La rivincita del risotto

Chi fa il risotto più buono di Milano? Il concorso impazza in città. In fondo a viale Certosa c’è Ugo che non raccoglie la sfida, ma da un’ora rimesta la sua pentolona, aggiunge brodo di pollo al suo riso che si ammorbidisce lentamente e manda un profumo di zafferano. Gira e rigira il suo capolavoro con il cucchiaio di legno, nel mezzo della pentola ha messo a macerare una crosta di grana durante la cottura. Venti minuti, venticinque al massimo ed è pronto per essere servito. Attende i clienti al bancone e davanti a lui, a pranzo, si forma la fila degli affamati. Il risotto è lì in attesa, accanto ad altre leccornie, bello esposto dietro un vetro, ma visibile a chi deve scegliere. Il primo in coda è Tano, il becchino: «Damme à soppressata, per cortesia, con un po’ di gorgonzola spalmato», dice. «E un po’ di risutin?» propone Ugo. «No grazie» è la risposta.
Ecco il turno di una dama d’altri tempi, la Matilde dell’impresa di pompe funebri “L’alba”, che forse avrebbe dovuto chiamarsi “il tramonto”, ma lei stessa ha voluto chiamarla in controtendenza, per dare un messaggio di speranza, per chi crede in una vita migliore: «Al ma daga un hotdog, per favore». Ugo s’irrigidisce, prova a trattenersi, ma sbotta: «C’è qui un risottino… e che cazzo. L’ha mai ciapà un wurstel in vita soa, proprio oggi ci è venuta voglia dell’hotdog?». La signora sorride, finge di non capire, ma viene servita comunque, nonostante il brontolio del cuoco.
Terzo della fila, Sauro l’elettrauto, giovane trendy, rasato a grechine, intarsiato di gel e orecchini, pregevolmente agghindato con medaglioni al collo e di una carnagione gialla da autoabbronzante, perché non ha il tempo di andare a farsi le lampade: «Li fai i cisburgher, amico?». Non è giornata: Ugo pianta in asso tutta la fila in attesa e si ritira in cucina con la sua pentola di risotto, mastica un “vacagà” che gli esce così spontaneo soltanto quando sente parlare di nouvelle cuisine. Oggi si autosostituisce, chiama un inserviente a prendere il suo posto al banco della trattoria, va al lavoro dietro le quinte, perché gli sembra una di quelle giornate da prurito alle mani. Ma il suo risotto ripudiato è sempre lì e lui, intanto, medita giustizia.

Passato l’orario del pranzo, mentre la clientela è al caffè, Ugo ritorna in scena con la sua pentolona: esce e si siede a un tavolino all’ingresso, accanto all’esposizione di tombe dell’agenzia “L’alba”. Lì fuori passa il Nebbia che coglie l’attimo: eccolo seduto lì accanto, con la fame dei giorni migliori. La coppia mette in scena una mangiata d’altri tempi, con megapiattoni di risotto che spandono il loro profumo per la via. L’aroma va a stuzzicare l’olfatto non completamente sazio della Matilde che, dopo il pranzo, passa di lì e attacca discorso: «Ma che buon risottone, ragazzi! E l’Ugo il brodo come lo fa? Perché è il brodo che fa la differenza, si sa…».
La risposta, con il volto scuro, non è esattamente da Oxford: «Di supercazzola non lavata». La signora ha un sussulto come di spavento, finge di non capire e rientra in ufficio con l’orecchio attaccato a un telefonino che, in realtà, non ha mai squillato. Un minuto più tardi, è il turno del Sauro che non rimane indifferente, da buon segugio, al profumino: «Minchia Ugo, ma che hai fatto, dai fammi fare un test, un assaggio please». Ugo mangia in silenzio con il Nebbia, alza lo sguardo a s’interrompe: «A te voret un test? Una cucchiaiata?. «Sì». E allora, sbang: lo chiamavano Trinità, con il cucchiaio. Sfodera un colpo sul cranio del Sauro che gli fa risuonare la testa, a conferma che forse è vuota. «Ciapa una bella cugiarata sulla testa, alura». Sauro reagisce con un «cazz, che scherzo di merda», in pieno tenore da buon appetito. Ma non è giornata, nessuno osa più sfidare e provocare Ugo, offeso nell’intimo meneghino. «E domani pastina per tutti», minaccia ad alta voce.

