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Pani e Porci: "etic'etta" per salvare l’ambiente

inserito il 25/2/2010 alle 11:31

In Inghilterra quello dei suini è un affare serio. Cominciando dalla sempiterna fetta di bacon languidamente adagiata sulle morbide curve delle uova fritte, continuando con l’inevitabile sandwich al prosciutto di York consumato frettolosamente durante la pausa pranzo, per poi finire con la classica pork pie, magari annaffiata a cena da una solida pinta di birra tiepida e sgasata. Una buona parte dei soggetti di Sua Maestà britannica ha un rapporto quotidiano, quasi simbiotico con il nobile animale, e con il pane çà va sans dire. Considerata dunque l’importanza di tali alimenti nella dieta quotidiana d’oltremanica, si capirà perché i pragmatici inglesi si preoccupino di garantirne la genuinità e la tracciabilità, e soprattutto di offrire ai consumatori alcune certezze sui prodotti consumati, prima fra tutte quella relativa alla loro origine geografica. A guadagnarsi ultimamente l’onore delle cronache sono stati i suini, per i quali un gruppo di pionieri, grandi marchi della distribuzione, ma anche della ristorazione fast food, si sono impegnati a riportare in etichetta o in menu la nazionalità dei soggetti “donatori”. Finora la legge permetteva di “naturalizzare” porci foresti in virtù della semplice lavorazione sul suolo nazionale. Così capitava che un suino continentale acquistasse in etichetta la cittadinanza britannica per il semplice fatto che la lavorazione avveniva in Gran Bretagna. In base a questo meccanismo, all’ignaro e patriottico consumatore venivano regolarmente propinati come “made in UK” prodotti tradizionali come le salsicce di Cumberland o del Lincolnshire, il prosciutto dello Wiltshire, per non parlare delle osannate “pork pies” di Melton Mowbray, tutti elaborati a base di carni provenienti dall’estero. La proposta, che potrebbe presto diventare legge, vieterà in questi casi qualsiasi informazione fuorviante, come immagini di campagne o tipici villaggi inglesi, o la semplice denominazione “made in UK”, imponendo un’etichetta “etica” che riporti molto chiaramente il luogo di nascita, di allevamento e di macellazione delle carni impiegate. Lo scopo di tutto ciò è di ridare ai consumatori la possibilità di una scelta realmente informata, e di poter così privilegiare quegli allevatori che rispettano alcune linee di comportamento, in particolare per quel che riguarda l’impatto ambientale. Così, credendo di premiare i “bravi” allevatori di casa, il consumatore “disinformato” potrebbe benissimo incoraggiare l’utilizzo di OGM nei mangimi, di pesticidi o altri prodotti dannosi per l’ambiente. Totalmente all’oscuro del reale paese d’origine degli ingredienti utilizzati nella sua gustosa salsiccetta, si sarà fidato della rassicurante etichetta con tanto di Union Jack su sfondo di colline verdeggianti. Certo la salsiccia di Cumberland può far sorridere, ma pensiamo ai milioni di cosce dagli incerti natali lavorate ogni anno in Italia e vendute come “made in Italy” o peggio, spacciate per prosciutto di Parma o di san Daniele. In fondo l’unica differenza con quello vero è la mancanza del marchio a fuoco che lo certifichi come prodotto DOP, per cui il disciplinare prevede solamente maiali nati e allevati in dieci regioni italiane, con tutti i controlli sulle normative che proteggono l’ambiente. Quante volte ci siamo sentiti proporre un generico “crudo” senza troppe precisazioni? L’attenzione all’ambiente passa anche per l’accurata scelta di quel che infiliamo nel nostro frigorifero, magari di classe A+, e se ci scappa di provare un albionico prosciutto dello Wiltshire, controlliamogli il passaporto.

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