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Di cinte, buchi e kilometri elastici

Expo USA
(Foto Floriane Vial)

Siamo a metà del guado, nel pieno di un’Expo che, se ha smentito alla grande le polemiche pre-apertura sulla presunta incompiutezza dei lavori, è ora alle prese con l’accusa ben più grave di assomigliare ad una kermesse mondiale dell’abbuffata etnica, nella quale è andato perduto il nobile tema originale: quello di trovare, tutti insieme, una soluzione sostenibile per nutrire il nostro pianeta. Leggendo quanto appare su giornali, blog e pagine facebook di esperti del settore, sembra ci siamo ridotti al concetto di quei tanti mercatini di prodotti regionali a kilometro zero, o ai tanto-di-moda street food festival che stanno spuntando ovunque come funghi . Parlando poi di kilometro zero, il concetto si è di molto “elasticizzato” come mi spiegava, quasi scocciato, il promotore di una di queste sagre della caloria di nicchia, davanti alla mia sorpresa di vedermi proporre pomodorini siciliani, miele altoatesino e salumi calabri. “Kilometro zero significa prodotto in modo naturale e tradizionale, è un concetto, una filosofia, non va preso alla lettera”. Sarà, ma credo comunque che sostenere le produzioni veramente locali incoraggiando un consumo altrettanto locale può avere molti risvolti positivi e aprire nuove, insospettate prospettive.

farmers' market whirlpool
Farmers Market a Km zero “reale” in azienda come attenzione verso il territorio e i dipendenti

Tornando a noi devo confessare che ancora non sono riuscito ad andarci, a Rho, per raccontare la “mia” Expo. Lo farò, spero presto, e magari dovrò ricredermi e scrivere di quanto si stia lavorando per risolvere la questione degli sprechi e della fame nel mondo, di accordi raggiunti tra gli stati per imbastire programmi comuni di ricerca. Io ci credo ancora. Nel frattempo continuo la mia personalissima battaglia per la mia “decrescita fisica” e per il raggiungimento di uno stile di vita e di consumo più sostenibile. Ho deciso di non valutare i miei eventuali progressi solamente in kilogrammi, ma anche e soprattutto in “buchi della cintura” e nel riflesso impietoso dello “sguardo altrui”. Per quanto riguarda il primo parametro, devo annunciare con orgoglio di aver praticato il quarto buco aggiuntivo alla mia cintura.  Per lo “sguardo altrui” siamo ancora in alto mare, devo ancora fare i conti con la sindrome del ciccione pacioccone. Ho difatto eliminato dalle mie frequentazioni ben due ristoranti dell’area Varese-laghi per le confidenze che alcuni camerieri, viste le mie rotondità, pensavano di potersi prendere, pur senza conoscermi: battute fuori luogo, palpate di pancia (!!) e “appoggio” comodo sulla spalla mentre si prende l’ordinazione. Una maleducazione che non oserebbero usare a nessuno, se non fossero convinti dell’innocuità degli oversize. Ci sono ancora molti pregiudizi, anche sul posto di lavoro – si legga in proposito l’ottimo articolo di Cristina Rubani sul “peso del pregiudizio” – che si supereranno solo quando si smetterà di credere che le persone sovrappeso lo sono per pigrizia, debolezza o mancanza di volontà.

cintura

Non ci sono ricette infallibili e ognuno sceglie la via più adatta a se. Il mio nuovo modello di stile di vita vuole essere più attivo, oltre che di minor consumo, quindi l’esercizio fisico è indispensabile. Ammiro molto chi come il direttore di Varesenew, Marco Giovannelli, può esprimere questa scelta attraverso imprese fisico-culturali (leggi qui il suo bellissimo blog sulla via francigena) esaltanti. Purtroppo la mia via è più oscura e statica, fatta di quotidiana e quasi ossessiva ripetizione, che ho simboleggiato nei selfie giornalieri in sella alla cyclette, con la stessa identica inquadratura a rappresentare la noia del ricominciare ancora e sempre e della consapevolezza di non giungere ad alcuna meta reale, rimanendo fermo nell’afa infernale di quel seminterrato. Anche, e soprattutto questo, fa parte della “decrescita” personale, ed è l’ostacolo più duro da superare.

