La storia di Lin

Mi chiamo Lin, ho 38 anni e sono cinese.
Abitavo in un piccolo paese del nord della Cina, con mio marito e un figlio di tre anni.
La vita era dura: mio marito è affetto da una grave patologia alla schiena che lo costringe a lunghi periodi in ospedale e all’impossibilità di lavorare. Tutto il carico familiare era su di me.
Svolgevo piccoli lavori saltuari, mi occupavo di mio figlio e di mio marito. Ma la situazione era troppo difficile e non riuscivo a mantenere la famiglia.
Così ho deciso di emigrare, seguendo l’esempio di tanti altri miei connazionali che si sono trasferiti in Italia. Perciò ho deciso di rivolgermi a delle agenzie che si occupano di organizzare questi viaggi fornendo il supporto organizzativo: indirizzi di persone cinesi che offrono alloggio e lavoro.
Avevo paura, era la prima volta che mi allontanavo da sola dalla Cina e per un luogo così lontano!
Non conoscevo nessuna lingua straniera e non ho mai frequentato una scuola.
Dopo aver discusso con mio marito abbiamo deciso che io dovevo partire per cercare un lavoro in Italia, solo qualche anno, per guadagnare un po’ di soldi e garantire una maggiore tranquillità ai miei cari.
Lasciare mio figlio è stata la parte più difficile, ma sapevo che era la cosa giusta da fare.
Sono arrivata in Italia nel marzo del 2006, con un passaporto valido e un visto turistico per l’Olanda.
Dopo qualche giorno di permanenza ad Amsterdam, ho raggiunto l’Italia in aereo arrivando a Malpensa.
Avevo un elenco di nominativi di connazionali che potevano offrire un lavoro e così ho subito trovato un impiego in un laboratorio gestito da cinesi in un paese fuori Milano.
Le condizioni di lavoro non erano come immaginavo: si viveva nello stesso posto in cui si lavorava e l’orario di lavoro era massacrante. Si lavorava sempre, con brevi pause solo per mangiare e qualche ora la notte per dormire. Non si usciva mai dal luogo di lavoro e soprattutto lo stipendio era davvero una miseria.
Ho deciso di andarmene e di cercare altrove.
Seguirà II parte…

Kirka

Dipinto del pittore argentino Kirka

 

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Sanatoria- Quando la truffa non è un’eccezione ma un mercato organizzato dalla legge

Un mercato sommerso di permessi, una compravendita permanente del diritto di soggiorno: questa è la reale applicazione della legge Bossi Fini.

La chiamiamo sanatoria truffa ma non riguarda solo la legge di emersione. Li chiamiamo truffatori ma in realtà non sono una banda che agisce in maniera eccezionale ed estemporanea.

Ciò che è emerso più che in altre occasioni con le truffe nell’ambito della sanatoria 2009 non è altro che la punta dell’iceberg di un circuito di compravendita del diritto di soggiorno dei migranti, in questo paese, che quotidianamente si riorganizza intorno ai dispositivi della Legge Bossi Fini.

A guardarla da lontano, la truffa della sanatoria, potrebbe sembrare una variante criminale d’eccezione che si inserisce negli interstizi della normativa, ma avvicinando lo sguardo alle tante storie dei truffati, al tessuto culturale ed economico che regola l’accesso al titolo di soggiorno in questo paese, ci accorgiamo che le truffe, i raggiri, l’indebitamento che rasenta l’estorsione, sono la realtà permanente del Governo dell’immigrazione, un mercato della vita che si regge sugli istituti principali della normativa italiana.

Non c’è insomma un’organizzazione che, raggirando la legge, “favoreggia l’immigrazione illegale”, ma appare sempre più evidente come vi sia una regolazione della condizione del diritto di soggiorno dei cittadini migranti che passa sempre più attraverso la circolazione di denaro, lo scambio di favori, una legge le cui maglie si aprono e si restringono a seconda dei livelli di corruzione esistenti.