Per saperne di più (www.cibo360.it/cucina/mondo/risotto_milanese.htm)
Il risotto alla milanese è il piatto tipico per eccellenza del cuore economico del nord Italia. Questo piatto molto semplice affascina soprattutto per il colore dorato conferitogli dallo zafferano, ingrediente principale della ricetta. Non tutti sanno, però, che un risotto alla milanese come tradizione vuole contiene il midollo di bue, ingrediente fondamentale per arricchirne il gusto.
I piatti ad effetto, mascherati, contraffatti, multicolori erano prerogativa della cucina araba ed europea medioevale, destinati a stupire i ricchi signori alle tavole dei potenti dell’epoca.
Nel ‘300 il riso veniva coltivato estensivamente solo nel Napoletano. Da qui, grazie agli stretti rapporti che legavano gli Aragonesi ai Visconti e agli Sforza, la sua coltivazione si affermò nella pianura padana ed in particolare nel Vercellese. I primi ricettari trecenteschi iniziano a proporre piatti dove il riso svolge un ruolo fondamentale.

Il progenitore del risotto alla milanese è descritto da Bartolomeo Scappi nella meta’ del’500. La “Vivanda di riso alla Lombarda” era composta da riso bollito e condito a strati con cacio, uova, zucchero, cannella, cervellata (tipico salume milanese colorato di giallo dallo zafferano) e petti di cappone.
Ma è necessario attendere la fine del 1700 perché il riso alla milanese, così come oggi e’ conosciuto, prenda forma. L’anonimo autore della “Oniatologia” (scienza del cibo) titola una sua ricetta “Per far zuppa di riso alla Milanese”, dove il riso, lessato in acqua salata, alla quale si aggiunge un buon pezzo di burro quando bolle, è condito con cannella, parmigiano grattato e sei tuorli d’uova, per fargli acquisire un bel colore giallo.

La ricetta definitiva nasce all’inizio dell’800 nel libro “Cuoco Moderno”, stampato a Milano nel 1809, di un misterioso L.O.G. La sua ricetta: “Riso Giallo in padella”. Cuocere il riso, saltato precedentemente in un soffritto di burro, cervellato, midolla, cipolla, aggiungendo progressivamente brodo caldo nel quale sia stato stemperato dello zafferano.
Ai primi del ‘900 compare anche il vino: l’Artusi fornisce due ricette del Risotto alla Milanese, la prima senza vino e senza midollo e grasso di bue, la seconda con vino bianco, che serve con la sua acidità a sgrassare il palato dall’untuosità del midollo e del grasso di bue.
Ai giorni nostri Gualtiero Marchesi, maestro della cucina creativa, perfeziona la ricetta, consigliando di tostare il riso in poco burro, iniziare la cottura col brodo, poi aggiungere lo zafferano; frattanto fare sudare a parte la cipolla in pochissimo burro e vino bianco, aggiungere burro fresco ben freddo per ottenere una crema omogenea. Mantecare il Risotto, con questo burro, a fine cottura.

Tra il paradiso fiscale e l’inferno

Il Beppe di Musocco sorseggia il suo caffè sceccherato al Parkinson, ovvero a piccoli sorsi scanditi dal tremolio del suo braccio. Per l’occasione ha indossato una giacca che manda odore di tabacco misto a naftalina, dal condominio al bar ha depistato la badante nigeriana stipendiata dal comune, dicendole che sarebbe andato a comprare la sigarette: e, invece, è arrivato al bancone del bar dell’angolo, che dà sulla Certosa. Fuori c’è il Nebbia che pontifica su Silvio e Veronica, novelli Paolo e Francesca che lui ribattezza la “bella e la bestia”. Beppe, invece, dietro il suo nasone paonazzo ha ben altro a cui pensare, sta aspettando il Tino detto “burzìn”, ex partigiano come lui, poi diventato falegname e noto agli amici per il suo attaccamento maniacale al denaro. Tirchio quanto basta, sempre sul chi va là su dare, ma ben più sull’avere, attento osservatore del mercato dal marciapiede antistante la Cassa di risparmio, dove è stato posto uno strano televisore che informa dell’andamento delle borse e dei titoli. «Il momento è serio – aveva avvisato l’altro giorno sulla panchina del parco -, prima o poi si sbaffano tutto, compresi i tuoi quattro soldi…», e aveva terrorizzato il Beppe che, dopo una vita a lavorare alla Pirelli, si ritrova a gestire un estratto conto da 3.783 euro e 22 centesimi. «Ga veur na sulusiùn – aveva risposto lui-. con lo stesso fervore di quando ci si trovava a parlare al buio nelle baite dell’Ossola, in tempo di guerra». Duri e puri, il Tino e il Beppe, mai piegati al perbenismo di questi tempi. Anche a costo di finire in commissariato a ottanta e passa anni, con la fama di sovversivi. Reato? Tre settimane fa, alle sei del mattino, si fecero beccare da un metronotte con i pantaloni abbassati mentre pisciavano sulle saracinesche del centro sociale di ultradestra “Cuore nero”, una ragazzata che un tempo finiva con uno scatto a gambe levate e una risata, oggi, con la sciatica, l’asma e la tachicardìa congiunte, si è risolto con una misera debacle.