Cyclette gallery

Ogni scatto è apparentemente uguale all’altro, salvo impercettibili dettagli, a dar la misura della sensazione di inutilità dell’impresa e dell’angoscia di trovarsi in un loop spazio-temporale che ricorda “il giorno della marmotta”, il film con Bill Murray che vede il protagonista rivivere all’infinito la stessa giornata. Alla fine del film, però, il personaggio ha fatto invece enormi progressi sul piano personale, così come tra il primo e l’ultimo scatto della serie qui sopra ci sono quasi dieci chili di differenza. Anche questa è la “mia” Expo, sulla mia pelle (sudata), e continuerò a raccontarla nei prossimi post, speriamo direttamente dal Decumano!

Total recycle: la polpetta di ceci antispreco, su crema di broccoli

polpette di ceci su crema di broccoli

Polpette di ceci su crema di gambi di broccoli. L’avanzo di un contorno di ceci, lo scarto dei broccoli, gambi e foglie. “La totale” antispreco. Queste polpette sono quanto di più facile da realizzare. Ho usato gli avanzi di un contorno di ceci, passandoli semplicemente al tritacarne, insieme a un po’ di pane raffermo, anch’esso un avanzo, uno spicchio d’aglio e qualche pezzetto di crosta di grana. Si mescola poi per bene, insieme a un uovo e un sorso di latte. Se si ha si può aggiungere un po’ di tahina, pasta di sesamo, per un tocco decisamente mediorientale. Sale, pepe, spezie, e si formano delle palline, che si passano infine nel pangrattato, sempre di recupero. I ceci sono già cotti, sicché basta preoccuparsi solo della rosolatura esterna. La crema sulla quale sono adagiati è realizzata con la parte di scarto dei broccoli. Ho messo foglie e gambi a bollire in poca acqua finché sono diventati morbidi. Il mixer a immersione ha trasformato il tutto in crema. Una noce di burro, un po’ di latte per aggiustare la densità, sale e pepe e il gioco è fatto. Si può consumare anche da sola, è alquanto soddisfacente. Per la presentazione un mestolo di crema sul fondo del piatto, e le polpette semplicemente adagiate. Facile, ad effetto, vegetariano, antispreco. Omettendo latte, burro e formaggio, sostituiti da un filo di extravergine, il piatto diventa addirittura vegano. Per non farsi sradicare da tanto esotismo new agevi ho abbinato  un molto terreno lambrusco delle Terre Verdiane con i piedi ben piantati nella grassa e benedetta terra emiliana. A presto per altre ricette antispreco.

Due domande a: Andrea Segré, il professore antispreco

Intervista Segré 3

Paladino antispreco, il mediatico accademico bolognese Andrea Segrè ha portato il tema della sostenibilità alimentare all’attenzione del grande pubblico. E’ riconosciuto come uno dei massimi esperti europei in questo campo. Giocando sulla sua telegenicità, sul pregiudizio favorevole verso il buonsenso alimentare della città del Petronio e sull’autorevolezza del cattedratico ( è direttore del Dipartimento di scienze agro-alimentari dell’università di Bologna), Segrè è riuscito a conquistarsi le attenzioni non solo dei media, ma anche di alcuni partner istrituzionali e privati che partecipano alle sue numerose iniziative, tra cui Last Minute Market – un’organizzazione che recupera e ridistribuisce alimentari in scadenza – e Un Anno Contro Lo Spreco, la campagna europea di sensibilizzazione ai temi dello spreco.

E’ instancabile, entusiasta, carismatico, dall’energia contagiosa, sembra non arrendersi mai. Un vulcano di idee che sfociano in mille iniziative. I suoi collaboratori faticano a stargli dietro. Nel documentario “Zero Impact, viaggio nella sostenibilità alimentare” (qui il link ), realizzato per conto di Whirlpool, lo intervisto su questo argomento. E’ gentile e disponibile malgrado una tabella di marcia da rockstar in tournée, e trova anche il tempo di parlare di cucina bolognese tra una ripresa e l’altra.

