Polpette di ceci su crema di gambi di broccoli. L’avanzo di un contorno di ceci, lo scarto dei broccoli, gambi e foglie. “La totale” antispreco. Queste polpette sono quanto di più facile da realizzare. Ho usato gli avanzi di un contorno di ceci, passandoli semplicemente al tritacarne, insieme a un po’ di pane raffermo, anch’esso un avanzo, uno spicchio d’aglio e qualche pezzetto di crosta di grana. Si mescola poi per bene, insieme a un uovo e un sorso di latte. Se si ha si può aggiungere un po’ di tahina, pasta di sesamo, per un tocco decisamente mediorientale. Sale, pepe, spezie, e si formano delle palline, che si passano infine nel pangrattato, sempre di recupero. I ceci sono già cotti, sicché basta preoccuparsi solo della rosolatura esterna. La crema sulla quale sono adagiati è realizzata con la parte di scarto dei broccoli. Ho messo foglie e gambi a bollire in poca acqua finché sono diventati morbidi. Il mixer a immersione ha trasformato il tutto in crema. Una noce di burro, un po’ di latte per aggiustare la densità, sale e pepe e il gioco è fatto. Si può consumare anche da sola, è alquanto soddisfacente. Per la presentazione un mestolo di crema sul fondo del piatto, e le polpette semplicemente adagiate. Facile, ad effetto, vegetariano, antispreco. Omettendo latte, burro e formaggio, sostituiti da un filo di extravergine, il piatto diventa addirittura vegano. Per non farsi sradicare da tanto esotismo new agevi ho abbinato un molto terreno lambrusco delle Terre Verdiane con i piedi ben piantati nella grassa e benedetta terra emiliana. A presto per altre ricette antispreco.
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Con lo scarto della spremuta, la marmellata d’arancia antispreco
Devo ammetterlo, non ci avevo mai pensato. Solo di recente, con l’apertura di questo blog e una aumentata sensibilità alla sostenibilità alimentare e agli sprechi, mi sono accorto di molti piccoli dettagli della nostra vita quotidiana, parte del nostro modello di consumo post-industriale, che messi in fila acquistano una certa rilevanza.
Così una mattina, tra l’orgoglio gastronomico slow di spremere arance fresche, possibilmente siciliane, per la colazione, e un latente senso di colpa per il possibile impatto del loro trasporto lungo la penisola, mi rendevo conto dell’ingente quantità di scarto prodotto da tale operazione. Normalmente avrei evacuato nell’umido la massa di polpa ancora gocciolante, raschiandola dall’apparecchio, senza pensarci troppo. Ora mi rendevo conto che quella “roba” era ancora perfettamente commestibile. Che spreco! Mi son preso a pesarla: per ogni arancia dai 30 ai 35g! Per le nostre tre spremute di due arance ciascuna, stavamo producendo ben 200g di scarto, e questo senza contare le bucce.
Quale discendente di illustri confiseur e pasticceri, non potevo non provare a ridare una nuova vita gastronomica a quell’avanzo di fibre, acqua e fruttosio. Avrei provato a farne marmellata, avendone ricevuto i rudimenti in tenera età, tra i calderoni di rame dei laboratori della celebre Maison Domérégo di Nizza, e per aver osservato più tardi mia zia Micheline confezionarla specialmente per me con arance amare.
Il procedimento che ho seguito è dei più semplici: dopo aver pesato la quantità di materia prima, ho aggiunto la metà del suo peso in zucchero. Per lo scarto delle mie sei arance, duecento grammi complessivi , aggiungevo cento grammi di zucchero e un cucchiaino scarso di pectina, circa 4g. Tagliavo quindi a julienne la scorza di mezza arancia, lasciando la parte bianca, per dare l’amaro alla mia marmalade e dotarla così di una personalità decisamente britannica. In un pentolino antiaderente portavo il tutto a ebollizione, e su fiamma viva lasciavo schiumare per tre o quattro minuti, finché all’occhio non garbasse avendo raggiunto un colore lucido e brillante, e non incominciasse ad ispessire. Fumante e ancora un po’ liquida – raffreddando si sarebbe rappresa – la versavo nell’unico vasetto approntato per accoglierla. Quei tre etti e mezzo di ottima marmalade ci sarebbero durati alcuni giorni. Dopo sarebbe stato bastato ripetere la semplice operazione.
