Oggi mi armo di santa pazienza (più 2 succhi, 4 merendine, un etto di caramelle) e porto al parco i figli di mia sorella. Ale e Marco, gemelli, 5 anni. Li lascio scorrazzare qua e là, senza peraltro perderli d’occhio (e questo lo scrivo nel caso a mia sorella venisse in mente di leggere il mio blog) e mi metto a leggere il Corriere della Sera (in realtà è Chi, ma preferisco tenere un profilo alto, per lo stesso motivo di prima). Ogni due o tre minuti, i miei nipoti, a turno, corrono da me e mi dicono: “Zia, Ale mi ha fatto questo!”, “Zia, Marco mi ha tirato quell’altro”. Così io riesco a leggere sì e no una paginetta. Ad un certo punto, Marco arriva, tutto trafelato e rosso in volto, visibilmente arrabbiato e mi grida, gesticolando come una furia: “Zia, Ale mi ha detto una cosa terribile… ma non mi ricordo quale!”
E allora io mi metto a pensare (capita, a volte, anche me) a come per noi adulti sia uguale. Sei incavolato, sei proprio nero di rabbia per qualcosa che hanno detto. Ma in realtà non ti ricordi quale. (O, se parliamo di politica, forse non l’hai mai nemmeno saputa).