Non siamo a Bogotà, neppure a Casablanca o Benin City: qui, nel cuore dell’Europa non occorre vedere bande criminali che scorazzano su auto cabriolet con il mitra in mano salutando gli agenti conniventi per vedere la stretta relazione tra legge e raggiri.

Qui, nel cuore dell’Europa, è sufficiente dare un’occhiata alle pagine principali del Testo Unico sull’immigrazione e poi farsi una passeggiata intorno alla Stazione, o in un giardino pubblico per capire che non esiste alternativa.

O meglio, l’alternativa c’è, ma propone una finta scelta tra l’ingiustizia che si consuma nei confronti di chi, una volta licenziato, perde dopo sei mesi il diritto di soggiorno, tra lo sfruttamento nel lavoro e nella vita di una esistenza irregolare, sottopagata, ricattata, tra i CIE, la deportazione, il carcere, oppure la speranza (anche se spesso finta) di poter comprare il tuo progetto di vita, la tua legittimità di soggiorno.

Non si tratta di una separazione tra ciò che è legale e ciò che è illegale, tra chi correttamente obbedisce alla legge e chi invece la raggira fraudolentemente. Qui si tratta di una zona oscura che nasce e matura tra le pagine di una legge che tra maniacale legalità apparente, ed ingiustizia permanente, produce una distorsione del diritto alla vita regolata dalla disponibilità di cash o di vaglia postali.

Il problema insomma, anche nell’ambito della sanatoria, non sono i truffatori, che pure abbiamo la voglia ed il desiderio di fermare, ma una legge che, producendo ingiustizie e compressione dei diritti, ha prodotto e trovato nel corso del tempo anche la sua soluzione strutturale e culturale, prima che politica ed economica, nel mercato sommerso dell’esistenza, nella compravendita del diritto di soggiorno.

Devi pagare per accedere ad una sanatoria ma puoi e devi farlo anche ogni qualvolta sei chiamato a rinnovare il permesso e non hai un contratto di lavoro, ogni volta che hai bisogno di una dichiarazione di ospitalità, ogni volta che devi dimostrare la residenza per accedere ad un titolo, ad ogni conversione, in ogni situazione, puoi o devi comprare il superamento dei requisiti. Si paga anche il visto per entrare nella nostra Europa, ma anche il traffico dei visti è organizzato da qui.
Legalità..diranno alcuni. Noi diciamo democrazia, diritti di cittadinanza, diritto di scegliere dove e come vivere il proprio presente ed il proprio futuro. Perché non c’è il problema di estirpare del marcio che inquina la purezza di una normativa cristallina, ma invece quello di stravolgere le fondamenta avariate di un governo dell’immigrazione che produce in maniera sistemica sfruttamento, estorsione, ricatto.

Nel Veneto, realtà emersa ormai da tempo, ma portata all’attenzione dell’opinione pubblica con l’occupazione, da parte dei migranti truffati, della facciata della Basilica del Santo, il business dei permessi ha avuto ed ha dimensioni enormi.
Non è assolutamente escluso che, dalla Puglia alla Lombardia, dal Veneto alla Sicilia, vi siano legami apparentemente inesistenti tra le tante truffe organizzate.

Nella Regione di Nord Est, stranamente, gli stessi truffatori già arrestati per gli affari sporchi costruiti nell’ambito della sanatoria 2009, contano una serie di inchieste a loro carico per altre truffe ed altri raggiri in cui sono presenti e comprovate la mano della ’ndrangheta, della camorra e del clan camorristico dei Casalesi. Nulla di strano visto che è sufficiente chiedersi come verranno messi in circuito i milioni di euro accumulati con le domande di emersione.
Ma i legami oscuri non riguardano solamente l’esterno. Sembra via via sempre più evidente come, anche nelle ramificazioni interna alle diverse città, si configuri una vera e propria stabile organizzazione, con esponenti di punta che contano un curriculum “invidiabile” quanto a truffe e raggiri, collegati a professionisti e datori di lavoro insospettabili che hanno costruito una vera e propria rete negli ambienti frequentati da stranieri. Un meccanismo culturale prima che criminoso che fa leva sui canali preferenziali concessi a questi soggetti, sulla loro impunità, sull’idea che pagando è possibile comprare ogni cosa, anche la libertà.