Com’è venuta? Il colore era di un arancione brillante, intenso e invitante. La consistenza era perfetta, scorrevole e spalmabile pur con la giusta viscosità per restare ben aggrappata alla fetta di pane. Il profumo era intenso e piacevole. Il gusto era un concentrato di arancia, dolce e acidulo, vellutato, con la nota amara delle scorze piacevolmente mordevoli. Insomma, tutto quello che ci si aspetta da una marmalade delle più titolate. In conclusione e per quanto mi riguarda: marmellata di spremuta adottata! A presto per altre ricette antispreco.
Potato skins, croccanti bucce antispreco
Nel suo libro “cucinare senza sprechi” (Ponte Alle Grazie, Milano, 2012), Andrea Segrè “ci spiega con competenza e dovizia di argomenti che ridurre gli sprechi in cucina, a tavola e prima ancora facendo la spesa, è un atteggiamento vantaggioso e insieme responsabile, un modo per guardare al cibo come risultato e parte di un processo globale che coinvolge il suolo, l’acqua, le risorse energetiche e quelle umane, e rispettarlo come si faceva nelle cucine dei nostri nonni. Dove i torsoli di pera e il pane raffermo, i noccioli di prugna e gli ossi della carne erano ingredienti a pieno titolo, e non andavano sprecati”. Si calcola che ogni anno nel mondo si sprechi all’incirca un miliardo e trecento milioni di tonnellate di cibo. In pratica un terzo del cibo che acquistiamo finisce nel pattume. Voglio provare a cambiare una cosa, piccola, minima, irrisoria, ma se siamo in tanti a farla – appunto perché è facile e minima – forse un qualche effetto lo si sortisce. Se IO non inizio a fare qualcosa in modo diverso, NIENTE potrà mai cambiare.
Leggendo il volumetto scopro quale insospettata risorsa culinaria si celi in quel che banalmente definiremmo “scarto”. Ad esempio le bucce delle verdure, che regolarmente finiscono “nell’umido” possono anelare a nuova vita gastronomica, non meno dignitosa di quella degli ortaggi che rivestivano.
L’occasione mi si presenta subito, con le patate saltate in padella che acompagnano una costata di fassona piemontese a filiera corta. Naturalmente le servo “glabre” com’è mia consuetudine, ma stavolta ne conservo le bucce anziché consegnatrle alla pattumiera. Il giorno appresso realizzo una semplice pastella morbida con farina e acqua, vi ci passo le bucce e le friggo senza ulteriori cerimonie. Non proprio una ricettina dietetica, ma di certo dal nulla è saltato fuori un contorno, o un aperitivo, originale e davvero appagante. Più ricche di gusto delle semplici patate (molti degli elementi nutritivi si trovano proprio nella buccia), sono anche più croccanti. Se proprio non vogliamo chiamarle bucce di patate, usiamo il loro nome americano “potato skins” per nobilitarle al momento di propinarle alle nostre ignare cavie. Con me a ha funzionato alla grande. A presto per altre ricette antispreco testate personalmente.
Lo spezzatino vegano, quello reducetariano e l’acqua che si mangia (seconda parte)
L’aspetto dello spezzatino di seitan era davvero invitante, e il profumo carico di promesse gustative. Arpionavo una patata con la forchetta e ci scarpettavo un po’ di sugo a guisa di preliminare. Ottimo, sapido e stuzzicante. Senza ulteriori indugi puntavo allora un bocconcino, e lo addentavo.
Il primo impatto sulla lingua, mediato dal manto di sugo che subito si diffuse all’interno della bocca, fu piacevole, ma la successiva sensazione di aver ingollato un pezzo di caucciù mi colse impreparato. Preso dal panico lavoravo di mascella e saliva e riuscivo a macinare il boccone in un più deglutibile, si fa per dire, pugnetto di calcestruzzo. Mezzo bicchiere di Chateau De Fiates, chiamato d’urgenza a soccorso, sbloccava la situazione. “Perché non lo testiamo anche sui cani?” mi chiese perfidamente una delle mie cavie umane, passando un boccone all’incolpevole cagnetta Milla che però sembrò soddisfarsene. Il confronto immediatamente successivo con lo spezzatino tradizionale di sanato piemontese segnò la Caporetto, almeno in quella sede, della versione vegana.
