Archivio mensile:febbraio 2015

Le regard des autres, ovvero l’inevitabile, impietoso giudizio degli altri

Prova scarpe per il prossimo ritorno in palestra
Prova scarpe per il prossimo ritorno in palestra

Da dimagritore pluri-recidivo ho acquisito una certa esperienza dei complicati meccanismi dell’animo umano in materia di diete. Uno degli aspetti certamente sottovalutati dai dietisti novelli è quello che io chiamo “le regard des autres”, ovvero il peso dello sguardo e del giudizio altrui, quest’ultimo costantemente espresso in forma ironica e scherzosa. “I grassoni fanno ridere, sono simpatici e bonaccioni, non c’è nulla di male a scherzare con loro”, è il luogo comune dietro a questi continui attacchi, anche se rivolti involontariamente e allegramente.

Tutto parte dal comune sentire che se uno è grasso è colpa sua, esclusi rari casi di conclamati scompensi ormonali. Quindi “te la sei cercata, non ti lamentare troppo di esser preso in giro, c’è poco da far la vittima!”. Il grassone è dunque piagnone, pigro, incostante, non ha carattere né volontà, non ha amor proprio. In una parola è “diverso” e “debole”. Ecco, mi son scappati i paroloni! Homo homini lupus, il branco fa in fretta a sbranarti.

Il momento più pericoloso è l’inizio. E’ già difficile personalmente poiché il cammino è tutto in salita: cambiare il proprio modo di mangiare, anche solo nelle quantità, è durissimo; fare attività fisica, per chi non è abituato, è altrettanto duro. I risultati ancora devono venire e sono del tutto invisibili al mondo esterno, e il mondo esterno ignora la durezza della battaglia, il valore delle conquiste, i sacrifici finora compiuti .

Ogni dieta è una specie di guerra personale, fatta di molte battaglie, alcune perse e alcune vinte. Si sa benissimo che è difficile vincere una guerra senza concedere tregue, piccoli momenti di rilassamento per riorganizzare le proprie forze, rinsaldare la propria volontà e poter continuare così l’assedio. Nel corso di una dieta può voler dire concedersi uno strappo, controllato. Così una pizza, una birra o un mezzo bicchiere di vino, diventano subito oggetto di scherno.” Bravo, è così che fai la dieta! Ma chi vuoi prendere in giro!”. E’ avvilente, e non si può nemmeno ingaggiare tenzone verbale, poichè l’avversario possiede l’arma assoluta: “basta guardarti. taci!”. Allo stesso modo e invariabilmente, al momento dei pasti tutti diventano improvvisamente esperti, sulla sola base di una linea migliore di quella del grassone di turno. E vai di consigli, critiche, stroncature alla dieta che si sta cercando si seguire con mille difficoltà. Chiunque è autorizzato a sputare sentenze e pareri autorevoli. Inutile discutere, l’argomento finale lo conosciamo: “ma basta guardarti! taci.”

Ci sono poi i perversi, che non appena gli dici che stai cercando di seguire una dieta, si trasformano in diavoli tentatori e cercano di corromperti con ogni mezzo calorico a disposizione. “Ma dai, perchè non ordini questo bel piatto di lasagne? Che ne dici di un bel tiramisù? Non farai mica storie per una volta, non mi vorrai offendere?”.

Dovendo condividere un pasto con altre persone, ho imparato a dichiarare di soffrire di malattie immaginarie come la “gastrite convulsa” o il “reflusso anastatico”. Molto di moda anche le allergie e le intolleranze: basta solo un accenno e tutti gli “esperti” (chi ne soffre davvero in genere non dice nulla o ne parla in modo sensato, così come chi ne capisce qualcosa) si precipitano nella breccia a far sfoggio della propria abissale ignoranza al grido di “anch’io, anch’io!”. Scampato pericolo, si può quindi ordinare in tutta tranquillità la nostra verdura al vapore e il pesce alla griglia, accompagnati da mezzo calice di buon bianco.

La soluzione? Fare esattamente come dicono loro: smettere di fare la vittima e lamentarsi, perché ci sono delle buone notizie, e un lieto fine. Innanzitutto ci si accorge anche di avere molti amici, che sostengono la propria scelta e la incoraggiano. Spesso sono insospettabili, e ciò fa molto piacere. Si nota poi, man mano che i risultati diventano più visibili, un cambiamento radicale nell’atteggiamento degli altri. Il loro “sguardo” cambia, e testimoniano stima e rispetto.

prima e dopo
Il prima e dopo dell’ultima “impresa”. Lo sguardo, e il giudizio morale, degli altri cambia radicalmente lungo tutto l’arco della trasformazione, tra il 2004 e il 2006. Tra la prima e la seconda fotografia ci sono 100kg di differenza.

