“Haiti, dove si vive ancora con meno di un dollaro al giorno”

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Pubblico la storia di Riccardo Ferraris, gallaratese che ad Haiti ha incontrato la sua amica Marta Aspesi, volontaria che lavora nella capitale dell’isola. Ecco il resoconto del loro incontro e dello sguardo sulla situazione che sta ancora vivendo oggi la capitale

Abbiamo solo due cose in comune: siamo cresciuti a Gallarate e da lì ce ne siamo andati via abbastanza presto per festeggiare i nostri trent’anni lontano da casa. Per il resto io e Marta siamo due mondi lontani. Io in California: un’appartamento sotto le colline di Hollywood e un lavoro normale pensato per pagare le bollette della luce e il supermercato. Lei in giro per il mondo senza sosta: Nicaragua, Etiopia, Cile. Da qualche anno collabora con un’associazione cattolica su progetti educativi con bambini in difficoltà. Un impiego strano, uno di quelli che non fai solo per le bollette e la spesa.
Ci incontriamo ad Haiti dove io devo girare un documentario per il quinto anniversario dal terremoto del 2010 e lei si è trasferita per seguire una missione a Port au Prince.

L’Appuntamento è a Rue Delmar, nel cuore della capitale haitiana, un ammasso infinito di macerie lasciate al sole dal sisma, intervallate da strade senza padrone. Ovunque agli angoli delle vie c’è gente che vende o scambia qualcosa, bambini con le uniformi verdi che entrano ed escono da scuola, soldati delle Nazioni Unite con i kalashnikov ad altezza bacino, animali che pascolano liberi e un odore inconfondibile di carbone bruciato.
Marta7Mi aspetta lì, davanti a una delle baraccopoli più grandi dei Caraibi. ‘Mi fa strano vederti in questo posto’ mi dice e che non fossimo esattamente in piazza Garibaldi me ne accorgo quando mi accompagna a casa sua: una stanza ricava all’interno del campo-scuola che Marta gestisce insieme a un gruppo di suore. Il tetto è di lamiera rigida, le pareti dei traforati in legno, l’acqua arriva da una cisterna esterna, la doccia è un secchio di plastica gialla. Nella stanza accanto ogni mattina arrivano i bambini del quartiere: ‘Sono ragazzi con problemi seri, vivono con le famiglie qui vicino, in baracche di pochi metri quadri, tutto quello che hanno, per ora, sono le ore che passano a studiare e giocare con noi’. Quando entro loro sono già seduti ai propri posti: hanno età diverse, maschi e femmine, salutano Marta come una sorella, la abbracciano, cercano in ogni momento il suo sguardo, vogliono attirare la sua attenzione.

Tutt’intorno è un disastro. Proprio dietro la casa di Marta c’è una discarica: rifiuti edili, sacchi della spazzatura, avanzi di cibo. Due papere passeggiano tranquille nel giardino a pochi metri da una fogna a cielo aperto. ‘Qui non siamo mica a Hollywood’ sospira Marta mentre io mi convinco che quello che ho di fronte agli occhi è piuttosto anomalo. Marta non abita, infatti, nella moderna e vicina Petionville come gli altri cooperanti che ho conosciuto nei giorni precedenti, non ha a disposizione una scorta e un autista per spostarsi da una parte all’altra della città: vive esattamente nelle stesse condizioni delle persone che aiuta.

‘La telecamera è meglio non portarla’ mi dice un attimo prima di fare un giro nel quartiere. Io faccio finta di niente e la infilo nello zaino. La baraccopoli è fatta di edifici di mattoni di cemento, vicoli stretti qualche palmo di mano e una fila di gente che cammina ordinata. Ci addentriamo e Marta mi racconta del governo haitiano, delle elezioni democratiche rimandate, delle infrastrutture al tracollo e di quelle che non esistono: ‘E’ un delirio! Hai capito?’. No, non ho capito perfettamente, quello che noto però è che Marta è completamente persa nella sua battaglia per cambiare Haiti, non parla d’altro, non pensa ad altro, Port-au-Prince per lei è tutto: ‘Sono stata in Africa, ma una situazione così non l’avevo mai vissuta. Qui i bambini arrivano a scuola e mi dicono che non mangiano e non bevono da due giorni’.
Il sole picchia forte su un Paese dove la metà della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e l’altra metà non se la passa meglio, il Fondo Monetario Internazionale nel 2009 prevedeva per la nazione più povera del continente americano una crescita del Pil di 2 punti percentuali, poi ci hanno pensato il terremoto e un’epidemia di colera a sistemare tutto.
Io ascolto, guardo in giro, vedo i bambini che stanno per entrare nelle aule per le prime lezioni, sento il rumore delle auto in coda, saluto: ‘Ci vediamo a Gallarate giusto?’

Riccardo Ferraris (foto di Gianfilippo De Rossi)