.ossin.org/analisi-e-interventi/galeano-wal-mart-sindacati.html

*Eduardo Galeano è nato a Montevideo il 3 settembre del 1940. E’ un giornalista , scrittore e saggista uruguaiano

America Latina: 81 milioni di bambini poveri, 48 milioni di minori lavoratori
http://forumambientalista.wordpress.com/2011/06/01/america-latina-81-milioni-di-bambini-poveri-48-milioni-di-minori-lavoratori/

Sindacalisti uccisi, incubo America latina
http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=2602

El derecho internacional del trabajo
http://archivo.elnuevodiario.com.ni/2001/febrero/23-febrero-2001/opinion/opinion1.html

Ley No. 666 – Ministerio del Trabajo Nicaragua
http://www.mitrab.gob.ni/documentos/leyes/Ley666Nic.pdf/view?searchterm=ley%20666

4 pensieri su “Qua si lavora così

  1. Articolo interessantissimo. Il mondo così come lo conosciamo è ingiusto. Prima o poi il mondo occidentale dovrà rinunciare a parte dei propri privilegi in nome di un mondo più giusto, i paesi emergenti continueranno a “rosicchiare”sempre di più, e noi a impoverirci sempre di più, poi si giungerà forse ad un qualche equilibrio se non salta in aria tutto prima 😀

  2. immagina che un operaio in mezzo ad un cantiere con € 1.500,00 al mese in nero, con due figli a carico, che forse è venuto dal Sud del mondo o un precario con la paura d’avere figli. Immagina che ha guidare questo paese ci siano persone come Alex Zanotelli e non un venditore di pubblicità.Abbiamo anche qua un piccolo Nicaragua sommerso.

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