Torna l’incubo del Mostro di Firenze

mostroIl Mostro di Firenze terrorizzò l’Italia. Gli investigatori hanno brancolato nel buio per quasi due decenni, dal ’68 all’84. Sono stati commessi 8 duplici omicidi. Impensabile proporre senza edulcorazioni una fiction di questo tipo in Italia. La Rai e Mediaset ne avrebbero fatto una storia d’amore, con tanto di lieto fine.

Purtroppo (ma solo perché sono da soli) Fox Channel Italy si conferma essere l’unica vera rete italiana che investe in prodotti cinematografici di qualità, coraggiosi e senza troppe autocensure, vero problema della tv generalista italiana, una tv che non si censura di fronte a talk show che rasentano il feticismo, ma che nella finzione (fiction) vuole raccontare solo storie d’amore buoniste in cui i cattivi sono sempre delle macchiette.

Il Mostro di Firenze (fiction) fa paura come lo fece nella realtà. Chi ricorda quel periodo, rivedendo la serie tv in sei puntate le cui prime due sono state trasmesse giovedì 12 novembre da Fox, non può non ricordare le emozioni, i timori, l’angoscia di quel periodo in cui si aveva persino paura uscire di casa.

Il regista Aurelio Grimaldi di orrore se ne intende. Non avevo molta fiducia in un suo successo dell’operazione, ma è riuscito a trasportare quell’angoscia di “Caos calmo” anche in questa storia. Un  prodotto tv che finalmente diventa cinema. Certo non perfetto, anche a causa degli attori non sempre all’altezza, come Nicole Grimaudo “monoblocco” che sembra appena uscita da una puntata di Ris – Delitti Imperfetti in cui tutti gli attori recitano con lo stesso tono e la stessa faccia.

Il mostro di Firenze rimane comunque un buon prodotto, una serie tv che, almeno alle prime puntate, promette molto bene. Anche per il futuro della serie tv italiana. Fox aveva già dato dimostrazione di saperci fare con Romanzo Criminale, la serie. Ora il Mostro. Le tv generaliste o cambiano stile (recitazione, regia, ripresa, fotografia) oppure è meglio si mettano a produrre telenovelas, per utilizzare volutamente un termine anni ’80: soap opera o serial sarebbe già un complimento.

La politica distruttiva del “Barbarossa”

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Un’opera cinematografica non si giudica dal suo consenso al botteghino. È vero. Ma se a dirlo, come nel caso del Barbarossa, sono gli stessi leghisti che attaccavano, e attaccano, il cinema che prende finanziamenti pubblici e non incassa, le affermazioni sembrano quantomeno rivoltare la frittata a seconda di quale parte si vuole bruciare.

Molte le polemiche che hanno accompagnato l’uscita del film. Vi è sicuramente entrata troppa politica. Non certo per le critiche “di sinistra”, ma per la promozione che ne ha fatto il popolo padano, a partire dai suoi colonnelli.

Proviamo a dimenticare tutto. Renzo Martinelli, il regista, ha dichiarato che un film va giudicato dalle emozioni che è capace di suscitare, che deve avere una funzione maieutica, far pensare, che vada giudicato solo come un film. Bene. Quindi proviamo a utilizzare questi parametri.

Barbarossa non suscita emozioni. O meglio ne suscita molte in chi è predisposto ideologicamente a voler vedere una rivolta contro gli invasori, a chi li vuole vedere decapitati. Il film inizia bene, abbandona gli stilemi della fiction televisiva. Ma l’illusione dura poco. Ben presto entrano in gioco gli echi della “libertà” a tutti i costi. I personaggi diventano macchiette. Alberto Da Giussano non ha alcuna motivazione per combattere, non ha un conflitto interiore che lo porti ad essere alla guida della Compagnia della morte, non ha una ferita che lo spinga a fare quel che fa (se non a metà film quando muoiono i fratelli). Come se rappresentare i fatti di una storia bastasse a giustificare svolte narrative.