Stranamente siamo passati da deboli e senza volontà a determinati e virtuosi, ma noi siamo rimasti esattamente gli stessi.  Ora sono di nuovo all’inizio, anche se il percorso è più breve, ma so che pure la percezione di questo stesso post cambierà da qui a qualche mese. E’ una sensazione strana, ma ci si può abituare. Lo so bene, per averlo provato sulla mia pelle. Più volte.

Con lo scarto della spremuta, la marmellata d’arancia antispreco

marmellata d'arance 1Devo ammetterlo, non ci avevo mai pensato. Solo di recente, con l’apertura di questo blog e una aumentata sensibilità alla sostenibilità alimentare e agli sprechi, mi sono accorto di molti piccoli dettagli della nostra vita quotidiana, parte del nostro modello di consumo post-industriale, che messi in fila acquistano una certa rilevanza.

Così una mattina, tra l’orgoglio gastronomico slow di spremere arance fresche, possibilmente siciliane, per la colazione, e un latente senso di colpa per il possibile impatto del loro trasporto lungo la penisola, mi rendevo conto dell’ingente quantità di scarto prodotto da tale operazione. Normalmente avrei evacuato nell’umido la massa di polpa ancora gocciolante, raschiandola dall’apparecchio, senza pensarci troppo. Ora mi rendevo conto che quella “roba” era ancora perfettamente commestibile. Che spreco! Mi son preso a pesarla: per ogni arancia dai 30 ai 35g! Per le nostre tre spremute di due arance ciascuna, stavamo producendo ben 200g di scarto, e questo senza contare le bucce.

marmellata d'arance 3

Quale discendente di illustri confiseur e pasticceri, non potevo non provare a ridare una nuova vita gastronomica a quell’avanzo di fibre, acqua e fruttosio. Avrei provato a farne marmellata, avendone ricevuto i rudimenti in tenera età, tra i calderoni di rame dei laboratori della celebre Maison Domérégo di Nizza, e per aver osservato più tardi mia zia Micheline  confezionarla specialmente per me con arance amare.

Il procedimento che ho seguito è dei più semplici: dopo aver pesato la quantità di materia prima, ho aggiunto la metà del suo peso in zucchero. Per lo scarto delle mie sei arance, duecento grammi complessivi , aggiungevo cento grammi di zucchero e un cucchiaino scarso di pectina, circa 4g. Tagliavo quindi a julienne la scorza di mezza arancia, lasciando la parte bianca, per dare l’amaro alla mia marmalade e dotarla così di una personalità decisamente britannica. In un pentolino antiaderente portavo il tutto a ebollizione, e su fiamma viva lasciavo schiumare per tre o quattro minuti, finché all’occhio non garbasse avendo raggiunto un colore lucido e brillante, e non incominciasse ad ispessire. Fumante e ancora un po’ liquida – raffreddando si sarebbe rappresa – la versavo nell’unico vasetto approntato per accoglierla. Quei tre etti e mezzo di ottima marmalade ci sarebbero durati alcuni giorni. Dopo sarebbe stato bastato ripetere la semplice operazione.

marmellata d'arance 5

Com’è venuta? Il colore era di un arancione brillante, intenso e invitante. La consistenza era perfetta, scorrevole e spalmabile pur con la giusta viscosità per restare ben aggrappata alla fetta di pane. Il profumo era intenso e piacevole. Il gusto era un concentrato di arancia, dolce e acidulo, vellutato, con la nota amara delle scorze piacevolmente mordevoli. Insomma, tutto quello che ci si aspetta da una marmalade  delle più titolate. In conclusione e per quanto mi riguarda: marmellata di spremuta adottata! A presto per altre ricette antispreco.

Scarponcini da viaggio, con cravatta

 

Passeggiata Fabriano 3

Durante un recente viaggio di lavoro, mi ero portato dietro i famigerati scarponcini squarciati. Alzandomi un po’ prima sono riuscito a “muovermi” per la campagna marchigiana intorno al mio albergo, con grande soddisfazione. Il tutto senza inficiare sul nutrito programma di lavoro, direi anzi con un certo beneficio sulla tonicità e sul livello di attenzione.

