LA MIA ESPERIENZA A LOIYANGALANI (Lago Turkana, Kenya)
Ciao a tutti, ed in particolar modo alla parrocchia del Cuoricino.
Mi è stato espressamente chiesto di narrare la mia esperienza in Africa, nel nord del Kenya, al confine con l’Etiopia, accanto al maestoso lago Turkana, altrimenti detto lago Rodolfo o, poeticamente, “Mare di giada”.
Cosa posso raccontarvi, e come narrarvi sei mesi di vita in quella terra?
Ho fatto un viaggio difficile, ai confini delle forme di vita a noi note, dove vita e non-vita si fondono in un instabile equilibrio, così come una bilancia, sulla quale sono posti i due pesi in eterno conflitto tra loro: vita e morte.
Dico questo con toni pacati e serenamente, poiché ho visto con i miei occhi la morte di giovani consumati dall’hiv, mentre trascendevano nel dispensario cattolico della missione.
Nonostante l’amorevole cura, la necessaria autorevolezza, la piena consapevolezza del senso d’impotenza di sister Agnese, con la quale, non poche volte, guardandoci silenziosamente negli occhi, ci dichiaravamo rassegnati, invitando il paziente a ritornare a casa, per abbandonarsi al caldo e sincero affetto dei propri cari.
Ma altrettante sono state le persone guarite e salvate: ricordo vivamente i due piccoli bimbi strappati alla morsa della malnutrizione; i numerosi malati giunti per infiammazioni varie, causate per lo più dalla sottile polvere sollevata dal fortissimo vento che si abbatte quotidianamente, al tramonto; ragazze di età intorno ai dieci anni, in cerca della scarsa legna disponibile in giro per poter cucinare ed illuminare, alla meglio, la buia notte africana, morse da scorpioni o mortali vipere; casi di malaria, di appendicite acuta; pastori di 16 anni giunti sanguinanti, dopo aver percorso molti km a piedi, feriti con arma da fuoco; e tanti altri sono stati i casi pietosi cui mi son trovato ad assistere e per i quali, nei limiti delle mie possibilità, ho offerto il mio aiuto.
Senza ombra di dubbio è una terra difficile, dall’impatto durissimo: l’unica cosa che ti stimola a rimanervi, è la motivazione per cui sei arrivato.
Io ne avevo una, una missione da compiere. Un progetto da realizzare.
Si trattava di portare un po’ di benessere dal punto di vista alimentare, soprattutto per quanto riguarda la frutta e la verdura, a persone dimenticate da molti ma, per fortuna, non da tutti.
Il vero grande problema, per gli abitanti dello Loiyangalani, è la mancanza di terreno coltivabile.
Pietre, sassi, fossili, rocce roventi, di qualsiasi dimensione, tappezzano quella zona del Kenya per chilometri e chilometri. E’ un luogo ostile alla vita, dal clima torrido caratterizzato da un vento perenne che soffia fortissimo, capace di toccare i 50 km/h, chinando, al suo passaggio, anche le cime delle palme più vetuste.
Si possono avere giornate, specialmente nel mese di febbraio, in cui si registrano 65 gradi di temperatura.
Di giorno tutto è caldo: sedie, tavoli, pareti, pavimenti, porte, piatti, pentole, posate; stessa cosa di notte: il materasso, il cuscino, il termos dell’acqua, tutto sempre così caldo.
Solamente due volte all’anno si può trovare un po’ di refrigerio, durante la stagione delle “grandi piogge” che va da aprile a giugno-luglio, e quella delle “piccole piogge” che, con minor esattezza di calendario, si verifica generalmente tra ottobre e novembre.
In queste condizioni climatiche ed ambientali si è svolto il mio operato.
Ho agito su due differenti comparti: terra ed acqua.
Nel compound di padre Andrew, noto a quelli di voi che hanno letto mie notizie attraverso il blog, abbiamo ricavato un appezzamento di terreno misto a pietraglia. Dopo averlo lavorato intensamente e concimato con materiale organico locale, vi abbiamo seminato angurie, meloni, zucche gialle, cetrioli, bietole, basilico e coste locali, “sukuma wiki”.