La “sulusiùn” il Tino ce l’ha scolpita in mente da tempo, per anni ha meditato, ma mai aveva osato, per via del senso dello Stato che tuttavia cozzava spesso con la sua anima capitalista, e anche perché lo sconfinamento in un paradiso fiscale, secondo la sua coscienza, lo faceva assomigliare troppo a Berlusconi. «Ma restare in bolletta è ben diverso che non pagar le tasse, sacramento!». Il paradiso fiscale del Tino e del Beppe è Chiasso, un’oasi del risparmio in fuga a trentatré minuti d’auto dalla Certosa, cinquanta forse poco più in sella alla Gina, la Lambretta resuscitata per l’occasione. Onoratissima carriera sulle strade e nelle campagne della Brianza, dove il Tino andava a lavorare in un mobilificio, molto tempo fa: «Anca par fala partire ghe veuran i danée», aveva riconosciuto, suo malgrado, il Beppe. Per giorni i due si erano asserragliati nel garage del Tino dopo aver raccattato marmitte e pezzi di ricambio da Ciro lo sfasciacarrozze. Ma tutto doveva essere in regola per la grande fuga, bollo assicurazione, caschi: «Non dobbiamo destar sospetto», aveva avvertito il Tino. E il Beppe si era adeguato, a cominciare dalla Carta d’identità rinnovata di fresco: «E giò altri danée». Poiché Tino ci metteva l’idea e i mezzi, al Beppe toccava l’investimento iniziale, Milano-Chiasso e ritorno, tutto compreso. Il giorno precedente era andato in banca e prelevare tutto, suscitando qualche perplessità nell’impiegato allo sportello: «Ci ho delle spese, lei non le ha?», si era giustificato grattandosi la crapa spelacchiata. I suoi 3.783 euro, però, li aveva riottenuti e intascati, rigorosamente nascosti all’interno dei calzini, tanto che lo spessore delle banconote sotto i talloni lo facevano zoppicare più del solito. Nel frattempo, il Tino aveva fatto il suo, nascondendo nelle mutande i suoi 4.129 euro frutto risparmiati in 82 primavere, un rotolino accuratamente infilato sul davanti che gli davano un certo orgoglio poiché, a prima vista, la sua mutanda sembrava nascondere una virilità ritrovata. «E ma racumandi, acqua in bocca», aveva avvisato il Beppe.

Ed ora, ecco il gran giorno, ritrovo al bar dell’angolo. Il Tino è in ritardo di qualche minuto, ma dopo il caffè, Beppe ritrova vigore, è pronto e già con il casco in testa, stile Mugello. «Ma se t’è gnu in ment», gli grida il Tino appena dopo aver parcheggiato la Lambretta lì sul marciapiede. Si avvicina circospetto: «Cunt il casco in cò, pirla! Bisognava essere più sobri, facciamo gl’indifferenti», gli bisbiglia sottovoce nel bar stracolmo di operai, studenti e impiegate in attesa della propria tazzina. Ripasso generale della grande fuga, metro per metro: non lì, ma in bagno «lontano da orecchi indiscreti».

Tre minuti, non di più, tutto chiaro, si parte: il tempo di cacciare fuori il nasone dal bar e scatta un “istu” a tutto volume… Gina, la Lambretta, saluta in impennata e se ne va sotto il sedere di un grasso teppista dalla testa rasata , facendo il dito medio, sparisce dietro l’angolo lasciando in scia l’urlo di battaglia: «Assssorrreta!». Il Tino vorrebbe inseguirlo, ma al primo passo si ferma e si mette le mani al petto, un dolore gli toglie il fiato, la vista s’annebbia è il segnale, suona la campana, ma è quella della Certosa, per fortuna. Beppe ha il naso blu mirtillo, ma il cuore regge: «Vile sabotaggio, vaccaboia». Rumori di sirene, corsa al pronto soccorso, la tempra del vecchio partigiano non può piegar sial destino, al segnale venuto da chissà dove, forse anche dal cielo per ricordargli che la via per il paradiso (fiscale) è lunga e in salita. Il Tino, però, si vede già all’inferno, sente di non aver più nulla da perdere. Sulla barella del pronto soccorso, il suo volto si apre in un ghigno beffardo: la massa informe del corpo sfatto nasconde un fiero dardo proprio lì sotto le mutande, ovvero 4.000 euro arrotolati ad effetto sorpresa. Lo sguardo non indifferente dell’infermiera, ignara del trucco, lo ripaga della cocente delusione. Oggi, come nel 43, l’imperativo è resistere.

