Nebbia tra notizie, letteratura e caffè

Semplicemente Nebbia. Per tutti quelli del quartiere lui è Nebbia. Ha l’anima del clochard, ma una casa ce l’ha, un piccolo monolocale a due isolati dalla Certosa. Vive di piccoli riti, come un gatto nel suo territorio. Si dice, di lui, che abbia un passato di mille avventure, marinaio sulle navi, sguattero nelle bettole di mezzo mondo e che poi, non si sa come e nemmeno perché, sia approdato lì, in quell’isola tutto sommato vivibile di un quartiere alienante: «La gente pensa, la gente dice. Nessuno sa – dice lui -. Il pettegolezzo è il massimo che si può pretendere, qui, come sui giornali. Ed è pur sempre un grado in più dell’indifferenza, anche se tra indifferenza e pettegolezzo, ormai c’è poca differenza. Stessa monotonia. Perché in questa città ci si rassegna a rimanere nella superficialità. Non si ha più tempo per fermarsi e conoscere cose e persone. Anzi, le persone danno persino un po’ fastidio, metti che poi gli dai una mano e si prendono il braccio». Il suo essere fuori dagli schemi, il suo vivere controcorrente lo fa apparire, agli occhi della gente, come un uomo al confine tra normalità e follia. E lui ci sta a meraviglia in quei panni, così può dire sempre quello che pensa, sulla vita, sul mondo, su tutto. Una volta c’erano i grandi saggi e, lui, dietro quella barba folta un po’ lo sembra: oggi, però, in quello spicchio di periferia non si sa nemmeno cosa siano i saggi. Nebbia è uno strano e basta.

La mattina presto se ne sta seduto a un tavolino all’aperto del bar all’angolo, ha la faccia che sembra Carlo Marx, avvolto in una criniera folta e grigia, barba e capelli, un unica matassa. Piove, nevica, c’è il vento, fa freddo o fa caldo: il suo rito del mattino è sempre lo stesso, davanti a una tazza di caffè, sul viale alberato che porta alla chiesa. In quel bar non ci è mai entrato, ma il suo caffè arriva sempre puntuale, ormai Max, il gestore, è parte del suo rito.
Tra la tazzina e il sigaro ci sono il Corrierone, una freepress, un posacenere e un libro che Nebbia porta sempre con sé: ha la copertina rilegata in carta da pacchi, tanto che sembra sempre lo stesso, ma non è così. Si dice che i libri li vada a cercare dietro il cimitero dove, pare, ci sia un deposito del comune: è roba che dalle biblioteche milanesi va al macero, cultura destinata all’oblìo che lui recupera e rilega con la solita carta. Dal Corsaro Nero edizione del ’59, al Candide di Voltaire di provenienza ignota.

Ogni mattina, dietro a una nuvola di fumo, Nebbia se ne sta lì seduto e scruta uomini, donne e macchine, pensa e legge. E a chi lo interpella risponde con un saluto e, se trova terreno fertile, attacca discorso e commenta quel che gli va: dalla Moratti che non trova gli spalatori, all’ortolano che si è preso uno sganassone gratuito, capitato per caso in una rissa tra fascistelli e finti anarchici, dalla Chantal che scende dall’alcova a bere il cappuccino con le sue scarpe di vernice rossa al cumenda che aspetta il suo turno per salire da lei e, intanto, fuma nervosamente. E poi spulcia le notizie della sua Milano, una città che per intero non ha mai visto. Si è fermato sulla soglia, lì in quell’isola di case tra l’autostrada e il resto del mondo, un mondo che forse ha conosciuto per intero o, forse, è solo leggenda. Non è mai andato oltre quei palazzi e, leggendo le notizie, s’immagina come deve essere Milano più in dentro: «Chissà quanti trapasseranno, oggi, e nessuno lo saprà». Ha appena letto di un vecchio ritrovato cadavere nel suo appartamento, scoperto per caso, dopo settimane d’indifferenza: «Ecco l’immagine di una città, di una società in vacca. Ma a me non mi fregano mica. E non me ne vado da qui, sto in giro, perché quando schiatto voglio che la gente mi veda. Sono il Nebbia, io, nessuno si accorge più di nulla, ma la nebbia, volenti o nolenti, la vedono tutti».