Barbarossa ha il grande difetto di essere stato realizzato pensando già a un pubblico di riferimento. Altroché Braveheart, grande film di Mel Gibson. Qui si raccontava una vera ribellione, di un eroe diventato tale suo malgrado, il cui scopo di vendetta è diventato motivo di libertà per molti, fin da subito gli viene ucciso il padre e, con estrema cattiveria, anche l’amata. Alberto da Giussano non è niente di tutto ciò: confonde la pazzia con la ribellione, riuscendo persino in un finale televisivo in cui l’amore trionfa a tutti i costi, anche a scapito di una narrazione. Se Mel Gibson venne accusato di megalomania, di voler diffondere un integralismo cristiano, almeno aveva realizzato un’opera che parlava al mondo intero, non a una nicchia.

La seconda parte del film inoltre (e qui si vede già l’impianto pronto per la suddivisione in due puntate da fiction) potrebbe esistere da sé, senza tutto il lungo preambolo della distruzione di Milano. Sebbene sia la parte più interessante è invece la parte più fredda, in cui le motivazioni dei personaggi vengono lasciate da parte dando eccessivo risalto alla battaglia di Legnano e al giuramento di Pontida che gli spettatori in sala attendono con ansia, a scapito di una storia che non emoziona.

Torniamo al contesto storico in cui è stato realizzato Barbarossa. Oggi. È stato detto che Martinelli non è un regista di regime. È vero. Leni Riefenstahl, la regista di Hitler prima della guerra, era una regista di regime. Conosceva l’obiettivo e lo dichiarava, non lo nascondeva dietro finte emozioni. Le sue immagini sono entrate nella storia del cinema. Nonostante l’ideologia che trasmettevano. Lo stesso non sarà per Barbarossa. Sarà proiettato per anni nei circoli della Lega, sarà oggetto di forte marketing, avrà vita lunga. Ma sarà solo uno strumento di propaganda ideologica.

Metti che… La sconosciuta

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Metti che il cinema italiano sforni ogni tanto (ma proprio ogni tanto) un capolavoro.

Metti che quel capolavoro sia scritto e diretto da un premio Oscar.

Metti che Giuseppe Tornatore abbia ancora una freschezza nell’immagine e nel racconto, non omologata alla narrazione televisiva.

Metti che La sconosciuta sia solo un film di genere.

Metti che i film di genere (e soprattutto se noir) sappiano raccontare l’attualità meglio delle inchieste.

Metti che la poetica e la retorica (seppur bella) del Pianista sull’oceano e del Cinema Paradiso abbiano lasciato il posto alla cruda realtà.

Metti che con pochi soldi, tante idee e molto stile, si possa fare un ottimo film.

Metti che l’immigrazione sia anche integrazione e non solo sfruttamento.

Metti che i mostri esistano ma non siamo mai noi.

Metti che tutto questo sia reale.

Metti che faccia male vedere il film di Tornatore.

Metti che i capolavori esistono, mascherati da piccoli film.

Il cinema è nei serial tv (non italiani)

boston_legal_s2_boxL’altro giorno un amico mi ha detto che non condivide che io abbia scritto che non ci siano fiction italiane “belle”.
Quella stessa sera mi sono imbattuto in un recente serial americano. Non tra i più conosciuti, non i solidi “modelli” (seppur inimitabili) del Dr.House o Csi o Lost o Gre’s Anatomy. Ma un più modesto Boston Legal. Serie con protagonisti degli spregiudicati avvocati: il taglio cinematografico la fa da padrone, niente lungaggini, pochi tempi morti, dialoghi veloci e dinamici, riprese sempre in movimento, trame che affrontano temi e dibattiti sociali.

Tutto il contrario della nostra fiction. Dove le contraddizioni sono messe il bando, l’originalità dei personaggi è stereotipata secondo modelli nazional-popolari, i colpi di scena non sono nemmeno svolte narrative. In Bosto Legal , dove attori come James Spader dominano la scena con il loro carisma, tutti i personaggi hanno la loro pazzia, a volte grottesca, ma sempre con uno sfondo di umanità non banale che li rende reali nel loro distacco cinematografico .