Non è una battaglia per la legalità la nostra, perché questa legge ci ha insegnato come la legalità sia ingiustizia. Si tratta di una battaglia culturale e politica, si tratta di affrontare l’individualismo che va diffondendosi, di costruire una idea collettiva di affrontare l’ingiustizia di questa legge perché ognuno, lasciato solo, non debba vendere la propria dignità per barattarla con il diritto di soggiorno. Si tratta certo di dare uno stop a questi mercenari della legge Bossi-Fini che in barba alla normativa ed ai controlli, o meglio, facendo leva su essi, sembrano godere di una impunità garantita e spesso di legami privilegiati con la Questura o altri uffici che amministrano le procedure dell’immigrazione.

Qui non si tratta di affermare la legalità della legge di emersione e di combattere i suoi utilizzi, così come non si tratta di cristallizzare i dettami di una legge ingiusta per affermarli come dogma, come necessità di obbedienza a disposizioni ingiuste e disumane.
Non prendiamoci in giro. La sanatoria 2009 è stata una grande finzione, lo sappiamo noi come lo sanno a tutti i livelli le autorità: molte sono state le “badanti o colf” che hanno potuto accedere ad un titolo di soggiorno grazie a l’emersione, una infinità sono state quelle per cui il datore di lavoro ha preferito continuare in “nero” il rapporto di lavoro perché più conveniente, moltissimi altri sono stati i lavoratori impegnati in altri settori regolarizzati come lavoratori domestici, altri, lavoratori o meno, sono stati regolarizzati simulando rapporti di lavoro inesistenti perché altra strada non esiste per liberarsi dall’irregolarità forzata, dallo sfruttamento e dai ricatti.
A poco valgono le stime dei Carabinieri o della Guardia di Finanza sui controlli effettuati, sugli accertamenti di rapporti di lavoro fasulli. Qui si tratta di interrompere l’estorsione permanente che la legge produce e riproduce sulla condizione di vita di chi è senza permesso o è minacciato di perderlo, che è cosa ben diversa dall’affermare il corso di questa legge, ma anzi è ad essa strettamente connessa.

Dal canto nostro non possiamo che lavorare insieme per costruire collettivamente una idea di giustizia e dignità che non sia barattabile, non sia quantificata in denaro, che passi attraverso la presa di parola e l’affermazione di democrazia e diritti di cittadinanza
Gli strumenti non mancano e neppure dal punto di vista legale è impossibile intervenire per interrompere questo circuito di malaffare e dare un segnale diverso, anche se è proprio la legge a rendere fragili le garanzie per le vittime.

Le organizzazioni che hanno agito con la truffa sono vere e proprie associazioni a delinquere (artt 416, 416 bis cp), hanno sfruttato la condizione di soggiorno irregolare per trarne ingiusto profitto (art 12, comma 5 TU), spesso hanno agito mettendo in campo vere e proprie estorsioni (art 629 cp), sicuramente lo hanno fatto truffando lo Stato (oltre che i migranti), sfruttando la condizione personale degli stranieri (art 640, commi 2 e 3 cp, – art 61, comma 5 cp), non è neppure esclusa l’ipotesi di riduzione in schiavitù (art 600 cp) che recita come segue:
“Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona”.