1. La sostenibilità alimentare è davvero la sfida futura del nostro pianeta?

Più che una sfida del futuro, la sostenibilità deve essere una sfida del presente. Stiamo usando molto male le risorse naturali che abbiamo a disposizione: il suolo, l’acqua, l’energia, solo per dire quelle che riguardano il cibo. Dentro il cibo c’è del valore, quando lo getti via è come se lo rottamassi, come se fosse una qualsiasi altra merce che devi sostituire, e magari è ancora buona. Quindi questa perdita di valore, di consapevolezza, anche di responsabilità, ti porta a considerare tutto uguale, e perdi dei punti di riferimento perché per esempio dentro il cibo non solo c’è il valore nutrizionale, ma c’è anche il nostro suolo, altra risorsa scarsa che consumiamo in modo esagerato, c’è la nostra cultura, ci son le tradizioni, c’è il gusto, la conviviavilità, il paesaggio, il reddito degli agricoltori che ci dimentichiamo – sarebbero poi loro che producono – ma anche quello di chi produce mezzi per rendere la nostra alimentazione sostenibile, in primis la conservazione: il frigorifero, questo sconosciuto.

Intervista Segré 1

Del perché il professore parla del frigorifero come di uno sconosciuto tratteremo in un prossimo post. In effetti non sappiamo usarlo nel modo migliore e buona parte del cibo che buttiamo è dovuto alla nostra cattiva gestione di questo elettrodomestico, e un terzo di quello che acquistiamo finisce nel pattume. Possiamo permetterci di andare avanti così? Quali le conseguenze se facessimo finta di niente?

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2. Cosa succederebbe se non facessimo nulla, quale sarebbe il costo sociale?

Il costo sociale sarebbe molto, molto alto perché noi con questo modello alimentare e con queste economie in crisi – e c’è un collegamento di fatto – perdendo il cibo il suo valore, lo paghiamo con costi diversi. Il cibo deve tornare al centro del mondo, perché ne abbiamo bisogno per stare meglio tutti, per abbassare i costi sociali ed anche quelli ambientali ed economici.

La cultura sembra quindi avere un ruolo importante in questo frangente, dopo tutto il cibo è cultura e gli italiani lo sanno meglio di tutti. La questione della sostenibilità è una sfida globale che deve essere affrontata a tutti i livelli: dalle istituzioni come dall’industria, dagli accademici che devono guidare la ricerca ed educare, e soprattutto da ognuno di noi individualmente.

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Tornerò a Bologna per approfondire la questione insieme al professore, magari passeggiando sotto i portici o seduti in una rassicurante e tradizionale osteria, simbolo di quel buonsenso perduto, nemico degli degli sprechi. Appunto. A presto per un nuovo incontro con Andrea Segré.

Con lo scarto della spremuta, la marmellata d’arancia antispreco

marmellata d'arance 1Devo ammetterlo, non ci avevo mai pensato. Solo di recente, con l’apertura di questo blog e una aumentata sensibilità alla sostenibilità alimentare e agli sprechi, mi sono accorto di molti piccoli dettagli della nostra vita quotidiana, parte del nostro modello di consumo post-industriale, che messi in fila acquistano una certa rilevanza.

Così una mattina, tra l’orgoglio gastronomico slow di spremere arance fresche, possibilmente siciliane, per la colazione, e un latente senso di colpa per il possibile impatto del loro trasporto lungo la penisola, mi rendevo conto dell’ingente quantità di scarto prodotto da tale operazione. Normalmente avrei evacuato nell’umido la massa di polpa ancora gocciolante, raschiandola dall’apparecchio, senza pensarci troppo. Ora mi rendevo conto che quella “roba” era ancora perfettamente commestibile. Che spreco! Mi son preso a pesarla: per ogni arancia dai 30 ai 35g! Per le nostre tre spremute di due arance ciascuna, stavamo producendo ben 200g di scarto, e questo senza contare le bucce.

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Quale discendente di illustri confiseur e pasticceri, non potevo non provare a ridare una nuova vita gastronomica a quell’avanzo di fibre, acqua e fruttosio. Avrei provato a farne marmellata, avendone ricevuto i rudimenti in tenera età, tra i calderoni di rame dei laboratori della celebre Maison Domérégo di Nizza, e per aver osservato più tardi mia zia Micheline  confezionarla specialmente per me con arance amare.

Il procedimento che ho seguito è dei più semplici: dopo aver pesato la quantità di materia prima, ho aggiunto la metà del suo peso in zucchero. Per lo scarto delle mie sei arance, duecento grammi complessivi , aggiungevo cento grammi di zucchero e un cucchiaino scarso di pectina, circa 4g. Tagliavo quindi a julienne la scorza di mezza arancia, lasciando la parte bianca, per dare l’amaro alla mia marmalade e dotarla così di una personalità decisamente britannica. In un pentolino antiaderente portavo il tutto a ebollizione, e su fiamma viva lasciavo schiumare per tre o quattro minuti, finché all’occhio non garbasse avendo raggiunto un colore lucido e brillante, e non incominciasse ad ispessire. Fumante e ancora un po’ liquida – raffreddando si sarebbe rappresa – la versavo nell’unico vasetto approntato per accoglierla. Quei tre etti e mezzo di ottima marmalade ci sarebbero durati alcuni giorni. Dopo sarebbe stato bastato ripetere la semplice operazione.