Potevamo ora passare alla seconda fase dell’esperimento, lo spezzatino reducetariano. Il termine reducetarianesimo (dal verbo to reduce, ridurre), inventato dallo statunitense Brian Kateman, è forse il peggior nome che si potesse trovare per definire una corrente di pensiero sostenibile che in verità riunisce sotto una singola denominzazione schiere di indecisi, edonisti gastronomici, shabby-chic e foodies. In sostanza sta nel mezzo, riconoscendo la non percorribilità della strada attuale del consumismo sfrenato, e senza arrivare ad eliminare del tutto la carne, si propone di ridurne semplicemente il consumo. Si evita così di allontanarsi troppo dalla propria identità culturale, legata alla nostra alimentazione. Si basa su tre principi, facilmente comprensibili da tutti:
- Un minor consumo di carne, in termini generali, è benefico per la nostra salute. Il mondo scientifico e la medicina concordano su questo punto.
- E’ facile. I reducetariani si prefissano degli obiettivi gestibili e raggiungibili. Ricordiamo che anche un piccolo miglioramento compiuto da molti può cambiare le cose.
- E’ moralmente buono, evitando la sofferenza e il sacrificio di molti esseri viventi.
In un certo senso, questa filosofia non è in contradizione con le tesi avanzate da movimenti che propongono un consumo minore ma di miglior qualità, come ad esempio Slow-Food.
Il concetto è “consumo carne meno spesso, ma di maggior qualità”, ove qualità è intesa anche come il tipo di allevamento, l’alimentazione, il rispetto dell’animale, delle tradizioni e dell’ambiente. Ecco quindi la mia versione dello spezzatino reducetariano, a base di sanato piemontese “a filiera corta”, cioè selezionato in stalla, macellato e commercializato dallo stesso maestro artigiano. Nel mio caso l’amico Paolo, che conosceremo in una prossima intervista. Protagonista un vitello di fassona di 8 mesi in stabulazione libera, cioè senza catena e sulla paglia, allevato nella zona di Cavour ai piedi delle montagne del cuneese. Una delle carni più tenere, saporite e sane che possano esistere.
Una volta infarinata la carne, debitamente salata e pepata, la rosolavo nel coccio in olio e burro. Appena preso un bel colore, giuntavo carote e cipolla a mirepoix – un trito fine – due rametti di timo e una foglia d’alloro del giardino. Lasciavo ammorbidire e bagnavo quindi con vino rosso, unendo quasi subito passata di pomodoro, poi altro vino e brodo, fino a coprire a filo. Lasciavo allora sobbollire a fiamma lenta per quasi due ore. Poco prima di servire, univo patate a tocchi già cotte al vapore affinché s’insaporissero senza inamidare troppo il sugo. Spenta la fiamma, lasciai lo spezzatino riflettere e concentrarsi per venti minuti buoni per rendere piena giustizia ad uno dei pilastri più profondamente radicati nella nostra cultura, un intramontabile specialità delle nostre mamme e delle nostre nonne. Alla loro salute innalzammo i calici di Bordeaux, vino preferito di mia nonna Thérèse. D’obbligo la scarpetta.
Sul fronte del gusto ovviamente non vi fu gara: Vegani 0 – vitello piemontese 1, a mani basse!! Inoltre un chilo di questa carne unica al mondo mi è costato poco più di 15 euro, contro i 17 del seitan! Se si considera invece l’impatto sull’ambiente, c’è da calcolare il minor consumo di energia per la cottura dello spezzatinbo vegano: soli venti minuti a fronte di due ore buone per la carne vera. C’è poi la questione dei grassi animali e del colesterolo, a tuttoggi oggetto di accesi dibattiti. Mi ripromettevo comunque di ritornare sull’argomento, meglio equipaggiato culturalmente e dopo i debiti ulteriori accertamenti. Ad esempio mi accorsi che il seitan, essendo costituito praticamente da glutine puro – la proteina del frumento – non fornisce tutti gli aminoacidi necessari alla corretta alimentazione umana, e che occorre integrarlo con legumi o cereali, in particolare segale. Ecco perché molte ricette presenti in rete lo abbinavano ai piselli.
