Il fascino del male. Oppure… la noia!

Sky ha individuato il filone: Romanzo Criminale, Moana e ora Faccia D’angelo, dedicata alla banda del Brenta. In queste fiction per la tv si respira aria di cinema: sembrano tutte uguali, forse a causa di una fotografia che cerca di creare il genere, ma almeno non sono polpettoni romantici e stupidi di Rai e Mediaset.
Per intenderci, ecco i primi sei minuti di Faccia d’Angelo, con un grande Elio Germano. E chi accusa un’esaltazione della violenza forse non ha mai visto Tarantino, oppure, più semplicemente, vuole vivere dentro una fiction “pulita e noiosa” della Rai. Purtroppo non ci sono vie di mezzo.
Come detto, eccovi sei minuti in anteprima:

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Scorsese e la mafia, un binomio sempre vincente

boardwalk_empire_titoliScorsese è sempre Scorsese. È vero, ho un debole per la sua cinematografia. Ed è anche vero che ormai le innovazioni visive e narrative passano dalle serie tv. Ma vedere Boardwalk Empire, il serial ambientato negli Stati Uniti al tempo del proibizionismo, sembra di tornare ai tempi, alla vitalità, alla cattiveria, di Quei bravi ragazzi e Casinò.
Martin Scorsese non è solo un narratore di mafia, è uno dei pochissimi autori americani nell’ambito del cinema (insieme a Paul Thomas Anderson, Terrence Malick, Clint Eastwood e Michael Mann). Tutta la serie è prodotta da Scorsese insieme a Mark Whalberg, l’attore che era già stato diretto dal regista americano nello splendido The Departed. Inoltre, il massimo lo si raggiunge nel primo episodio, dove Scorsese si mette pure dietro la macchina da presa: carrelli, movimenti, personaggi, il tutto in poco più di un’ora, con luci ed ombre dei protagonisti che emergono lentamente. Soprattutto ombre, perchè seppur in un’apparente innocenza (le donne), tutti i protagonisti di questo racconto hanno fortissimi lati oscuri, desideri che non si possono definire certo “di buoni cristiani”.

Come lo stesso regista definisce nel libro “Il bello del mio mestiere”, si sente affascinato dal quel lato del mondo non edulcorato. Emerge in tutti i suoi film, da Taxi Driver fino a The Aviator (forse il meno riuscito, ma comunque interessante). Emerge alla grande in questa serie tv. È vero che già la seconda puntata, non sua la regia, non ha il tenore della prima, ma stiamo comunque parlando di altissimi livelli: il momento dell’interrogatorio del poliziotto sul lettino di un dentista (ep.2) è da manuale.
Scorsese nonostante molti dicano che è passato, a 69 anni è più presente che mai. Lo ha dimostrato al cinema con Shutter Island (per niente banale!) e lo ha dimostrato in tv con Boardwalk Empire. Da non dimenticare i protagonisti: Steve Buscemi sprizza ironia e compostezza come mai fino ad ora, mentre il sempre antipatico Michael Pitt (il protagonista di The Dreamers di Bertolucci) è insopportabile anche qui, ma almeno fa parte del personaggio. Nel complesso, una serie da non perdere.

La politica è solo un patto tra postulanti

i-pilastri-della-terraLa politica è solo un patto tra postulanti“. Che schifo. Leggendo i giornali di questi giorni, con le dichiearazioni di guerra tra Fini e Berlusconi, che dicono tutto e il contrario di tutto, non può non venirmi in mente il bel serial tv I pilastri della terra, tratto dal gigantesto libro omonimo di Ken Follet. Lì c’erano intrghi, tradimenti, diplomazia e addirittura omicidi in nome della politica.
Quella frase assume nel corso del serial, ambientato nel Medioevo in Inghilterra, un significato sempre più dispregiativo. Tanto lo assume oggi, dove i giornali e i media vengono usati dai diversi leader politici per parlarsi e minacciarsi, per acquisire potere e contrattare poltrone e incarichi. Come se la corruzione fosse solo uno scambio di soldi, non le promesse di un futuro lungimirante, in politica o in altro. Come se la politica fosse definita come merce di scambio, non come fine ultimo per il miglioramento del modo di vivere.
La politica è invece vista come mero patto, accordo, contratto, tra due parti che fanno solo i propri interessi, o gli interessi di un potere in mano a pochi.
La politica è solo un patto tra postulanti. Che schifo.

