Il “modello Castelmagno” è la prova che si può coniugare, in un circolo virtuoso, rispetto della tradizione, eccellenza gastronomica senza compromessi, viabilità economica, tecniche millenarie, tecnologia moderna e gestione economica manageriale, nel pieno rispetto della biodiversità e dell’identità del territorio.
Il formaggio Castelmagno rappresenta forse l’apice di quell’edonismo un po’ dandy dei foodie più estremisti, come oggi si chiamano i gourmet di una volta. Ricercatissimo dagli appassionati, dalla fama sospinta dal vento della fortuna mediatica, il Castelmagno ne ha ben donde, con la sua storia più che millenaria e le sue caratteristiche proprie che lo rendono unico e impareggiabile. Questo formaggio prodotto nel territorio ristretto dei tre comuni di Castelmagno, Pradleves e Monterosso Grana, in provincia di Cuneo, si realizza con il latte di due mungiture successive – sera e mattina – di vacche di razza bianca piemontese e “finta” pezzata rossa (in realtà un incrocio di bianca piemontese e pezzata rossa – vedi foto qui sotto). Questa tecnica, simile a quella originaria del Gorgonzola, permette una erborinatura naturale per il fatto che i due latti non si mescolano perfettamente, lasciando che l’aria penetri l’impasto. Mentre per il Gorgonzola la tecnica si è poi evoluta con l’innesto meccanico del penicillo, questa non è mai variata per il Castelmagno.
Le vacche pascolano liberamente, tra gli 800m e i 1200 m degli alpeggi, facendo così acquisire al loro latte quel profumo unico e inconfondibile dato dalla incredibile varietà di erbe, piante e fiori presenti in questo luogo. Un mix preciso che identifica questo territorio, e solo questo. Le forme, dai 4 ai 6 kg, sono pensate per poter essere stagionate, o meglio, conservate, per oltre due anni, anche tre o quattro, in modo fa poter far fronte ai rigidi inverni e alle carestie, che dall’anno mille a questa parte hanno regolarmente flagellato queste montagne impervie e isolate.
Il segreto del Castelmagno sta proprio qui, nel territorio, nella razza, nella tecnica e nel rigoroso, inflessibile attaccamento alla propria tradizione e alla propria identità. Se tutto ciò è fondamentale nella salvaguardia della biodiversità, per la gioia dei connaisseur, come si concilia con le moderne esigenze di mercato, senza parlare della necessaria garanzia di adeguato sostentamento economico per i produttori? La risposta appare chiara parlando con Massimo Monetti, il giovane presidente della cooperativa La Poiana di Pradleves, che riunisce 16 produttori dei tre comuni e rappresenta la maggiore realtà produttiva della valle.Qui la tecnologia più moderna è stata messa al servizio della tecnica millenaria, permettendo ad esempio una stagionatura in celle ad ambiente controllato, ma dove l’aria della valle viene fatta circolare proprio come avveniva, e avviene tuttora, nei crotti o infernot sparsi per il territorio. Condizioni di massima igiene e sicurezza, ma totale rispetto della tecnica di lavorazione e del prodotto, partendo dalla materia prima, oltre alla possibilità di gestire da uno stesso luogo ben 26 mila forme con le più avanzate tecniche di management e di marketing.
“Al produttore che conferisce le sue forme alla cooperativa,” spiega Monetti, egli stesso produttore, “viene pagato subito un prezzo di pochissimo inferiore a quello di mercato. La differenza, grazie ai grandi numeri, è sufficiente a coprire le spese e a garantire anche un piccolo guadagno, a sua volta investito in ulteriore tecnologia e attrezzature.” In questo modo vincono tutti, i piccoli allevatori e produttori che si vedono così garantire una giusta retribuzione per il proprio lavoro, la cooperativa che ogni anno realizza utili, e i consumatori che hanno la certezza di un prodotto autentico e di grande qualità ad un prezzo ancora accessibile. Così si alimenta il circolo vitruoso che mantiene viva questa montagna, questi pascoli, queste genti con i loro armenti e la loro identità. Vale la pena farsi un giro da queste parti, magari con una sosta allo spettacolare santuario, per rendersi conto immediatamente della bontà del “Teorema Castelmagno”, toccando con mano, e magari assaggiando questo miracolo millenario.
Impossibile a questo punto, parlando di formaggio, non accennare alla odierna e accesa polemica sulla presunta imposizione da parte della UE di produrre formaggio “senza latte” ovvero con latte in polvere. A parte il fatto che non vi è nessuna imposizione a produrre in questo modo, distruggendoli, i formaggi iconici della penisola – al contrario si dovranno continuare a fare secondo i rispettivi disciplinari – la direttiva UE tende a normalizzare anche in Italia una metodologia consolidata nella produzione industriale di formaggi e latticini. A ben guardare, il latte in polvere, la cui tecnica di produzione risale al 1847, è dal punto di vista della tradizione più antico dell’uso delle patate nello stufato o del pomodoro negli umidi e a condimento della pasta. Senza latte in polvere non potrebbe esistere, ad esempio, il cioccolato al latte, pubblicizzato con tanto di scenografiche brocche di latte fresco con buona pace di tutti. Nell’industria viene impiegato, in quantità modeste in aggiunta al latte “vero”, per stabilizzare o normalizzare il contenuto proteico e di grassi del prodotto finito, che per definizione deve avere delle caratteristiche assolutamente immutate. Non è dannoso, è del tutto igienico e la sua produzione aiuta a cadmierare i prezzi del latte in periodi di sovraproduzione. E’ semplicemente latte al quale è stata tolta l’acqua. Già lo consumiamo quotidianamente in formaggi e latticini industriali provenienti da Francia, Germania e Olanda, veri maestri nelle tecnologie alimentari. Si legga in proposito l’interessante punto di vista de Il Fatto Alimentare.E’ compatibile tutto ciò col nostro inarrivabile Castelmagno? Certo, e la prova sta proprio nel fatto che si sta parlando di due cose tanto diverse da non poter assolutamente essere confuse. Il principio dei formaggi industriali sta nella loro standardizzazione: un gusto uguale, sempre identico, ad un prezzo basso. Servono perfettamente e con grande qualità, intesa come sicurezza e rispetto delle richieste dei consumatori, le esigenze di una larga fetta di mercato. Quello dei formaggi artigianali sta invece nella individualità, nella mutevolezza degli aromi a seconda delle stagioni e delle annate, pur mantenendo una identità unica che li lega ad un determinato territorio. Due tipologie di prodotti agli antipodi, per nulla incompatibili, basta sapere cosa si vuole acquistare e consumare. La cultura e l’informazione sono le uniche discriminanti in questo caso, ammesso che al consumatore venga esposto chiaramente quale tipo di prodotto, quale provenienza, quali ingredienti e quale lavorazione, sta acquistando. In un certo senso la mera esistenza dei prodotti di massa, che vanno benissimo con o senza latte in polvere, esalta e sostiene ancora di più i pregi di quella exception culturelle così ben rappresentata dal nostro straordinario Castelmagno, da gustarsi da solo o accompagnato col miele o le altrettanto tipiche pere madernasse. Nel bicchiere un titolato piemontese come un giovane Barolo o un Nebbiolo di buona famiglia. Nelle trattorie della valle si gusta anche in fonduta ad accompagnare celestiali gnocchi prima fatti struggere in abbondante burro nocciola. In buona sostanza possiamo rassicurarci sulle sorti dell’intero ecosistema di questa vallata, protetto e preservato proprio dalla modernità, utilizzata in modo responsabile e intelligente in questo teorema vincente del Castelmagno.