Erba, sangue e cani al Gallaratese

Dove finisce Milano oggi c’è un coltello insanguinato. Nebbia non ha voglia di scherzare, passa e va. Uomini e bestie non si distinguono più sotto la lurida skyline di una periferia. Trent’anni fa, i cattedratici applaudivano al Gallaratese come a un’opera dell’ingegno e dell’architettura ed è da quel giorno che, lì, dove finisce Milano, si è davvero cominciato a non distinguere più tra bestie e uomini. In un grigio parco di periferia c’è una primavera che non riesce a lavare via lo sporco di decine di cani in processione, tutti a cagare, sotto lo sguardo assente dei loro padroni, un vecchietto scatarra sull’erba bagnata dal sangue di una povera donna, poco più in là due studenti pomiciano, due ragazzine starnazzano con lo sguardo appiccicato ai loro telefonini, una signora fuma e richiama il proprio figlioletto mentre getta a terra, sul vialetto, il suo mozzicone in mezzo a miliardi di cicche. In centro e sui giornali s’infervora il dibattito sulla cultura, nomi illustri in prima fila, parole vuote, ma di bell’effetto. In un parco di periferia, invece, si respira aria putrida di una società in decomposizione: uomini e bestie, o forse solo bestie, tirano a sera per accendere la tivù. Un coltello insanguinato non arresta la lenta routine di un mondo indifferente, una donna assassinata su una panchina è fagocitata dalla noia quotidiana.

94.000 vedove e un rubacuori (seconda parte)

Un pegno d’amore a misura di gregario: non un appartamento in riviera, non una Lamborghini coupé, ma un ciclocomputer, evoluzione del vecchio contachilometri, feticcio da ciclosuonato, voluto per mero riscontro scientifico della sua prestazione sul giro, quello dei suoi mausolei della miglior vita, 1.000 metri da registrare metro per metro con media oraria. Perché Tano non specula sull’amore, non fa il gigolo, ma è un artista double face, giorno e notte, nel surplace alla Maspes e nel tango casqué con finale “champagne”, plaisir des femmes.

Due giorni, anzi tre: la rossa inconsolata vacilla sotto un assedio che sa di dopobarba, coccole per la mente del becchino gentiluomo. E tra quelle tombe e la lapide del Gianni, la donna si è accorta di quanta vita scorra lì, dentro un camposanto: brulicano quei vialetti fioriti, sotto un cielo tornato azzurro. Tano, a suo modo, è un benefattore: riporta alla vita sensi che sembrano ingrigirsi. Altri due giorni e scatta il primo appuntamento, poi il secondo, poi il terzo e, al quarto, ecco il momento della resa: appuntamento al buio, motel con specchi e materasso ad acqua, zona tangenziale, mordi e fuggi. Rose destinate al ricordo degli estinti cambiano destinazione: il fioraio sul piazzale del Maggiore è di buonumore quando confeziona un mazzo che farà palpitare un cuore, anziché far da sigillo floreale a una gelida sepoltura. «Non capita quasi mai da queste parti», commenta ad alta voce. «Non andranno sprecati», replica Tano.

Dodici ore più tardi, il fioraio strabuzza gli occhi nel veder Tano passare, lentamente, quasi tramortito, accanto al marciapiede, in sella alla sua bicicletta color nero senza scritte: volto tumefatto, fisico sofferente, animo a pezzi. «Non avrai mica trovato un cornuto ad aspettarti?», lo aggancia dall’uscio del chiosco.
«No, sono vittima di una belva assassina», risponde sconsolato. E si ferma lì accanto, in sella, ma con il piede sul marciapiede, a spiegare la sua disgrazia, a discutere con l’amico, a cercar conforto, raccogliendo invece sfottò, non cattivi, ma comunque dolorosi. Al motel, Tano è capitolato più o meno così: ritrovo al buio con porta che si apre dall’interno, Drupi in sottofondo intona “Piccola e fragile”. La porta richiusa dietro le spalle e, in una frazione di secondo, montante al mento da capogiro e calcio in culo con stivale in cuoio lucido. Preliminari alla Mike Tyson, lui senza fiato, lampadine che si riaccendono e fanno luce su una femmina indiavolata, tutta fruste e borchie. Alla signora piace così, le rose si sbriciolano sotto un tacco a spillo, come la poesia. L’ultimo dei romantici incassa come una zampogna: «’A capa ‘e sotto, fa perdere ‘a capa ‘e coppa», è il suo unico commento a bassa voce. Fuga in bicicletta a metà della prima ripresa, nemmeno la brillantina lo assiste più, pedala con una cresta strapazzata e la vedova urlante: «Non andartene, ti prego».
Uomo distrutto negli attributi e nel carattere ricomincia a vivere nel suo camposanto. Solo una sgambata a fine pomeriggio, lo può ritemprare. C’è un consolatore da consolare, perso tra camere ardenti e sepolture da allestire. Ora basta, invece di una sigaretta c’è un ciclocomputer da sfidare: «Voglio vedere quanto impiego ad arrivare da zero a quaranta all’ora», pensa tra sé, mentre spolvera la sua bici nascosta in un bugigattolo vicino all’ingresso. Pausa ciclismo, dunque: con il collega Capuano a fargli da starter. Occhi puntati alla tecnologia, a quell’oggettino elettronico fissato sul manubrio, vialetto delle rimembranze deserto, pronti, via. Un istante, una visione, un incubo, a centro strada si materializza lei, la rossa: «Tano! Tano mio!». Terrore mozzafiato, svolta a destra e via a testa bassa a più non posso.