Passeggiata Fabriano

Per chi, come me, tende ad indulgere nell’ozio e a rifuggire da ogni sforzo fisico, le scuse per non “muoversi” sono legioni. Innanzitutto non è mai il momento giusto, vuoi per gli impegni invariabilmente inderogabili, vuoi per lo stress opprimente che impedirebbe di dedicare interamente la nostra mente a questa mistica attività, come se dovessimo sostenere un esame di fisica nucleare. Poi non ci si trova mai nel luogo giusto, o con le giuste condizioni meteo, quasi stessimo organizzando un matrimonio. La verità è che chi è davvero motivato trova sempre una via, nel nostro caso anche un semplice sentiero, mentre gli altri trovano scuse. Nel ribadire il concetto di non aspettare che tutto sia perfetto quando si tratta di compiere il primo passo, mi accorgo che anche in quelli successivi è necessaria una buona dose di motivazione. Quando dedicare un po’ di tempo all’attività fisica? Ora! Dove farlo? Qui!

Il trucco è di prefissarsi degli obiettivi alla nostra portata, facilmente gestibili e che non sconvolgano la nostra vita, perché allora incombe la rinuncia e le comode scuse sorgono spontanee. Occorre anche approfittare delle occasioni che si presentano all’improvviso, operare costantemente delle piccole scelte, come usare le scale anzichè l’ascensore quando si tratta di raggiungere il primo o il secondo piano (poi man mano che si progredisce, si sceglierà di farlo anche per il terzo e il quarto piano). Uscire dalla locanda tre quatri d’ora in anticipo per girarsi la campagna circostante, malgrado il luogo sconosciuto, malgrado la leggera pioggia, malgrado i pensieri di lavoro, malgrado non fosse tutto perfetto, è stata tutto sommato un piccola scelta, facile e gestibile, ma che mi ha permesso di continuare a muovermi. Un piccolo contributo, ma costante, al cambiamento di stile di vita.

Passeggiata Fabriano 1

Nel mio personalissimo cammino verso Expo, uno dei tanti possibili, sono importanti anche questi minuscoli passi, irrilevanti nell’ordine generale delle cose, ma per me vere e proprie micro-conquiste, con la speranza di poter ispirare altri “diversamente sportivi”. La telefonata del mio ufficio stampa, ricevuta in mezzo alla natura e sotto una pioggerellina insistente, è stata poi un’esperienza rivelatrice di quanto i problemi appaiano diversi, meno spaventosi e quasi irrisori, se solo si cambia il contesto e si considerano da una prospettiva leggermente diversa dal solito. Sarà un’impressione, ma le soluzioni sembrano apparire anche più facilmente, come fossero incise nella corteccia dei lecci onnipresenti, o sussurrate dalla brezza pur gelida. Cose già note, ma quando si provano sulla propria pelle fanno tutto un altro effetto!

 

Ho provato: la casetta dell’acqua

Casetta dell'acqua

Uno dei temi centrali della sostenibilità alimentare è proprio quello dell’acqua. Negli ultimi tempi sono spuntate  in ogni cantone della nostra provincia le cosiddette “casette dell’acqua”. Un fenomeno alquanto interessante, poiché accomuna in un unico trend, in decisa ascesa, sia chi vuol semplicemente risparmiare sia coloro che vogliono salvaguardare l’ambiente.  Si risparmia perchè un litro d’acqua  “della casetta” costa solo 5 centesimi, contro un prezzo che oscilla tra i 15 e i 33 centesimi delle acque inbottigliate; si rispetta l’ambiente perché si evita così di utilizzare le tanto vituperate bottiglie di plastica con tutto quello che comportano anche in termini di trasporto e stoccaggio. Ho voluto provare in prima persona.

Carica acqua

Mi attrezzo con un grazioso cestino rosso, €3,  e  6 bottiglie di vetro con quell’irresistibile tappo retrò (tecnicamente “tappo meccanico”), €1,67 cadauna per complessivi €10,02. Un investimento iniziale tutto sommato modesto di €13,02, ma in quanto al risparmio, per ora sono in perdita. Mi reco quindi ad una  casetta che si trova lungo uno dei miei percorsi abituali. Il motivo è che se devo salvaguardare l’ambiente, voglio evitare di dover fare chilometri in macchina solo per procurami l’acqua. La prima impressione è di pulizia, semplicità e razionalità. Facilissimo posizionare la bottiglia senza toccare alcuna parte dell’apparecchio, a garanzia dell’igiene. Ancor più facile inserire i pochi centesimi e scegliere il tipo di acqua desiderata, naturale o frizzante. Tempo totale, compreso i tempi di parcheggio e “ripartenza dai box”, per il rifornimento del mio cestino, tre minuti e mezzo. Questa fase mi ha decisamente convinto. Me ne torno quindi a casa col prezioso malloppo per la prova con le mie cavie.