Gli zombie invadono la tv e la fanno vivere!

zombiekb-the-walking-dead-poster1The walking dead non è originale, non è una novità nel mondo dell’horror. È una rivoluzione per la tv. Come lo è stato Lost, nel 2004 per la normale serialità, la nuova serie tv americana, tratta dall’omonimo fumetto, porta in televisione l’horror. E lo fa con stile, con eleganza, con quella grande sensibilità che solo un autore vero, come Frank Darabont (già regista e sceneggiatore di Le ali della libertà e Il miglio verde), sa fare.

The walkink dead fa paura. Non c’è che dire, tra citazioni al padre degli zombie, George A. Romero e 28 giorni dopo, parte come un razzo. Il primo episodio trasmesso da Fox (su Sky) è da brividi. L’approccio agli zombie non è troppo ironico, non è troppo splatter. È umano, come se tutto potesse succedere per davvero. E questo fa davvero paura.

Se gli horror sanno leggere la realtà, quella degli ultimi anni, negli Stati Uniti, è davvero tremenda. Se questa ultima serie ne è un esempio, anche noi italiani dovremmo saper sfornare capolavori. Ma perchè non succesde? Forse non siamo abbastanza nella m… A noi bastano le serie tv patinate dove siamo capaci di censurare persino il Papa, bastano le storie d’amore da fotoromanzo, bastano gli attori cani come dice Battiston (quelli che soffiano mentre parlano i di cui non si capisce una parola), bastano le regie piatte e non motivate, bastano le sceneggiature fatte solo di inutili dialoghi finti.
Tutto questo fa davvero paura. Non The walking dead, non gli zombie che camminano. Fa paura non saper leggere la realtà che ci circonda.

Tornano i Visitors, ma chi sono i veri alieni?

visitors_nuova_serieTornano gli schifosi Visitors. Nei giorni scorsi Joi ha trasmesso le prime quattro puntate del rifacimento di un cult della tv degli anni ’80: quel Visitors dove gli alieni, con divise da nazisti, ma rosse e nere, invadevano il mondo. Erano terrificanti, dalla loro voce metallica, al loro aspetto sotto la pelle umana, al loro comportamento inquietante con cui soggiogavano gli umani.
Quel telefilm nacque proprio sul finire della guerra fredda, con la paura dei comunisti negli Stati Uniti ancora forte, sotto una presidenza Regan non certo morbida.
Oggi quella paura non c’è più, ma il nuovo Visitors è altrettanto inquietante: belle le idee con cui gli si spiegano che gli alieni sono tra di noi da decenni, l’utilizzo della televisione come mezzo per conquistare le masse, l’aspetto come valore per avere la fiducia degli umani, e soprattutto la sconfitta delle malattie come mezzo per la conquista del mondo. Ma il periodo storico è ancora così fondamentale per far tornare “cattivi” gli alieni? Forse sì. Non tanto per il terrorismo, ma per lo stesso concetto di paura, di utilizzo della stessa, per mobilitare le masse e l’opinione pubblica. Ieri i comunisti, oggi il terrorismo. Il secondo esiste, nessuno lo nega, ma la paura gioca un ruolo fondamentale nel controllo. Questo mostra il nuovo Visitors. Ed è questa la sua bellezza.
Una nota di lode merita sicuramente la protagonista. Nell’opera degli anni ’80 si chiamava Diana ed era il capo degli alieni. Oggi si chiama Anna, parla attraverso la televisione (“Veniamo in pace, sempre” ma sembra una dichiarazione di guerra), e ha uno sguardo inquietante nella sua bellezza.
Negli Stati Uniti, dopo il test delle prime quattro puntate, stanno preparando il seguito. Speriamo arrivi presto anche da noi.

Torna l’incubo del Mostro di Firenze

mostroIl Mostro di Firenze terrorizzò l’Italia. Gli investigatori hanno brancolato nel buio per quasi due decenni, dal ’68 all’84. Sono stati commessi 8 duplici omicidi. Impensabile proporre senza edulcorazioni una fiction di questo tipo in Italia. La Rai e Mediaset ne avrebbero fatto una storia d’amore, con tanto di lieto fine.