Destino vuole che le esequie del povero Sante Augello, ex netturbino, seguano un percorso alternativo, causa lavori: lo stesso del povero Tano che alza appena lo sguardo e si accorge del carro funebre, lì a un metro. Immagini confuse e concitate: una bici prosegue da sola la sua marcia lungo il vialetto andando a sbattere contro la lapide del geometra Facchinetti. Tano precipita a corpo morto sul cofano, sfondandolo con un botto da pelle d’oca. La vedova Augello in preda a un collasso, corteo nel panico, un vecchietto sopravvissuto alla campagna di Russia va in tachicardia e non si tiene: «U Signùr cara Madona». Solo il povero Sante, rigido nel feretro, rimane impassibile a osservare la scena. Segno del cielo, qualcuno lo interpreta così, ma non il proprietario del carro che libera dal cuore un’ode che sale su, nell’alto dei cieli. Mezzo mondo impegnato a soccorrere la vedova che, per volere degli spiriti, viene riportata alla vita, nel suo affacciarsi all’aldilà dev’essersi ravveduta: Sante vai avanti tu, per ora.
Tano in versione meteorite celeste passa in secondo piano, anzi nessuno lo nota più: in un baleno rotola giù dal cofano, recupera la bici e scappa via. La vicenda avrà strascichi, il destino è crudele e in meno di dodici ore finisce una gloriosa carriera. «Ed ero appena a trentaquattro all’ora», pensa tra sé. Consolazione degli afflitti, missione impossibile in questa società: «Da domani si cambia, si va in balera». Ma la signora Augello, come le altre 94.000 milanesi, ora, reclama una spiegazione.

94.000 vedove e un rubacuori (prima parte)

Capolinea del 14, finisce Milano, comincia il camposanto. La metropoli dei morti, con le sue strade e i suoi monumenti, ritrovo per un popolo con il velo, luogo di culto per 100.000 vedove, ma anche il velodromo di Tano. Piscopo Gaetano, cinquantacinque chili di maschio mediterraneo sotto un etto di brillantina Linetti. Masculo da Casoria a Milano, dalle sopracciglia a cespuglio, di professione becchino, ma con sentimento. Nel senso che, nella sua vita tra il cimitero Maggiore e il monolocale di Quarto Oggiaro, va dove lo porta il cuore. E il cuore di Tano vede due sole cose: la «fessa», come dice lui alzando il mento con orgoglio, e la bicicletta. Un becchino sensibile, insomma, ma professionale sul lavoro. Tra una messa da requiem e una sepoltura, trova il tempo per dare sfogo alle sue passioni. Mai provato a pedalare a Quarto Oggiaro? E a tacchinare? La risposta a entrambi i quesiti è la stessa: meglio il camposanto. La giornata è lunga, al Maggiore, e le strade della passione sono infinite: chilometri di vialetti, velodromo dei sogni per inscenare sfide immaginarie e pedalate reali, negli orari di scarsa affluenza e con il benestare del suo superiore terreno (tifoso di Pantani) e, probabilmente, anche del caporeparto ultraterreno, non avendo mai ricevuto malefici né dal cielo, né dall’inferno. E lì che la lacrima della vedova diventa rito quotidiano, anima in pena tra anime celesti, cuore da consolare. Dove non arriva più l’anima del marito, giunge la preghiera e quando nemmeno la preghiera può, Tano può.