In Italia, è vero, c’è anche della buona fiction. Poca. Molto poca. Oltre al già citato Montalbano, ci sono le fiction recentemente create da Sky, su tutte Romanzo criminale e la splendida, scorretta e irriverente sitcom Boris. Il resto della produzione Rai e Madiaset  è la solita minestra di buonismo, retorica, luoghi comuni. A parte il recente Tutti pazzi per amore, dove gli autori hanno cercato di dare un proprio “piglio” personale alla serie .

Tutto il resto è solo propaganda, dove il cinema non ha niente a che fare con questo tipo di senso dell’immagine. Mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra  (basti pensare al serie Hustle, con protagonisti simpatici e ideologici imbroglioni) sono i serial televisivi che fanno da traino al cinema, in Italia non si può nemmeno dire che sia il contrario, considerando la scarsa considerazione dei prodotti di qualità nostrani.

Italia NI: Questione di cuore

Questione di cuore di Francesca Archibugi

Questione di cuore di Francesca Archibugi

Sullo scafale del videonoleggio due film italiani. Ho sicuramente scartato quello di Natale e non tanto la visione che ne avrei fatto in una sera di agosto.

Prendo in mano l’altro dvd. Copertina con attori sorridenti in un’improbabile posa.

Penso di trovarmi di fronte all’ennesima commedia con scambio di equivoci. Almeno era l’impressione che ne aveva dato il marketing all’uscita del film in sala.

Mi preparo a questo tipo di visione, nonostante gli attori Antonio Albanese e Kim Rossi Stuart abbiano già dimostrato in passato di essere molto consapevoli delle scelte dei film in cui recitare.

Risultato. Devo dire che il titolo, un po’ banale, Questione di cuore non rende giustizia al film di Fratesca Archibugi. Una trama un po’ forzata, con delle situazioni simpatiche e drammatiche, a seconda del registro che richiede la classica commedia all’italiana.

La storia è semplice. Due estranei, complementari nella vita, si conoscono in ospedale dopo un attacco di cuore. Diventano amici inseparabili, fino a coprire ognuno le mancanze dell’altro. Con tanto di tragedia finale.

Ed è proprio in un certo buonismo, e anche prevedibilità, che il film si perde nonostante le buone intenzioni iniziali. Un po’ di sana cattiveria non avrebbe fatto male.

Se invece dovessi pensare che nel bancone dei dvd a noleggio dove ho preso il film dell’Archibugi c’era anche il cinepanettone Natale a Rio, penso sicuramente di aver scelto un gran bel film, di non aver perso una serata, di non aver buttato due ore della mia vita. Ma soprattutto di essermi divertito veramente.

Italia sì: Fortapàsc

Fortapàsc di Marco Risi

Fortapàsc di Marco Risi

«In questo paese non ci sono giornalisti-giornalisti. C’è spazio solo per giornalisti-impiegati».
La forza di un film come Fortapàsc è l’attualità. Un’attualità tanto agghiacciante da far dimenticare che l’ultimo film di Marco Risi sia una ricostruzione storica, l’assassinio del giornalista de “Il Mattino” Giancarlo Siani, avvenuto nel 1985.
Negli Stati Uniti questo genere di film lo chiamano Biopic. Da noi non hanno una definizione, le storie dei grandi personaggi storici vengono raccontate senza emozioni, e con sole finalità politiche, dalla tv. Sono le fiction, sono il brutto cinema, senza alcuna anima.
Tutto questo non è Fortapàsc.
Qualcuno ha accusato il film di essere troppo fiction. Magari la fiction televisiva (Montalbano a parte) fosse così spietata, netta, reale, originale: nei dialoghi e nelle riprese, ma soprattutto nella potenza del messaggio, non finalizzato alla sola informazione pubblicitaria.
Marco Risi, anche se non ai livelli di
Mery per sempre o de Il muro di gomma, racconta un’Italia ancora attuale, per nulla mutata, con il rischio che si corre oggi di un’informazione assoggettata al potere: appalti, politica, incarichi come favori, carriere come scambi commerciali, che Siani, solo 26enne, ha cercato di smascherare.

Prima o dopo tangentopoli, poco è cambiato.
Fortapàsc è l’Italia di oggi.