 

cassetta acqua

 

Come si testa un’acqua minerale? Girando in rete scopro sul sito di un noto mensile femminile un gioiellino di articoletto nel quale lo chef  televisivo Simone Rugiati veste i panni dell’ “idrosommelier” e spiega, molto seriamente, come degustare l’acqua. Si tratta, nell’ordine, di versare – facile, ce la possiamo fare – e osservare il liquido verticalmente e orizzontalmente per individuare eventuali corpi estranei. Non avendola pescata in un acquitrino non mi sorprendo nel costatare l’assenza di intrusi. Si passa poi ad un primo assaggio, d’impeto, per verificarne la freschezza. Ok, mi pare fresca, anzi, freschissima! Si tratta poi di berne un altro sorso di esattamente 15ml – non posso garantire, vista anche la mia “cilindrata” – e mantenerlo in bocca sulla lingua, ad occhi chiusi (facile), per poi far scivolare l’acqua verso il fondo del palato e deglutire. Naturalmente soffoco e mi strozzo, e devo ripetere l’operazione. Stavolta riesco a percepire sapidità e acidità. Sta funzionando. Ripeto di nuovo, aspirando anche un po’ d’aria. Decisamente piacevole e sicuramente meglio dell’acqua in bottiglia di plastica che compro abitualmente!! L’acqua della casetta è PIU’ BUONA di quella che bevo normalmente. Solo per questo la comprerei ad un prezzo più elevato, ma addirittura la sto pagando quasi sette volte meno.

Facendo due conti, stabilisco che nel mio caso particolare andrei in pari dopo circa 45 litri, cioè un paio di settimane, visto il consumo quotidiano di circa tre litri. Dopodiché risparmierei la cifra non indifferente di €25 al mese, ovvero €300 annuali.  Mica male, soprattutto se l’acqua è più buona. Ma è anche sicura?

Mi documento. Funziona così: le casette sono collegate alla rete idrica del comune di pertinenza, quindi è l’acqua dell’acquedotto, già controllata con standard igienico-sanitari molto elevati. Viene poi microfiltrata, sterilizzata agli ultravioletti e infine viene rimosso il cloro che potrebbe contenere. Si può concludere ragionevolmente che quest’acqua è più che sicura.  In sostanza è la versione pubblica di quegli apparecchi che si possono installare anche in casa propria. Praticamente sto comprando acqua del rubinetto,  ma col servizio aggiuntivo di un ulteriore trattatamento, refrigerazione e gasificazione.

Carica acqua 1

Per quanto riguarda, gusto, sicurezza e risparmio, ci siamo. Ma l’impatto sull’ambiente? Utilizzo i dati diffusi dall’Osservatorio Rifiuti della Provincia di Varese, ripresi da numerosi mezzi d’informazione, per fare un calcolo della mia “impronta” personale: con i miei 90 litri mensili, evito l’utilizzo di ben 60 bottiglie di plastica da 1,5 lt, per un peso complessivo di 2,4 kg di PET; per produrli si sarebero impiegati 4,81 kg di petrolio e altri 42 lt d’acqua, con l’emissione di 5,53 kg di CO2 e 60g di NOx . Tutto questo in un mese e per un solo nucleo familiare! C’è da dire anche che con la raccolta differenziata, il PET viene riciclato, attutendo l’impatto sull’ambiente, ma tutto sommato l’esperienza si è rivelata più che positiva.

In conclusione, semaforo verde – è il caso di dirlo! – su gusto, risparmio e ambiente. Tre ottimi motivi per cambiare, e per quanto mi riguarda: Casetta dell’acqua adottata!

 

 

Itinerario n.2: San Clemente di Sangiano

conquista S Clemente

Dopo l’epico esordio nel bel mezzo di una battuta al cinghiale (qui il link al post) mi sentivo pronto e carico per una seconda avventura pedestre. Decidevo di cimentarmi in un percorso un po’ più impegnativo, anche se non particolarmente lungo: dal Picuz di Sangiano fino alla chiesetta di San Clemente, in cima al monte (sempre di Sangiano). Quasi 2 km di sterrato con una ripidissima salita finale di ben 300 mt. Gli scarponcini della misura giusta ancora non erano arrivati, ma decisi di farmene una ragione e, come la prima volta, non mi lasciai scoraggiare, pregustando la meraviglia di conquistare quell’affaccio mozzafiato sul lago Maggiore e sui monti circostanti.

mappa S Clemente

E mozzafiato fu, in tutti i sensi, quella via crucis redentrice di ogni peccato gastronomico, ultimo, tremendissimo ostacolo prima di accedere allo straordinario spettacolo di un panorama senza eguali. Il lago di un azzurro intenso, incastonato tra i monti innevati, sotto un cielo terso e benevolo, si offriva a me in tutta la sua maestosità a premiare il mio sacrificio di qualche litro di sudore e un paio di polmoni ancora servibili.