L’approccio alle quarantenni è la sua specialità, come la volata in spazi stretti, due esercizi che mette in scena in orari generalmente diversi, ma con egual classe. In mente ha tutta la mappa delle sepolture che, a seconda degli orari, diventano terreno di caccia o percorsi ideali. Tra il fu Gilberto Pirola, classe 19, e la lapide della marchesa Torelli, di questi tempi va in scena la tragedia di una signora in tailleur grigio e cappello con retina, dal quale s’intravvedono riccioli rossi di una sensualità peccaminosa in quel luogo, almeno per i benpensanti. E il volto di quella creatura, rigato dalle lacrime non è sfuggito all’uomo brillantina, che dopo attenta valutazione, una passata di pettine e aggiustatina alla cravatta, mette in scena il suo miglior repertorio. Faccia contrita, ma occhio sveglio, si avvicina e si ferma quanto basta: «Eh povero Gianni, solo tu mi sapevi capire», recita a mezzavoce, ma con un tono sufficientemente alto da farsi sentire dalla signora lì accanto. «Ma come, lo conosceva anche lei?», sospira la sconsolata.
«Conosceva? Se non lo conoscevo io, chi semmai? Siamo cresciuti insieme».
«Anche lei è cresciuto alla Barona?», ridomanda lei.
«La mia famiglia è emigrata tanto tempo fa, io e il Gianni eravamo inseparabili», risposta che fa da conforto alla vedova rossa che, da quell’istante, avverte un senso di solidarietà, un senso di condivisione del dolore che induce a ridurre le distanza tra lei e quell’uomo che, se era amico di Gianni, non è più un estraneo.

La dinamica vincente di Tano è più meno sempre la stessa, strategia della consolazione che, a volte, richiede lungo corteggiamento, altre volte esplode in passione bollente in pochi giorni, dipende da caso a caso, ma quasi mai va a vuoto. Tano ci sa fare. Come quella volta in cui consolò la moglie del banchiere. Avete capito bene: banchiere, non bancario. Ricca ereditiera che, per superare il trauma della vedovanza, impiegò sette settimane, ma ritrovò stimoli da troppo tempo affogati nelle lacrime grazie a una crociera sul suo panfilo e a un maggiordomo tuttofare. E quel maggiordomo era Tano che seppe conquistarsi anche un premio partita: «Dimmi cosa vuoi come regalo», gli aveva chiesto la ricca signora. «Un ciclocomputer», era stata la sua risposta immediata. (…) continua

L’incubo della crisi

L’ultimo scatolone è colmo, nastro isolante e via: carte, documenti, cancelleria, persino la foto della miss tappa su cornice di finta madreperla, il poster di Gino Bartali e Fausto Coppi, una bottiglia di Vecchia Romagna da cui attingo da anni nei momenti difficili, per digerire il capo. Tutto pronto per il trasloco, carichi in movimento dall’ufficio a un fantastico camion con scritto sopra “metti il tuo pacco in buone mani”. All’uscita dell’azienda che smobilita campeggia un megastriscione con un bel disegno e una scritta: “Ci trasferiamo qui”, con mappa e immagine digitale di un plastico del “giardino dell’Eden” con uffici paradiso, parco fiorito e uccellini che svolazzano.
L’indomani si cambia, un saluto alla sciantosa che, per una volta, mi ferma sull’uscio e mi prende in disparte…. La mia lingua già fatica a contenersi, è già felpata, ma la sciantosa ha ben altro da dirmi: «Sai che ci chiedono di non lavorare per i prossimi due giorni? È per via della crisi e con il trasloco ne approfittano». «Ma va?». Sono fortunato io, nessuno mi ha detto nulla, sono fuori da questa operazione, nessuna crisi, si lavora e basta.

Rientro in cuccia, cena, tivù, sei ore di sonno, risveglio impastato, ripartenza in autobus, prima di essere scaricato al solito pos…. eh no! Ma dove cavolo sto andando? Oggi si va più in là, oltre il confine della città, nella non città che appartiene a un’altra città…dicesi hinterland o periferia o un posto piazzato lì. Anzi più in là, con solarium vista inceneritore e dehor sulla tangenziale. Perché così il lavoratore si tempra ed è preparato alle magagne della vita…la voglia di andare più in là, uno la trova nell’animo interiore. E così il lavoratore non guarda più fuori dalla finestra, non si distrae, lavora e basta: è una teoria da Minculpop, che si evolve in Minculeiozitt.
Aria nuova, sa di cavolo lesso, ma nuova. Deviazione dalla fermata del bus, un chilometro in linea d’aria, mezz’ora con i mezzi… sob. Tappa dura, ma arrivo a destinazione, mi guardo attorno, cerco di ritrovarmi nel fantastico poster paradiso che avevo visto riprodotto sullo striscione del giorno precedente. Cerco di capire. Controllo l’indirizzo, è giusto, c’è anche il Merletti e guarda là, «ragionier Buzzini!, come va?».
«Per fortuna anche lei qui, pensavo di aver sbagliato indirizzo, ma ora sono più tranquillo».
«Già, ma… non c’è quel… e nemmeno il… beh, il citofono e il numero civico corrispondono. Suono».