Sorgono spesso dubbi sull’eventualità di esporre i cittadini stranieri a procedimenti penali proprio in virtù di una eventuale querela nei confronti dei truffatori. Da un lato è paventato (anche se debole) il rischio di considerare correi i migranti, anche se la qualità dei reati contestati ai truffatori e la situazione oggettiva in cui sono avvenute le truffe paiono escludere questo rischio. Impossibile considerarli partecipi dell’associazione a delinquere, tantomeno complici di essersi auto-sfruttati (come se l’usurato fosse complice dell’usuraio), difficile considerarli responsabili di truffa visto che le domande venivano inviate da uffici pubblici abilitati ad inoltrare le pratiche al Ministero, con l’ausilio di professionisti (commercialisti, ragionieri, avvocati) e che mai c’era un contatto con Questura e Prefettura. Inoltre lo straniero aspirante regolarizzato doveva solo consegnare un documento di identità. E’ la stessa Corte Costituzionale ad aver attenuato le disposizioni dell’art 5 del cp che non ammettono l’ignoranza della legge, con la Sentenza n.364/1988 posta a fondamento di sentenze di assoluzione di diversi imputati cittadini stranieri (Pret. Pescia, 21 novembre 1988, S., in Foro it., 1988, II, 247; Trib. Genova, 30 maggio 1989, K., ivi, 1989, II, 540; Trib. min. Firenze, 27 novembre 1989, M., ivi, 1990, II, 192; Trib. min. Genova, 14 novembre 1994, S., ivi, 1995, II, 274).
Deve infatti essere fatta una valutazione complessiva sulla situazione dei soggetti, sul loro livello di scolarizzazione, sulle loro condizioni di vita, etc, etc, etc.

Rimane invece un forte dissuasore a denunciare le truffe da parte delle vittime l’impianto normativo proprio della legge sull’immigrazione, messo solo ora in discussione dalla direttiva 115/CE/2008. Il rischio, permanente in realtà, visto che si tratta di soggetti che si sono auto-denunciati con la sanatoria, è quello per cui, venendo a contatto con l’autorità giudiziaria in qualità di vittime, si aprano procedimenti per il reato di ingresso e soggiorno irregolare (art 10 bis TU), ed eventualmente per inottemperanza all’ordine di allontanamento del Questore (art 14, comma 5 ter).

Rimane invece di difficile soluzione la questione della protezione possibile concessa alle vittime della truffa. Il nostro ordinamento, al difuori dei casi previsti dall’art 18 del TU non prevede strumenti adeguati per la tutela degli stranieri vittime di reati. Ma una attenta applicazione della normativa internazionale e nazionale potrebbe certo fornire strumenti utili a garantire le testimonianze degli stranieri raggirati, unici depositari delle informazioni che possono dare conto della reale dimensione dell’organizzazione criminale, dei suoi legami apparentemente inesistenti, dei suoi confini ancora non circoscritti.

Non è possibile escludere la possibilità di adottare le disposizioni contenute nell’art 11 del Regolamento di attuazione che regolano il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di giustizia, così come, per quanto riguarda lo stesso art 18 del TU (protezione sociale) vale la pena considerare non escluso a priori il rischio per l’incolumità delle persone querelanti visti i legami sospetti degli stessi imputati con organizzazioni di stampo mafioso/camorristico.

La Convenzione 143 OIL del 1975 inoltre, dispone che “ogni Membro deve adottare tutte le disposizioni necessarie ed opportune, sia che siano di sua competenza, sia che richiedano una collaborazione con altri Membri (…) contro gli organizzatori di movimenti illeciti o clandestini di lavoratori migranti, ai fini dell’occupazione, in provenienza o a destinazione del proprio territorio, o in transito attraverso lo stesso, e contro coloro che impiegano lavoratori i quali siano immigrati in condizioni illegali, per prevenire ed eliminare gli abusi di cui all’articolo 2 della presente convenzione.”

Esiste, nel caso della truffa nell’ambito della sanatoria, una situazione di sfruttamento della immigrazione clandestina che è interesse della Convenzione reprimere.
Per adottare misure efficaci per stroncare l’organizzazione criminale (misura dovute per effetto di un obbligo convenzionale) diviene necessaria la collaborazione delle vittime: la loro “regolarizzazione” si rivela quindi lo strumento necessario per la repressione dell’associazione che ha sfruttato i migranti clandestini.
L’obbligo internazionale di rispondere ai dettami della Convenzione OIL ha copertura costituzionale nell’art. 117, primo comma, Cost., si potrebbe così aprire la possibilità per la concessione di permessi di soggiorno per ragioni umanitarie, previsto dall’art. 5, comma 6, del Testo Unico anche per rispondere agli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano.