San Clemente1

Infilata la via Monte Nero, a fianco del Municipo di Sangiano, e dopo lo sterrato che dal bivio del Picuz porta all’abitato di San Clemente, inizia la salita vera e propria, punteggiata dalle stazioni lignee della via crucis (qui maggiori dettagli sull’itinerario). Distrattamente guardai le prime tre o quattro cappelle, poi quando la salita si fece più dura cominciai a scrutare con attenzione i bassorilievi per cercare di capire quanto ancora mancasse alla meta.  “Ma quante sono le stazioni della via crucis?” Tentavo disperatamente di riordinare i ricordi da chierichetto, che si facevano sempre più confusi, colpa  forse del debito d’ossigeno.

Via crucis S Clemente

L’erta finale era micidiale. In preda allo sconforto, e a un pizzico di ipoglicemia, presi a commiserarmi per il peso della mia croce. “La Sua era di certo ben più pesante” pensai, e mi vergognai.  In quel momento preciso mi parve però di sentire un sollievo, di colpo ero più leggero, come se qualcuno mi avesse preso sottobraccio per accompagnarmi negli ultimi metri, ma non potrei giurarlo.

San Clemente2

La bellezza della natura e dell’ingegno umano sono un potentissimo rimedio contro ogni male dell’anima e del fisico, e l’umile chiesetta del nono secolo, già contesa tra le diocesi di Como e di Milano, oggetto di risse memorabili tra chierici e fedeli delle due fazioni, con la sua cornice di laghi e di montagne, ebbe ben presto ragione del mio affanno. Il gioco ne valse sicuramente la candela, e la soddisfazione dell’aver spostato, anche se di poco, il mio limite, arricchiva il premio di cui già mi riempivo gli occhi.

Chissà dove potrò arrivare con le mie scarpe nuove? Non perdetevi le prossime puntate.

San Clemente

 

Potato skins, croccanti bucce antispreco

Potato skins

Nel suo libro “cucinare senza sprechi” (Ponte Alle Grazie, Milano, 2012), Andrea Segrè “ci spiega con competenza e dovizia di argomenti che ridurre gli sprechi in cucina, a tavola e prima ancora facendo la spesa, è un atteggiamento vantaggioso e insieme responsabile, un modo per guardare al cibo come risultato e parte di un processo globale che coinvolge il suolo, l’acqua, le risorse energetiche e quelle umane, e rispettarlo come si faceva nelle cucine dei nostri nonni. Dove i torsoli di pera e il pane raffermo, i noccioli di prugna e gli ossi della carne erano ingredienti a pieno titolo, e non andavano sprecati”.  Si calcola che ogni anno nel mondo si sprechi all’incirca un miliardo e trecento milioni di tonnellate di cibo. In pratica un terzo del cibo che acquistiamo finisce nel pattume. Voglio provare a cambiare una cosa, piccola, minima, irrisoria, ma se siamo in tanti a farla – appunto perché è facile e minima – forse un qualche effetto lo si sortisce. Se IO non inizio a fare qualcosa in modo diverso, NIENTE potrà mai cambiare.

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Leggendo il volumetto scopro quale insospettata risorsa culinaria si celi in quel che banalmente definiremmo “scarto”. Ad esempio le bucce delle verdure, che regolarmente finiscono “nell’umido” possono anelare a nuova vita gastronomica, non meno dignitosa di quella degli ortaggi che rivestivano.

L’occasione mi si presenta subito, con le patate saltate in padella che acompagnano una costata di fassona piemontese a filiera corta. Naturalmente le servo “glabre” com’è mia consuetudine, ma stavolta ne conservo le bucce anziché consegnatrle alla pattumiera. Il giorno appresso realizzo una semplice pastella morbida con farina e acqua, vi ci passo le bucce e le friggo senza ulteriori cerimonie. Non proprio una ricettina dietetica, ma di certo dal nulla è saltato fuori un contorno, o un aperitivo, originale e davvero appagante. Più ricche di gusto delle semplici patate (molti degli elementi nutritivi si trovano proprio nella buccia), sono anche più croccanti. Se proprio non vogliamo chiamarle bucce di patate, usiamo il loro nome americano “potato skins” per nobilitarle al momento di propinarle alle nostre ignare cavie. Con me a ha funzionato alla grande. A presto per altre ricette antispreco testate personalmente.