Purtroppo (ma solo perché sono da soli) Fox Channel Italy si conferma essere l’unica vera rete italiana che investe in prodotti cinematografici di qualità, coraggiosi e senza troppe autocensure, vero problema della tv generalista italiana, una tv che non si censura di fronte a talk show che rasentano il feticismo, ma che nella finzione (fiction) vuole raccontare solo storie d’amore buoniste in cui i cattivi sono sempre delle macchiette.

Il Mostro di Firenze (fiction) fa paura come lo fece nella realtà. Chi ricorda quel periodo, rivedendo la serie tv in sei puntate le cui prime due sono state trasmesse giovedì 12 novembre da Fox, non può non ricordare le emozioni, i timori, l’angoscia di quel periodo in cui si aveva persino paura uscire di casa.

Il regista Aurelio Grimaldi di orrore se ne intende. Non avevo molta fiducia in un suo successo dell’operazione, ma è riuscito a trasportare quell’angoscia di “Caos calmo” anche in questa storia. Un  prodotto tv che finalmente diventa cinema. Certo non perfetto, anche a causa degli attori non sempre all’altezza, come Nicole Grimaudo “monoblocco” che sembra appena uscita da una puntata di Ris – Delitti Imperfetti in cui tutti gli attori recitano con lo stesso tono e la stessa faccia.

Il mostro di Firenze rimane comunque un buon prodotto, una serie tv che, almeno alle prime puntate, promette molto bene. Anche per il futuro della serie tv italiana. Fox aveva già dato dimostrazione di saperci fare con Romanzo Criminale, la serie. Ora il Mostro. Le tv generaliste o cambiano stile (recitazione, regia, ripresa, fotografia) oppure è meglio si mettano a produrre telenovelas, per utilizzare volutamente un termine anni ’80: soap opera o serial sarebbe già un complimento.

Il naso di Pinocchio non buca lo schermo tv

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Il nuovo Pinocchio televisivo era francamente brutto. Per carità anche fedele al libro di Collodi, ma non aveva niente a che vedere con un prodotto cinetelevisivo di buon livello. Dal regista del Montalbano televisivo ci si aspettava di più. Lo ha ammesso anche lui, Alberto Sironi, persona simpatica, intelligente e critica, comunque soddisfatto degli ottimi ascolti, ha dichiarato: “si poteva fare di meglio”.

La Rai, come Mediaset, continua a voler rimanere agganciata a un concetto vecchio di fiction: in altre parti del mondo è il luogo della sperimentazione, della scoperta dei talenti, delle storie innovative. Da noi, come dice Sironi ci si limita a banali storie d’amore oppure a rivisitare i grandi classici. Pinocchio non era certo semplice: ci aveva provato Roberto Benigni dopo il successo planetario de La vita è bella, ma la critica lo aveva letteralmente massacrato.

Ora, dopo il Pinocchio di Comencini con Nino Manfredi, questa nuova versione con un cast all star e girato in inglese. Senza verve, doppiaggio che sembra quasi fuori sincrono, personaggi che paiono finti, montaggio senza ritmo, lento.

Si salva soltanto la bontà di base della storia, ideale per i bambini. Meno per gli adulti. Ma il libro parla a tutti, grandi e piccoli. Difficile, è vero, trovare la lettura giusta. Ma come dice Sironi, con un po’ di impegno si poteva fare di meglio, soprattutto senza le vecchie, scomode, arrugginite catene della rigida fiction italiana.

La falsa redenzione di uno sporco distintivo

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Shakespeare in televisione, a Los Angeles, tra polizia e politici corrotti, gang giovanili, poveracci disadattati e amori impossibili, fatti di tradimenti e sesso. Tutto in The Shield, il distintivo, serie tv giunta quest’anno alla settima e ultima serie. Capitolo conclusivo di una saga iniziata sottotono, trasmessa a notte fonda in Italia, con uno stile che faceva sembrare il tutto un reality. Temi scottanti come quelli citati, tra denuncia e critica, che fanno degli episodi una vera cartina tornasole della società americana.

I protagonisti sono quattro poliziotti si una speciale squadra d’assalto che si ritrovano ad avere sulle spalle il peso di reprimere l’escalation di violenza che assale il quartiere losangelino di Farmington. Naturalmente per tenere sotto controllo la situazione, lo spaccio, gli assassini, non possono che diventarne una sorta di protettori, permettendo il tanto che basta che possa essere comodo a tutti, guadagnare soldi e non avere problemi con altri colleghi.