Rimane sullo sfondo, ma con priorità assoluta, la necessità di sradicare profondamente questa legge, di stravolgerla, di cancellarla, di aprire una stagione di conflitti che pongano, su terreno della democrazia e della presa di parola sociale, il nodo dei diritti di cittadinanza. Perchè i diritti o sono per tutti o non sono per nessuno.

[ sabato 12 marzo 2011 ]

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Da Rosarno, la vertenza meridionale per il diritto di soggiorno

Rosarno (RC) – In provincia di Reggio Calabria si comincia a ragionare di emersione del lavoro nero dei migranti: al tavolo tecnico convocato per domani in prefettura, al quale siederanno rappresentanti istituzionali e delle associazioni datoriali, si discuterà di iniziative volte a prevenire forme di sfruttamento, discriminazione e irregolarità nel mercato del lavoro, con particolare riferimento alla condizione dei braccianti stranieri della Piana. Un tavolo che vede la reteRADICI quale unico rappresentante delle comunità migranti di Rosarno e Drosi.

Un indubbio passo in avanti verso la “normalizzazione” dell’agricoltura in provincia, dopo anni di silenzi. Anche perché il tavolo è frutto di un accordo istituzionale tra prefettura e Regione Calabria, che ha come obiettivo la sigla di un patto per sostenere l’emersione e la qualificazione del lavoro degli immigrati tra sindacati, agricoltori, istituzioni e associazioni. Grandi manovre che accolgono in pieno le indicazioni fornite da reteRADICI nel corso delle interlocuzioni avute con i rappresentanti territoriali del Governo: l’uscita dall’ipocrita impostazione emergenziale della questione migranti e l’avvio per tempo di interventi programmati e sistematici sul nostro territorio, in grado di aggredire la problematica a 360 gradi. Non più questione di ordine pubblico, dunque, ma un nodo da sciogliere a partire dallo sfruttamento che si registra da oltre venti anni nei campi della Piana.

In parallelo, occorre non dimenticare che la rivendicazione prioritaria delle comunità migranti è quella dei documenti, senza i quali il lavoro regolare resta una chimera. E dunque il permesso di soggiorno è propedeutico alle politiche di emersione dal lavoro nero e di accoglienza. In tal senso, la reteRADICI prosegue il percorso di lotta, con una novità importante che allarga le dimensioni della vertenza in atto. Domenica scorsa a Reggio Calabria si sono incontrate alcune realtà che si occupano di immigrazione al Sud: a partire dalla consapevolezza che la condizione che vivono i migranti è la medesima nei diversi nodi dell’agricoltura, è stata lanciata una vertenza meridionale per il riconoscimento del diritto di soggiorno dei braccianti africani. Una vertenza importante, che necessita del sostegno di tutti i soggetti che intendono agire per invertire la rotta e affrontare la questione migranti.

Reggio Calabria, 09 marzo 2011

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La tratta dei nuovi schiavi

Anche in Piemonte uomini e donne “rapiti” all’estero e costretti al lavoro nero: muratori e carpentieri in città, contadini nelle campagne.

Il Gruppo Abele: vengono dal Maghreb, dal Corno d’Africa, dall’India e dal Pakistan.

«Fase tre». È la faccia sommersa della tratta, lo sfruttamento di esseri umani nei cantieri, nelle cucine dei ristoranti, nelle officine e sui pascoli, che emerge anche in Piemonte. Sommersa perchè il limite tra condizioni pessime di lavoro e riduzione in schiavitù – questi i termini dell’abuso – è difficile da individuare e percepire pure da chi la «schiavitù» la subisce.