A gennaio abbiamo potuto assaporare i gustosissimi primi frutti della nostra “shamba”, così si chiama l’orto nella lingua locale, il kiswahili.
Accanto alla mia camera è stata, invece, realizzata la struttura per contenere il progetto idroponica, una sorta di laboratorio agricolo sperimentale.
Una tecnica di coltivazione fuori suolo: la terra è sostituita da un substrato inerte, fibra di cocco e lana di roccia. La pianta viene irrigata con una soluzione nutritiva costituita dall’acqua e dai composti necessari, come l’azoto, il fosforo ed il potassio, i cosiddetti macronutrienti inorganici, per apportare tutti gli elementi indispensabili alla normale nutrizione minerale.
La tecnica è anche conosciuta con il termine idrocultura.
Così, dopo che tutto era stato compiuto, ho potuto vedere nascere e crescere le piante di pomodoro, rigogliose, dal fusto forte e largo, dal fogliame verde, dai gialli e profumati fiori; ma, purtroppo, i frutti non sono mai arrivati.
L’idea che mi sono fatto in proposito è che l’eccessivo caldo e la presenza del forte vento abbiano ostacolato il volo delle api impollinatrici.
I 6 pannelli solari, necessari per fornire energia elettrica al timer ed alle iniziali lampade, sono stati donati alla missione cattolica della Consolata, nella persona di father Andrew Ndirangu.
Dono, accolto con molta gioia, in quanto ora la missione è divenuta autonoma al 100% per quanto riguarda l’energia da fonte rinnovabile.
E’ stata un’esperienza forte, difficile, ricca di vita e di gioia, di successi e di delusioni.
Ho vissuto nel nulla e col nulla, ma ho vissuto bene.
Il più grande errore a cui ho assistito allo Loiyangalani ?
Il regalare.
I pochi europei provenienti da diverse nazioni e spinti fin qui, hanno regalato senza metodo, indiscriminatamente, a bambini, ragazzi, madri: soldi, vestiti, dolci come manna dal cielo.
Così facendo dimostrano di non rendersi conto di peggiorare, sul piano sociale e su quello della solidarietà esistente all’interno di un’etnia, la condizione di quella popolazione; anziché aiutarla tramite un educato senso civico ed un turismo responsabile, la fanno sprofondare sempre più verso la dipendenza dal bianco, “mzungu”.
Come potranno trovare la loro sacrosanta strada dell’autonomia e dell’antica fierezza dei propri avi ?
Si è arrivati già oggi al punto che, recandovi in quello straordinario luogo ai confini di deserti e savana, potete imbattervi in bimbi che col loro acuto grido di saluto, “Heeeelloooo”, allungando la mano, pretendono soldi o dolci. “Give me 50 shellings”, “Give me sweets”, “Give me”: ossia, dammi che mi spetta di diritto.
Ecco il risultato della regolare, totale diseducazione ed assenza di lungimiranza verso quelle persone.
Possiamo forse definire “carità” un tale comportamento dei turisti?
Personalmente, penso di no.
La cosa più bella che ho potuto vivere allo Loiyangalani ?
La natura.
Si è immersi nello stato originario della natura: acqua, terra, sole, sono così come ai tempi della creazione.
Non vi è contaminazione, fin’ora, del progresso tecnologico dell’Occidente o dell’Estremo Oriente.
L’asprezza di questo territorio è addolcita, in parte, dalla gioia dipinta sui volti dei bambini, che gioiscono per un semplice ballo o un canto fatto insieme, a piedi nudi sulle calde rocce, sotto il sole cocente.
La vita laggiù è semplice.
La natura ne detta il ritmo: con il sorgere del sole inizia il nuovo giorno, e con la visione della straordinaria volta celeste, tempestata di miriadi di stelle luminose, ne segna la fine.
Gabriele Caccia