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Com’è venuta? Il colore era di un arancione brillante, intenso e invitante. La consistenza era perfetta, scorrevole e spalmabile pur con la giusta viscosità per restare ben aggrappata alla fetta di pane. Il profumo era intenso e piacevole. Il gusto era un concentrato di arancia, dolce e acidulo, vellutato, con la nota amara delle scorze piacevolmente mordevoli. Insomma, tutto quello che ci si aspetta da una marmalade  delle più titolate. In conclusione e per quanto mi riguarda: marmellata di spremuta adottata! A presto per altre ricette antispreco.

Ho provato: la casetta dell’acqua

Casetta dell'acqua

Uno dei temi centrali della sostenibilità alimentare è proprio quello dell’acqua. Negli ultimi tempi sono spuntate  in ogni cantone della nostra provincia le cosiddette “casette dell’acqua”. Un fenomeno alquanto interessante, poiché accomuna in un unico trend, in decisa ascesa, sia chi vuol semplicemente risparmiare sia coloro che vogliono salvaguardare l’ambiente.  Si risparmia perchè un litro d’acqua  “della casetta” costa solo 5 centesimi, contro un prezzo che oscilla tra i 15 e i 33 centesimi delle acque inbottigliate; si rispetta l’ambiente perché si evita così di utilizzare le tanto vituperate bottiglie di plastica con tutto quello che comportano anche in termini di trasporto e stoccaggio. Ho voluto provare in prima persona.

Carica acqua

Mi attrezzo con un grazioso cestino rosso, €3,  e  6 bottiglie di vetro con quell’irresistibile tappo retrò (tecnicamente “tappo meccanico”), €1,67 cadauna per complessivi €10,02. Un investimento iniziale tutto sommato modesto di €13,02, ma in quanto al risparmio, per ora sono in perdita. Mi reco quindi ad una  casetta che si trova lungo uno dei miei percorsi abituali. Il motivo è che se devo salvaguardare l’ambiente, voglio evitare di dover fare chilometri in macchina solo per procurami l’acqua. La prima impressione è di pulizia, semplicità e razionalità. Facilissimo posizionare la bottiglia senza toccare alcuna parte dell’apparecchio, a garanzia dell’igiene. Ancor più facile inserire i pochi centesimi e scegliere il tipo di acqua desiderata, naturale o frizzante. Tempo totale, compreso i tempi di parcheggio e “ripartenza dai box”, per il rifornimento del mio cestino, tre minuti e mezzo. Questa fase mi ha decisamente convinto. Me ne torno quindi a casa col prezioso malloppo per la prova con le mie cavie.

 

cassetta acqua

 

Come si testa un’acqua minerale? Girando in rete scopro sul sito di un noto mensile femminile un gioiellino di articoletto nel quale lo chef  televisivo Simone Rugiati veste i panni dell’ “idrosommelier” e spiega, molto seriamente, come degustare l’acqua. Si tratta, nell’ordine, di versare – facile, ce la possiamo fare – e osservare il liquido verticalmente e orizzontalmente per individuare eventuali corpi estranei. Non avendola pescata in un acquitrino non mi sorprendo nel costatare l’assenza di intrusi. Si passa poi ad un primo assaggio, d’impeto, per verificarne la freschezza. Ok, mi pare fresca, anzi, freschissima! Si tratta poi di berne un altro sorso di esattamente 15ml – non posso garantire, vista anche la mia “cilindrata” – e mantenerlo in bocca sulla lingua, ad occhi chiusi (facile), per poi far scivolare l’acqua verso il fondo del palato e deglutire. Naturalmente soffoco e mi strozzo, e devo ripetere l’operazione. Stavolta riesco a percepire sapidità e acidità. Sta funzionando. Ripeto di nuovo, aspirando anche un po’ d’aria. Decisamente piacevole e sicuramente meglio dell’acqua in bottiglia di plastica che compro abitualmente!! L’acqua della casetta è PIU’ BUONA di quella che bevo normalmente. Solo per questo la comprerei ad un prezzo più elevato, ma addirittura la sto pagando quasi sette volte meno.