Ma le storie di donne e uomini in balia di maltrattamenti che superano il già noto – retribuzione rasoterra e assenze di tutele – costretti a vendere il loro corpo e privati della libertà parlano chiaro: così, dopo i cinesi consumati nelle aziende tessili in Veneto, dopo i senegalesi con la schiena spezzata in Calabria, e dopo le donne romene obbligate a «festini agricoli» per arrotondare con prestazioni sessuali i 20 euro guadagnati ogni giorno nelle campagne di Sicilia, oggi anche in Piemonte lavoratori stranieri raccontano le torture subite da quando hanno messo piede nella nostra regione: muratori e carpentieri come Mohamed, marocchino, nutrito a pane e acqua. Contadini come Adil, arrivato dal Bangladesh e costretto a dormire su un letto di pietra. E badanti come Irina, russa, che doveva dire sempre sì per non essere rispedita nel suo Paese.

«Un fenomeno più diffuso di quanto si immagini – dice Lorenzo Trucco – avvocato e presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’ immigrazione (Asgi) – il punto è che abbiamo fatto passi indietro, è tornata la paura: le vittime non denunciano e i criminali si sentono più forti».

A Torino l’allarme lo lancia il gruppo Abele. A verificare quanto soprusi, prepotenze e minacce siano estese pensa, invece, la commissione regionale Pari Opportunità che, per il terzo anno consecutivo, ha avviato uno studio collaborando con Province, Questure, Procure, aziende sanitarie locali e ospedaliere, Carabinieri, Polizie municipali e gruppi di volontariato. Il rapporto si chiama «Piemonte in rete contro la tratta 3».

Spiega Franco Prina, professore all’Università di Torino di Sociologia della devianza: «Sul territorio piemontese il fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento sessuale resta predominante. I casi di giovani nigeriane costrette a prostituirsi e tenute prigioniere con riti voodoo sono amaramente risaputi, ma questa fase del progetto sottolinea quanto sia indispensabile scovare modi, metodi per favorire l’emersione degli abusi sui luoghi di lavoro, un mondo poco esplorato perché mutevole, che prevede trattamenti paraschiavistici, e costringe la nostra società ad allarmanti passi indietro».

Su 294 casi analizzati nel rapporto precedente della Regione, 269 erano donne, 22 uomini (prevalentemente vittime di sfruttamento sul lavoro) e 3 transessuali. «Pochi casi – conferma Mirta Da Pra Pocchiesa responsabile del progetto “tratta e prostituzione” del Gruppo Abele – che rappresentano la punta di un iceberg. Vittime che hanno tra i 20 e 40 anni, che conoscono a stento la nostra lingua e provengono dall’area del Maghreb, dai paesi del Corno d’Africa, dal Pakistan, dall’India, dalla Polonia e dalla Russia. Persone che non sanno come uscire dalla tortura perché in Italia ci sono venuti senza famiglia e l’unico legame è con i parassiti che per denaro succhiano la loro vita».

Lo sfruttamento prevede un’ organizzazione che si muove nei paesi d’origine e trova qui mediatori, spesso italiani, disposti a «piazzare» gli stranieri che scappano da povertà, disoccupazione, repressioni e guerre: «Il momento è delicato – continua la responsabile del Gruppo Abele – per gli sconvolgimenti nel Mediterraneo arriveranno anche in Piemonte donne e uomini disperati. Dobbiamo tenere alta l’attenzione, potenziare controlli, avviare indagini per non aggiungere dolore a dolore, ingiustizia a ingiustizia. Solo così potremo dimostrare il livello di civiltà che appartiene alla nostra regione».

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Seminario: le forme della violenza contro le donne

Cooperativa Lotta Contro l’Emarginazione partecipa, nell’ambito del progetto Cariplo, ad un seminario sul tema della violenza contro le donne, organizzato dall’Università degli Studi dell’Insubria e dalla ASL della Provincia di Varese.

