Che cosa abbiamo capito noi lombardi della mafia

Il marchio della cantina Centipassi sulle cassette della raccolta ad alta specializzazione, in un vigneto sequestrato alla mafia

La mafia come atteggiamento, omertà e folklore negativo è quanto di più fuorviante possa esserci oggi per capire meglio che cosa stia accadendo in questo paese. E invece l’esperienza a San Giuseppe Jato e Corleone ci ha insegnato che tra i nostri territori lombardi e quelle terre c’è qualcosa in comune di molto forte. La mafia è un oligopolio economico di alcune forze che non permettono a quelle oneste di svilupparsi. La Lombardia è il luogo dove i capitali vengono reinvestiti, ma se le cosche dialogano anche al nord il mercato viene attaccato e distrutto, come stava accadendo a Lonate Pozzolo, o in alcuni rami dell’edilizia a Busto Arsizio. Significa continuare la competizione economica con altri mezzi, quali omicidio, estorsioni, intimidazioni. Quando controlli un territorio devastato dalla disoccupazione, instauri un welfare, dai da mangiare alla povera gente e dai da lavorare ai professionisti e i colletti bianchi, ed è così che il sistema si diffonde.

Altro che coppola e lupara, la mafia è fatturazione, management e contratti firmati con la politica. Vista da Varese e Milano colpisce in pieno questa cosa: a Trapani l’azienda più moderna per l’edilizia era la Calcestruzzi Ericina del boss Virga, che però era anche imprenditore. A San Giuseppe Jato, il paese dove abbiamo alloggiato e dove fu sciolto nell’acido il corpo del piccolo Giuseppe Di Matteo (per ritorsione contro il padre pentito), il capobanda Bernando Brusca iniziò la sua carriera vendendo animali rubati, in un luogo segreto  conosciuto dai vecchi del paese come “u bancu”. Il welfare mafioso ci è stato spiegato anche dagli educatori che a Palermo stanno cercando di seminare legalità tra i ragazzi dei quartieri.

Ma è soprattutto il tentativo di economia legale delle cooperative sociali di Libera che ci ha colpito moltissimo, una filiera pulita.

Il sindaco di San Giuseppe Jato, Davide Licari, e l’agriturismo nato su un bene confiscato a Totò Riina, Terre di Corleone

I terreni confiscati grazie alla legge sul riuso voluta proprio dall’associazione Libera consente di avere presidi da gestire che le cooperative a marchio “Libera terra” utilizzano per assumere, pagare stipendi degni, contributi, e fare prodotti alimentari di qualità, che in questo caso sono stati distribuiti dai supermercati della Coop (il gruppo che ha organizzato il campo al quale abbiamo partecipato, e che si occupa del progetto “Coltivare Responsabilità” per gli uliveti “Terre di Rita Atria” a Castelvetrano).  Ma è solo un esempio, si potrebbe fare molto in questo senso. “Guardate che la battaglia contro la mafia è essenzialmente economica e la si può combattere solo con l’efficienza” dice il presidente della cooperativa Placido Rizzotto, la prima nata nel 2001,  Francesco Galante (il vino della cantina Centopassi è prodotto da loro). E così anche la presenza di queste cooperative nei territori del corleonese è diventato un esempio per tutti, perché non comprano da fornitori che non pagano le tasse, o che non fanno le fatture. Per trovare la prima trebbiatrice ci vollero i carabinieri. Oggi, oltre al comparto alimentare, Libera sta cercando di diffondere anche un turismo sostenibile in queste terre, per esempio con la rivalutazione di un agriturismo confiscato a Totò Riina a Corleone, con l’agriturismo di Portella della Ginestra confiscato ai Brusca (a poca distanza dal memoriale della strage), o ancora utilizzando la casa di Bernando Provenzano, sempre a Corleone, per fare educazione e storia. Attraverso un consorzio chiamato “Libera terra mediterraneo”, questo movimento cooperativo sta poi cercando di distribuire i propri prodotti. E’ proprio questo Consorzio, che ha la sede a san Giuseppe Jato, a coordinare tutte le cooperative, e a garantire che non vi sia alcun inquinamento. La cooperativa Placido Rizzotto ha persino inserito nello statuto che non bisogna frequentare persone che hanno rapporti con la mafia.  I risultati sono già molto interessanti. I fornitori locali sanno già ad esempio che devono emettere fattura.

Il tesserino da giornalista di Peppino Impastato, esposto a Cinisi nella casa museo

Certo, c’è anche il mito di una figura eroica come Peppino Impastato e il film “I centopassi” che ha raccontato di una vita spesa contro l’arroganza di don Tano Badalamenti. E’ utile anche quello, ma la filosofia di queste esperienze è che non serve essere eroi; basterebbe che ognuno facesse il proprio dovere nel ruolo economico e sociale che gli viene assegnato, rispettando le leggi e non cedendo a un “doping” finanziario e mafioso.  Don Luigi Ciotti sostiene l’idea che sia necessaria una corresponsabilità di noi tutti.  Lo stesso vale oggi per la Lombardia o la provincia di Varese, dove ai tanti imprenditori onesti potrebbero contrapporsi quelli che riciclano capitali, o sono evasori totali. Varese e Milano hanno tanti anticorpi nel sistema ma bisogna tenerli vivi. A Corleone di pari passo è forte la missione di chi sta tentando da tempo il cambiamento. Riassumendo, una cosa è chiara in questa Italia tutta unita: se si diffonde un’economia che non controlla la provenienza dei capitali, che evade le tasse, che lavora nell’illegalità, si consegna in maniera strisciante il territorio alla mafia. A san Giuseppe Jato dicono che si fa uno “stricamento” con la mafia, ovvero uno “sfregarsi”.  Paradossalmente, quando il commercialista ti consegna il cedolino dello stipendio, e tutte le voci sono legali, anche a Varese o a Milano, questo mese,  puoi dire che la tua azienda ha combattuto Totò Riina.

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