Ma quello che rende The shield inarrivabile per tutti, anche per altri autori americani di cinema, è la stessa qualità della serie carceraria Oz, in Italia troppo bistrattata. È la capacità di scandagliare la parte buia e più nascosta dell’animo umano, i desideri repressi, la gelosia, l’invidia, l’avarizia. Tutti sentimenti che in passato avevano trovato massima espressione nelle opere di Shakespeare. I puristi rideranno di questo paragone, ma questa serie tv, come i testi del Bardo, sono un vero trattato di sociologia. La serie non è ancora finita, ma gli autori hanno già dichiarato che queste saranno le ultime puntate. E finirà esattamente come tante altre tragedie del grande William, con una falsamente rassicurante redenzione.

Tim Roth non è una mucca

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Lie to me è l’ultima grande serie tv prodotta negli Stati Uniti che è cinema alla stato puro. Come The shield, come Criminal Minds, non è la tv che attinge al cinema di genere, ma è la stessa serie tv a fare da apripista alla crisi di idee che sta investendo le opere per il grande schermo.

In Lie to me non funziona solo l’idea della squadra che collabora con le forze dell’ordine, operando interrogatori che si basano sullo studio linguaggio non verbale. In Lie to me la pietra che contribuisce a rendere stabile tutta la struttura è Tim Roth, attore dalle scelte coraggiose che al suo attivo ha grandi interpretazioni in Le iene di Tarantino o il bellssimo La leggenda del pianista sull’oceano. Ma anche un’opera poco conosciuta, ma molto interessante, come regista, Zona di guerra.

Hitchcock diceva che gli attori sono delle mucche che devono solo essere guidate al pascolo. Mai come in questo caso il maestro del brivido potrebbe essere smentito. Roth dà il proprio contributo di autore-attore anche nel personaggio di Lie to me, creando un uomo tormentato, incapace di basare sulla naturalezza le proprie relazioni personali, ingabbiato in quel mondo dove la verità verbale non esiste. Mondo che lui stesso ha creato e dal quale emergono realtà tanto inquietanti da permettere di risolvere, o meno (ma per scelta), determinati casi. Nel primo episodio, la frase cardine di tutta la serie: “Tre persone possono mantenere un segreto soltanto se due sono morte”.

Il cinema è nei serial tv (non italiani)

boston_legal_s2_boxL’altro giorno un amico mi ha detto che non condivide che io abbia scritto che non ci siano fiction italiane “belle”.
Quella stessa sera mi sono imbattuto in un recente serial americano. Non tra i più conosciuti, non i solidi “modelli” (seppur inimitabili) del Dr.House o Csi o Lost o Gre’s Anatomy. Ma un più modesto Boston Legal. Serie con protagonisti degli spregiudicati avvocati: il taglio cinematografico la fa da padrone, niente lungaggini, pochi tempi morti, dialoghi veloci e dinamici, riprese sempre in movimento, trame che affrontano temi e dibattiti sociali.

Tutto il contrario della nostra fiction. Dove le contraddizioni sono messe il bando, l’originalità dei personaggi è stereotipata secondo modelli nazional-popolari, i colpi di scena non sono nemmeno svolte narrative. In Bosto Legal , dove attori come James Spader dominano la scena con il loro carisma, tutti i personaggi hanno la loro pazzia, a volte grottesca, ma sempre con uno sfondo di umanità non banale che li rende reali nel loro distacco cinematografico .

In Italia, è vero, c’è anche della buona fiction. Poca. Molto poca. Oltre al già citato Montalbano, ci sono le fiction recentemente create da Sky, su tutte Romanzo criminale e la splendida, scorretta e irriverente sitcom Boris. Il resto della produzione Rai e Madiaset  è la solita minestra di buonismo, retorica, luoghi comuni. A parte il recente Tutti pazzi per amore, dove gli autori hanno cercato di dare un proprio “piglio” personale alla serie .

Tutto il resto è solo propaganda, dove il cinema non ha niente a che fare con questo tipo di senso dell’immagine. Mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra  (basti pensare al serie Hustle, con protagonisti simpatici e ideologici imbroglioni) sono i serial televisivi che fanno da traino al cinema, in Italia non si può nemmeno dire che sia il contrario, considerando la scarsa considerazione dei prodotti di qualità nostrani.