Devo ammetterlo, non ci avevo mai pensato. Solo di recente, con l’apertura di questo blog e una aumentata sensibilità alla sostenibilità alimentare e agli sprechi, mi sono accorto di molti piccoli dettagli della nostra vita quotidiana, parte del nostro modello di consumo post-industriale, che messi in fila acquistano una certa rilevanza.
Così una mattina, tra l’orgoglio gastronomico slow di spremere arance fresche, possibilmente siciliane, per la colazione, e un latente senso di colpa per il possibile impatto del loro trasporto lungo la penisola, mi rendevo conto dell’ingente quantità di scarto prodotto da tale operazione. Normalmente avrei evacuato nell’umido la massa di polpa ancora gocciolante, raschiandola dall’apparecchio, senza pensarci troppo. Ora mi rendevo conto che quella “roba” era ancora perfettamente commestibile. Che spreco! Mi son preso a pesarla: per ogni arancia dai 30 ai 35g! Per le nostre tre spremute di due arance ciascuna, stavamo producendo ben 200g di scarto, e questo senza contare le bucce.
Quale discendente di illustri confiseur e pasticceri, non potevo non provare a ridare una nuova vita gastronomica a quell’avanzo di fibre, acqua e fruttosio. Avrei provato a farne marmellata, avendone ricevuto i rudimenti in tenera età, tra i calderoni di rame dei laboratori della celebre Maison Domérégo di Nizza, e per aver osservato più tardi mia zia Micheline confezionarla specialmente per me con arance amare.
Il procedimento che ho seguito è dei più semplici: dopo aver pesato la quantità di materia prima, ho aggiunto la metà del suo peso in zucchero. Per lo scarto delle mie sei arance, duecento grammi complessivi , aggiungevo cento grammi di zucchero e un cucchiaino scarso di pectina, circa 4g. Tagliavo quindi a julienne la scorza di mezza arancia, lasciando la parte bianca, per dare l’amaro alla mia marmalade e dotarla così di una personalità decisamente britannica. In un pentolino antiaderente portavo il tutto a ebollizione, e su fiamma viva lasciavo schiumare per tre o quattro minuti, finché all’occhio non garbasse avendo raggiunto un colore lucido e brillante, e non incominciasse ad ispessire. Fumante e ancora un po’ liquida – raffreddando si sarebbe rappresa – la versavo nell’unico vasetto approntato per accoglierla. Quei tre etti e mezzo di ottima marmalade ci sarebbero durati alcuni giorni. Dopo sarebbe stato bastato ripetere la semplice operazione.
Com’è venuta? Il colore era di un arancione brillante, intenso e invitante. La consistenza era perfetta, scorrevole e spalmabile pur con la giusta viscosità per restare ben aggrappata alla fetta di pane. Il profumo era intenso e piacevole. Il gusto era un concentrato di arancia, dolce e acidulo, vellutato, con la nota amara delle scorze piacevolmente mordevoli. Insomma, tutto quello che ci si aspetta da una marmalade delle più titolate. In conclusione e per quanto mi riguarda: marmellata di spremuta adottata! A presto per altre ricette antispreco.