Il fine è quello di sensibilizzare e informare intorno ai temi della tratta e dello sfruttamento sessuale e lavorativo che milioni di donne subiscono.

Il seminario si terrà sabato 29 gennaio presso la facoltà di Economia, aula 6, in Via Monte Generoso a Varese, dalle ore 9.00 alle ore 13.00.

Seminario: le forme della violenza contro le donne

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Perché un Blog

L’obiettivo del BLOG è proporre un punto di vista diverso sul tema della tratta e dello sfruttamento di esseri umani. Parliamo infatti di un fenomeno sociale di notevole rilevanza ma, caratterizzato da ambiguità, disinformazione e invisibilità. Occorre lavorare su stereotipi e pregiudizi che pesano sulle vittime anche quando riescono ad uscire dalle situazioni di sfruttamento.

Non essere in grado di riconoscere i confini della tratta, fa sì che si utilizzino come sinonimi termini che invece indicano fenomeni diversi (alimentando così stereotipi, false credenze, perdita di efficacia negli interventi di contrasto).

Si tenga dunque presente che:

la tratta non è prostituzione, ma sfruttamento sessuale (laddove il corpo di una persona è utilizzato contro la sua volontà); la tratta non è lavoro irregolare, ma sfruttamento del lavoro (laddove la persona si trova in condizioni di servitù, privata dei documenti e mantenuta in un continuo stato di vulnerabilità e di ricatto); la tratta non è accattonaggio, ma sfruttamento di persone (laddove la persona é portata in altro paese, dove sarà costretta a chiede l’elemosina o a compiere reati come furto,contrabbando,spaccio).

Nel BLOG faremo informazione su questo tema da un punto di vista legislativo, presenteremo i progetti, costruiremo momenti di dibattito e riflessione, parleremo dei diritti negati, proporremo seminari di informazione e sensibilizzazione sul tema che stimolino i partecipanti a diventare attori di cambiamento, presenteremo libri.

Racconteremo le storie delle persone e rifletteremo sulle ragioni, dure, del partire, sulla decisione, sofferta, di attraversare deserti e mari, sul significato di parole come “terra” o “patria” e sul senso di sradicamento e di smarrimento che lo spostarsi porta sempre con sé. A qualsiasi latitudine.

Sperando di provocare un mutamento culturale nelle attitudini e nelle mentalità collettive e di favorire l’accoglienza e l’inclusione sociale delle persone vittime.

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Pane e Coraggio

di Ivano Fossati 

Proprio sul filo della frontiera
il commissario ci fa fermare
su quella barca troppo piena
non ci potrà più rimandare
su quella barca troppo piena
non ci possiamo ritornare.

E sì che l’Italia sembrava un sogno
steso per lungo ad asciugare
sembrava una donna fin troppo bella
che stesse lì per farsi amare
sembrava a tutti fin troppo bello
che stesse lì a farsi toccare.

E noi cambiavamo molto in fretta
il nostro sogno in illusione
incoraggiati dalla bellezza
vista per televisione
disorientati dalla miseria
e da un po’ di televisione.

Pane e coraggio ci vogliono ancora
che questo mondo non è cambiato
pane e coraggio ci vogliono ancora
sembra che il tempo non sia passato
pane e coraggio commissario
che c’hai il cappello per comandare
pane e fortuna moglie mia
che reggi l’ombrello per riparare.

Per riparare questi figli
dalle ondate del buio mare
e le figlie dagli sguardi
che dovranno sopportare
e le figlie dagli oltraggi
che dovranno sopportare.

Nina ci vogliono scarpe buone
e gambe belle Lucia
Nina ci vogliono scarpe buone
pane e fortuna e così sia
ma soprattutto ci vuole coraggio
a trascinare le nostre suole
da una terra che ci odia
ad un’altra che non ci vuole.

Proprio sul filo della frontiera
commissario ci fai fermare
ma su quella barca troppo piena
non ci potrai più rimandare
su quella barca troppo piena
non ci potremo mai più ritornare.

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