Un bullmastiff da 90 chili balza fuori da un portico della villetta che sorge al posto della nuova azienda. In contemporanea una voce metallica esce dal citofono…«qu è». Resto paralizzato, senza parole, anche il ragionier Buzzini sembra un Capodimonte. Passa un minuto e sulla porta in fondo al giardino si fa vedere un cingalese di due metri, vestito da maggiordomo. Mi esce finalmente una domanda: «Ah… è lei il nuovo portiere?». Domanda pronunciata con un vibrato tendente all’isterico, con l’ultima sillaba che si smorza nella disperazione. In mano, il cingalese sembra tenere qualcosa, come un mazzo di rose, ma più s’avvicina, il mazzo di rose perde le rose. Si apre il cancello e il bullmastiff prende l’iniziativa. Sensazione di bagnato nelle mutande, il velocista che è in me esce allo scoperto… «Se ne vada, lazarùn d’un extracomunitario», mi grida il maggiordomo.

E via di corsa, a perdifiato. «Coraggio ragioniere, faccia Carl Lewis».
Gambe in spalla con vista inceneritore… dalla ciminiera mi sembra di scorgere una nuvola a forma di Gino Bartali e Fausto Coppi, a forma di Vecchia Romagna, a forma di miss tappa e quella sensazione di strada senza uscita, di lenzuola che ti avvolgono le gambe, di sudore sulla fronte, di fatemi uscire prima di tirare una craniata sulla sponda del letto.

Stelle e pianeti alla fermata del bus

Barnaba Oriani, illustre astronomo: che avrà fatto di male costui? Aveva studiato una vita per diventare l’orgoglio di una città e, invece, Milano gli ha intitolato la strada più intasata e tossica, con vista cavalcavia dell’autostrada e, un piano sotto, marciapiedi davanti all’entrata e all’uscita dalla città, verso i laghi, Torino e la Brianza. Proprio lì, c’è la fermata d’autobus più unta d’Italia, sul retro di un fast food, tutti in piedi sul marciapiede, chi in apnea, chi a pieni polmoni, immersi in una bolla di scarico della città. Concentrazione di marmitte incazzate, clacson isterici e un cielo che, a volte, non si vede nemmeno: Barnaba Oriani, che hai fatto di così terribile? Un astronomo, per una strada quasi senza cielo. Unico conforto: un metro quadrato di edicola, con tanto di separé per i pornolettori. Esistono ancora: oggi sono per lo più pensionati esclusi dal grande pornodromo mediatico, il web. Una volta c’erano il Nando e il Tromba, oggi i titoli sono più aggressivi, internazionali, ma lo stile anni Ottanta del voyeur è rimasto identico: Corriere della Sera “special edition” con allegato invisibile all’interno. Johnny, l’edicolante, conosce già tutta la scena a memoria, e anche il prezzo. Dieci euro lasciati lì da una sagoma, sul banchetto, nove più il prezzo del quotidiano, niente resto e rapido allontanamento dietro ai classici occhiali neri.
Tre metri più in là, pendolari in attesa, corpi che ciondolano sul posto, da un piede all’altro. Uomini e donne in stand-by, cento e più occhi fissi sul fiume impazzito di automobili in fuga, pensieri che vagano e scavano nei meandri di una giornata o magari nelle scollature generose di qualche segretaria. Alla fermata, oggi, è scoppiata l’estate. Ad aprile, il sole rammollisce già il bitume del marciapiede: senza pensiline, il solarium di via Oriani segna impietosamente la zona ascelle delle camicie d’impiegati sfatti dalle bizze di una settimana filata via a suon di “senz’altro signor direttore”. Per arrivare fin lì, sfidano la sorte alla roulette del pendolare: slalom e scatto felino da un marciapiede all’altro, in orario di punta e senza strisce pedonali. Sembra che tutto scorra a nastro, ma ecco la tragedia: tacco 12 e cosciona languida sotto una minigonna vertiginosa, fondoschiena da poster avvolto in un tessuto che sembra Domopak. La pantera mette il piede giù dal marciapiede e, taaaac, anche il Suv più cafone inchioda per farla attraversare. Con i pendolari non succede, ma con lei sì. Una frazione di secondo, non di più, e si torna alla realtà, ovvero a un crash da pelle d’oca, lamiere di una Panda proletaria che si sbriciolano contro il Suv, indistruttibile: litanie di vaffanculo e constatazione “amichevole” compilata con il cric sventolato come una bandiera… La pantera si volta appena e la poesia finisce: Ramona, completissima da Rio de Janerio, raggiunge il suo ufficio sotto il cavalcavia. Prima di entrare in servizio, piscia in piedi dietro la colonna. E proprio lì, trecento anni fa, Barnaba Oriani studiava le stelle e i pianeti.