Del tutto prematura quindi una condanna, anche perchè, approfondendo l’argomento con l’aiuto di Segrè, scoprivo che in realtà nell’equazione relativa al modello alimentare del mondo industrializzato entrava pure un sovraconsumo di acqua dovuto al suo largo impiego nell’allevamento di animali da macello. In altre parole, quando parliamo di consumi di acqua, non teniamo conto di quella che “mangiamo” letteralmente! Per produrre una bistecca di carne rossa di 200g si consumano circa 3.000 litri di acqua tra l’allevamento dell’animale e la produzione del foraggio per la sua alimentazione. Ogni giorno, in una dieta carnivora, “mangiamo” così 3.800 litri di acqua, mentre per un vegetariano il consumo è di “soli” 2.300 litri (Andrea Segrè, il libro blu dello spreco in Italia: l’acqua Edizioni Ambiente, Milano, 2012). Un argomento da trattare assolutamente in un prossimo incontro-intervista con Segrè.
Insomma la partita è ancora aperta, ma una cosa è certa, se vogliono avere successo, anche i reducetariani dovranno cambiare : il nome!
Lo spezzatino vegano, quello reducetariano e l’acqua che si mangia (prima parte)
Leggendo, per principiar d’istruirmi nel merito dell’impatto dei nostri costumi sul pianeta, il volume “Vivere a spreco zero”[ed. Marsilio, Venezia, 2013] di Andrea Segrè, direttore del Dipartimento di scienze agro-alimentari dell’università di Bologna, trovavo conferma dell’ormai accettato teorema per il quale il modello di consumo di carne delle nostre società cosiddette “avanzate”, legato all’allevamento intensivo su larga scala, sarebbe alquanto inefficiente in termini di utilizzo delle (scarse) risorse naturali.
Cosa fare, dunque? Smettere di mangiare carne, come da anni preconizzano vegetariani e vegani? Occorrebbe quindi sostituire le proteine animali con quelle di origine vegetale. E’ un cambiamento piuttosto radicale, che modificherebbe non di poco le nostre comode abitudini, e siccome siamo quello che mangiamo, qui c’è il rischio di rinunciare per sempre alla nostra identità. Che dire poi della tradizione, della cultura, oltre ad alcuni aspetti dell’economia rurale?
Ma sono curioso e voglio provare, sulla mia pelle ed in modo totalmente empirico, l’effetto che fa cucinare e mangiare uno spezzatino vegano. Sono tentato di recarmi in un ristorante vegano e sperimentare lì questo tipo di cibo, ma non sarebbe veritiero. Troppo facile farselo acquistare e cucinare da un cuoco vegano esperto, questo blog parla di esperimento reale, il più vicino possibile a quello che faremmo tutti, inclusi gli sbagli e le ingenuità, se decidessimo di optare per l’una o per l’altra dieta alimentare.
Da profano mi ritrovo quindi nel mio supermercato. Avevo già notato gli scaffali dedicati ai cibi bio, vegetariani, naturali e quant’altro di alternativo e “buono”. Andando a casaccio acquisto del seitan, che dalla foto sulla confezione ha un bell’aspetto carnoso. Tornato a casa, non senza aver sborsato ben 17 euro e cinquanta centisimi per un chilo di finta carne, mi informo sul mio acquisto. Scopro così, grazie alla rete, che il seitan è un derivato del glutine, e contiene inoltre della soia, del sale e dell’alga kombu che contribuiscono a donargli sapore. Bene. Qui ci sarebbe la questione dei celiaci, ma approfondiremo in un’altra occasione. Ora si tratta di cucinare e provare, finalmente, il mio prezioso seitan.
Sempre dalla rete intuisco che il metodo di cottura è più o meno simile a quello della carne, con tempi molto ridotti. In pratica il seitan è già cotto. Numerose, sul web, le ricette di spezzatino. Decido di optare per uno spezzatino classico con patate. Più tardi scorprirò perchè tutte le ricette me lo propinavano invece coi piselli. Realizzato un profumato soffritto in olio extravergine con cipolla e carota, univo il seitan – spezzato a mano come preconizzava l’utente-esperto di un forum che sembrava saperla lunga – e lo lasciavo insaporire per qualche minuto. Sfumavo poi con un po’ di vino, e aggiungevo mezza scatola di pelati di ottima marca, qualche rametto di rosmarino e una foglia d’alloro, finendo di coprire il mo spezzatino con poco brodo rigorosamente vegetale. Lasciavo così sobbollire per una ventina di minuti secondo i consigli dei vari blogger. Verso fine cottura univo alcune patate a pezzettoni, già cotte a vapore, aggiustavo di sale e pepe e portavo trionfalmente in tavola. (continua)