Facendo due conti, stabilisco che nel mio caso particolare andrei in pari dopo circa 45 litri, cioè un paio di settimane, visto il consumo quotidiano di circa tre litri. Dopodiché risparmierei la cifra non indifferente di €25 al mese, ovvero €300 annuali.  Mica male, soprattutto se l’acqua è più buona. Ma è anche sicura?

Mi documento. Funziona così: le casette sono collegate alla rete idrica del comune di pertinenza, quindi è l’acqua dell’acquedotto, già controllata con standard igienico-sanitari molto elevati. Viene poi microfiltrata, sterilizzata agli ultravioletti e infine viene rimosso il cloro che potrebbe contenere. Si può concludere ragionevolmente che quest’acqua è più che sicura.  In sostanza è la versione pubblica di quegli apparecchi che si possono installare anche in casa propria. Praticamente sto comprando acqua del rubinetto,  ma col servizio aggiuntivo di un ulteriore trattatamento, refrigerazione e gasificazione.

Carica acqua 1

Per quanto riguarda, gusto, sicurezza e risparmio, ci siamo. Ma l’impatto sull’ambiente? Utilizzo i dati diffusi dall’Osservatorio Rifiuti della Provincia di Varese, ripresi da numerosi mezzi d’informazione, per fare un calcolo della mia “impronta” personale: con i miei 90 litri mensili, evito l’utilizzo di ben 60 bottiglie di plastica da 1,5 lt, per un peso complessivo di 2,4 kg di PET; per produrli si sarebero impiegati 4,81 kg di petrolio e altri 42 lt d’acqua, con l’emissione di 5,53 kg di CO2 e 60g di NOx . Tutto questo in un mese e per un solo nucleo familiare! C’è da dire anche che con la raccolta differenziata, il PET viene riciclato, attutendo l’impatto sull’ambiente, ma tutto sommato l’esperienza si è rivelata più che positiva.

In conclusione, semaforo verde – è il caso di dirlo! – su gusto, risparmio e ambiente. Tre ottimi motivi per cambiare, e per quanto mi riguarda: Casetta dell’acqua adottata!

 

 

Lo spezzatino vegano, quello reducetariano e l’acqua che si mangia (seconda parte)

stufato di sanato piemonteseL’aspetto dello spezzatino di seitan era davvero invitante, e il profumo carico di promesse gustative. Arpionavo una patata con la forchetta e ci scarpettavo un po’ di sugo a guisa di preliminare. Ottimo, sapido e stuzzicante. Senza ulteriori indugi puntavo allora un bocconcino, e lo addentavo.

Il primo impatto sulla lingua, mediato dal manto di sugo che subito si diffuse all’interno della bocca, fu piacevole, ma la successiva sensazione di aver ingollato un pezzo di caucciù mi colse impreparato. Preso dal panico lavoravo di mascella e saliva e riuscivo a macinare il boccone in un più deglutibile, si fa per dire, pugnetto di calcestruzzo. Mezzo bicchiere di Chateau De Fiates, chiamato d’urgenza a soccorso, sbloccava la situazione. “Perché non lo testiamo anche sui cani?” mi chiese perfidamente una delle mie cavie umane, passando un boccone all’incolpevole cagnetta Milla che però sembrò soddisfarsene. Il confronto immediatamente successivo con lo spezzatino tradizionale di sanato piemontese segnò la Caporetto, almeno in quella sede, della versione vegana.

Potevamo ora passare alla seconda fase dell’esperimento, lo spezzatino reducetariano. Il termine reducetarianesimo (dal verbo to reduce, ridurre), inventato dallo statunitense Brian Kateman,  è forse il peggior nome che si potesse trovare per definire una corrente di pensiero sostenibile che in verità riunisce sotto una singola denominzazione schiere di indecisi, edonisti gastronomici, shabby-chic e foodies. In sostanza sta nel mezzo, riconoscendo la non percorribilità della strada attuale del consumismo sfrenato, e senza arrivare ad eliminare del tutto la carne, si propone di ridurne semplicemente il consumo. Si evita così di allontanarsi troppo dalla propria identità culturale, legata alla nostra alimentazione. Si basa su tre principi, facilmente comprensibili da tutti:

  1. Un minor consumo di carne, in termini generali, è benefico per la nostra salute. Il mondo scientifico e la medicina concordano su questo punto.
  2. E’ facile. I reducetariani si prefissano degli obiettivi gestibili e raggiungibili. Ricordiamo che anche un piccolo miglioramento compiuto da molti può cambiare le cose.
  3. E’ moralmente buono, evitando la sofferenza e il sacrificio di molti esseri viventi.

