Ho appena terminato di dipingere due piccoli ritratti di Pier Paolo Pasolini, con quel suo viso scavato e spigoloso e con l’atteggiamento mitico dei suoi film, il primo dei racconti di Canterbury ed il secondo del Decameron, nelle vesti di Giotto. In questa ultima veste l’avevo giá dipinto, insieme a Tolstoj, nel 2010, in un importante quadro dal titolo “Gli scomunicati”.
Pasolini, insieme ad Antonio Gramsci, rimane uno dei piú grandi ed incompresi intellettuali italiani del secolo scorso. Forse ci vorranno ancora decenni per capire la loro analisi dei profondi problema dell’Italia, per cambiare, ed incamminarci in un percorso meno assurdo ed illogico di quello che stiamo percorrendo ormai da troppo tempo.
Tratto da Wikipedia riproduco un interessante testo sul linguaggio cinematográfico. É una pagina significativa in cui Pasolini illustra il suo passaggio dalla letteratura al cinema, dalla cittadinanza italiana all’esilio.
La lingua del cinema
Nel ’60 ho girato il mio primo film, che
s’intitola “Accattone”.
Perché sono passato dalla letteratura al cinema?
Questa è, nelle domande prevedibili in una intervista,
una domanda inevitabile, e lo è stata.
Rispondevo sempre ch’era per cambiare tecnica,
che io avevo bisogno di una nuova tecnica per dire una cosa nuova,
o, il contrario, che dicevo la stessa cosa sempre, e perciò
dovevo cambiare tecnica: secondo le varianti dell’ossessione.
Ma ero solo in parte sincero nel dare questa risposta:
il vero di essa era in quello che avevo fatto fino allora.
Poi mi accorsi
che non si trattava di una tecnica letteraria, quasi
appartenente alla stessa lingua con cui si scrive:
ma era ella stessa una lingua…
E allora dissi le ragioni oscure
che presiedettero la mia scelta:
Quante volte rabbiosamente e avventatamente
avevo detto di voler rinunciare alla mia cittadinanza italiana!
Ebbene, abbandonando la lingua italiana, e con essa,
un po’ alla volta, la letteratura,
io rinunciavo alla mia nazionalità.