Odio i lunedì … e l’aria frizzantina del mattino

Un tepore torpore dal quale non vorresti uscire. Cinque minuti ancora, per pietà. La fermata dell’autobus, vista Sempione, è il primo fotogramma di una scena di ordinaria tristezza: va in scena il lunedì del pendolare, uomini e donne da marciapiedi e banchine, colletti bianchi e bambini prodigio, ex talenti del giornalismo, precari da scrivania e frustrati del 110 e lode. L’arietta gelida dell’inverno sale dai piedi, s’infila dentro i pantaloni e sale su, fino allo stomaco che, per grazia ricevuta, è ancora vuoto perché alle 6,30 del lunedì mancano la forze anche per il breakfast: l’esperienza insegna a prendere ogni tipo di precauzione contro il terrorismo intestinale, per il bene proprio e degli altri. I brividi spazzano via le ultime tracce di una notte che è sempre troppo breve, ma con l’intima speranza che il viaggio a bordo del torpedone possa in qualche modo prolungare almeno il dormiveglia: il corpo implora un’Autolaghi intasata, ovvero un viaggio interminabile sprofondato in un sedile del pullman, ma la mente è già in un breafing autogeno, ultima variante del training autogeno. Perché il pendolare del ventunesimo secolo è l’ultimo anello dell’evoluzione della specie, un animale di provincia innestato per taléa al polmone marcio della città, la grande Milano, che, vista da piazza Duomo, può ancora stimolare l’orgoglio padano, ma vissuta nelle periferie somiglia a una pentola di zuppa di cavolo troppo piena, lasciata sul fornello in ebollizione: destinata a sbrodolare e spandere puzza ovunque.

Già, la puzza: dopo un fine settimana in provincia, è il primo ceffone che offre la metropoli, ma del fetore ci si accorge soltanto il lunedì, poiché, dal martedì in poi, le narici non sono più in grado di avvertirla e anche il pendolare diventa parte di questa grande puzza. Tre milioni di abitanti attendono l’invasione. Ogni giorno a Milano si sommano ai residenti circa 630mila lavoratori che arrivano in macchina, oltre 80mila in treno, più 28 mila turisti, 8mila tra pazienti provenienti da fuori città in cura presso gli ospedali e i loro accompagnatori. Bisogna poi aggiungere oltre 50mila universitari fuori sede non registrati come milanesi all’anagrafe. Più tutti gli altri, mendicanti, clandestini, uomini invisibili, puttane, fantasmi.  Uomini e mezzi, ognuno con il proprio odore che va a formare, appunto, la grande puzza.   

Fermata viale Certosa, vista Cimitero Maggiore. Si scende. Perché non sei abbastanza “in” per fare il giornalista nei salotti del centro, troppo grezzo per entrare in redazione alle due del pomeriggio. I reporter di provincia, come topi di campagna, cominciano all’alba, scaricati su marciapiedi già occupati dai magùtt che entrano nei cantieri, mentre i viados voltano l’angolo barcollando. Il film è lo stesso per tutti, la trama cambia per ognuno e, come in un musical di Broadway, si cambia lo scenario. Vanno in scena gli attori del giorno, quelli della notte scemano dietro le quinte. I teatranti s’incrociano appena, davanti al bancone di un bar che sforna caffè, indifferenza e bestemmie sull’Inter e sul Milan. Tazzina bollente e croissant, macchie di colore su un tavolino riempito di carta dei quotidiani, per masticare notizie e caffeina. La borsa va giù, Wall street si sgretola, mentre un giovane rumeno sventola un gratta & vinci: «Tu spiega me come io vinco», s’incazza con la barista. Un bancario lì seduto lo guarda e si dà una risposta: «Ne dia uno anche a me». Tell me why, i dont’like Monday…

Qui topo di campagna

L’aria è tiepida stasera, qui sul lago Maggiore. Domani Milano sembrerà diversa, più umana. Per via del Venerdì Santo, la città sarà un po’ meno stretta nella morsa di uno sciame di pendolari, ma io sarò là, come quasi sempre, ai bordi di una metropoli che si allarga e ingloba tutto quel trova sul suo territorio, spazzando via valori e fagocitando degrado. Eppure, brulica di vita quella periferia, è una forza della natura, spesso crudele, a volte addirittura contro natura. Non un reporter d’assalto, ma un modesto pendolare/cronista proverà a confrontarsi ogni giorno con un mondo a metà strada tra romanzo e realtà, raccontato e vissuto da personaggi veri. Imparerete a conoscere Nebbia il clochard filosofo, Chantal la gattona, Ugo il calciatore cuoco, Tano il becchino e tante altre anime di una città spietata. Ecco a voi, le mie favole in chiave giornalistica, cronache di uomini e donne, volti di un mondo distante dagli scoop da prima pagina, più vicino alle saghe di quartiere. Con la voglia di ricacciare i blog nel limbo, tra realtà e fiction, il posto giusto per un semplice strumento che viene spesso sbandierato come nuova via dell’informazione, peraltro mai verificata. Che il blog riabbracci la fantasia, ma che faccia riflettere sulla realtà quotidiana.
In questo caso, ecco a voi la vita e i pensieri di un pendolare tra i pendolari che si confronta con un mondo a metà strada tra Milano e l’hinterland, nelle stazioni malfamate, respirando quel che finisce ai margini, lontano dai portici del centro. Lontano da qui, tra i caffè alla moda si sfogliano i quotidiani nobili e si parla di cultura, di una nuova cultura per Milano, ma qui, tra il Cimitero maggiore e l’inceneritore di Pero, i bimbi rom si vendono a finti intellettuali per pochi euro. Quale cultura, dunque, per una giungla che sputa ai margini, ai suoi confini, la sua anima più ipocrita? Qui nasconde ciò che non vorrebbe vedere, ma che un sorcio di provincia, mascherato da cronista, vi vorrà comunque mostrare.