In un certo senso, questa filosofia non è in contradizione con le tesi avanzate da movimenti che propongono un consumo minore ma di miglior qualità, come ad esempio Slow-Food.

Il concetto è “consumo carne meno spesso, ma di maggior qualità”, ove qualità è intesa anche come il tipo di allevamento, l’alimentazione, il rispetto dell’animale, delle tradizioni e dell’ambiente. Ecco quindi la mia versione dello spezzatino reducetariano, a base  di sanato piemontese “a filiera corta”, cioè selezionato in stalla, macellato e commercializato dallo stesso maestro artigiano. Nel mio caso l’amico Paolo, che conosceremo in una prossima intervista. Protagonista un vitello di fassona di 8 mesi in stabulazione libera, cioè senza catena e sulla paglia, allevato nella zona di Cavour ai piedi delle montagne del cuneese. Una delle carni più tenere, saporite e sane che possano esistere.

Una volta infarinata la carne, debitamente salata e pepata, la rosolavo nel coccio in olio e burro. Appena preso un bel colore, giuntavo carote e cipolla a mirepoix – un trito fine – due rametti di timo e una foglia d’alloro del giardino. Lasciavo ammorbidire e bagnavo quindi con vino rosso, unendo quasi subito passata di pomodoro, poi altro vino e brodo, fino a coprire a filo. Lasciavo allora sobbollire a fiamma lenta per quasi due ore. Poco prima di servire, univo patate a tocchi già cotte al vapore affinché s’insaporissero senza inamidare troppo il sugo. Spenta la fiamma, lasciai lo spezzatino riflettere e concentrarsi per venti minuti buoni per rendere piena giustizia ad uno dei pilastri più profondamente radicati nella nostra cultura, un intramontabile specialità delle nostre mamme e delle nostre nonne. Alla loro salute innalzammo i calici di Bordeaux, vino preferito di mia nonna Thérèse. D’obbligo la scarpetta.

 

Sul fronte del gusto ovviamente non vi fu gara: Vegani 0 – vitello piemontese 1, a mani basse!! Inoltre un chilo di questa carne unica al mondo mi è costato poco più di 15 euro, contro i 17 del seitan! Se si considera invece l’impatto sull’ambiente, c’è da calcolare il minor consumo di energia per la cottura dello spezzatinbo vegano: soli venti minuti a fronte di due ore buone per la carne vera. C’è poi la questione dei grassi animali e del colesterolo, a tuttoggi oggetto di accesi dibattiti. Mi ripromettevo comunque di ritornare sull’argomento, meglio equipaggiato culturalmente e dopo i debiti ulteriori accertamenti. Ad esempio mi accorsi che il seitan, essendo costituito praticamente da glutine puro – la proteina del frumento – non fornisce tutti gli aminoacidi necessari alla corretta alimentazione umana, e che occorre integrarlo con legumi o cereali, in particolare segale. Ecco perché molte ricette presenti in rete lo abbinavano ai piselli.

Del tutto prematura quindi una condanna, anche perchè, approfondendo l’argomento con l’aiuto di Segrè, scoprivo che in realtà nell’equazione relativa al modello alimentare del mondo industrializzato entrava pure un sovraconsumo di acqua dovuto al suo largo impiego nell’allevamento di animali da macello. In altre parole, quando parliamo di consumi di acqua, non teniamo conto di quella che “mangiamo” letteralmente! Per produrre una bistecca di carne rossa di 200g si consumano circa 3.000 litri di acqua tra l’allevamento dell’animale e la produzione del foraggio per la sua alimentazione. Ogni giorno, in una dieta carnivora, “mangiamo” così 3.800 litri di acqua, mentre per un vegetariano il consumo è di “soli” 2.300 litri (Andrea Segrè, il libro blu dello spreco in Italia: l’acqua Edizioni Ambiente, Milano, 2012). Un argomento da trattare assolutamente in un prossimo incontro-intervista con Segrè.

Insomma la partita è ancora aperta, ma una cosa è certa, se vogliono avere successo, anche i reducetariani dovranno cambiare : il nome!