Rubato un Pomodoro

«… mi sarei aspettato una melanzana». Il volto di Nebbia è corrucciato stamattina, dietro a una nuvola di fumo e a un foglio di giornale. «Un pomodoro del valore stimato di 50.000 euro. Ma l’arte, si dice, non ha prezzo… e se ce l’ha, secondo me, significa che non è arte, ma roba da ortomercato. Oggi tra le cassette scaricate dai camion ho rubato anch’io. Con questi prezzi, non si può fare altrimenti. Ma non c’è strada, bisogna arrangiarsi, io sto con Obama, ma Obama non sta con me, quando è il momento di mettere qualcosa sotto i denti».
È tempo di semina, negli orti abusivi ai confini della città: non esattamente il giardino della Casa Bianca, ma i muri di cinta imbiancati del Cimitero Maggiore fanno da riparo a un’improvvisata piantagione di clochard contadini: Nebbia ha le sue piantine di pomodoro ben nascoste, dall’altra parte della strada. Ci va a dare un’occhiatina ogni giorno, dopo pranzo. «Passo di là a concimare, tutto naturale e io sono regolare, come un orologio». E le piantine crescono bene. «Ma mai come quelle del Tarcisio, giù vicino al cavalcavia», si lamenta. Vengono da tutta Milano a comprargli i germogli, si dice: «E io mi chiedo, ma cosa cavolo mangia per averle già così alte? No non sarà questione di concime e nemmeno di terreno, li avrà prese dai cinesi quei semi, una qualità che resiste». Ma i suoi sospetti vanno oltre l’invidia per l’erba del vicino: «Stai a vedere che c’entra qualcosa anche il Tarcisio con quel pomodoro rubato? Ieri c’erano i carabinieri con la mosca al naso…, ma il Tarcisio corre veloce, è scappato, e le piantine migliori le ha già vendute ai signori con la Mercedes». Jack, il barista, lo guarda e non sa se ridere o preoccuparsi: «Nebbia, sei sicuro che non c’entri nulla? Guarda che poi ti chiamano a testimoniare!».
«E che me ne fotte, hanno visto di persona che io faccio l’orto bio e basta. Entrano nella mia vita senza chiedere permesso e poi cosa pretendono? Mi hanno cercato loro, nonostante fossi ben accovacciato. La volante si è fermata a bordo strada, i carramba hanno tirato giù il finestrino e uno mi ha chiesto: “che fa?”, “non vede? concimo”, gli ho risposto. E volevano denunciarmi per atti osceni. Poi, però, hanno detto di andarmene che dovevano lavorare».
Si indaga sull’orto dei miracoli, ma intanto le piantine continuano a crescere un po’ più in là, anzi quasi nell’aldilà. Oltre le mura imbiancate del cimitero, sotto la lapide del fu Osvaldo Rossi, classe 1903, c’è un gran viavai di ortolani. “L’amore per la patria, generò un eroe, l’Italia tutta esprime somma riconoscenza”. E anche la luna cresce, intanto, ma è presto per sapere se sarà una buona estate per i pomodori.

La trattoria dell’ex terzino

Piedi e spalle da terzino, bestia nera dei centravanti di provincia, quando il football era la favola di giovani con le scarpe grosse e la pancia vuota. Ma un piatto di minestra non lo si nega a nessuno, «Ugo piantala di tirare calci al vento, vegn a cà», c’è da lavorare, operai in bicicletta da sfamare: fine del sogno. C’era la fila fuori. Così ordinò il padre, così ha fatto lui. Vista cimitero, al capolinea del quattordici, eccolo portare avanti la trattoria, volto squadrato, naso scolpito: sembra un pugile, ma è la risposta meneghina al fast food, “mangia alla svelta” e torna a lavorare.
C’è ancora la fila fuori, gli operai sono spariti, ma i becchini del Maggiore ci sono sempre, per quelli non c’è cassa integrazione. Là, dietro il cimitero, finisce Milano, davanti, invece, l’industria della vedovanza è sempre florida e, anche se sembrerà umorismo nero, il tempo pare essersi fermato. E qualche “sciura” col velo nero, di tanto in tanto, non rinuncia a consolarsi con un piatto di trippa fumante, ma soltanto dopo il rituale saluto al caro estinto. Pancia piena e pace all’anima sua.

Verso i quartieri “bene”, la concorrenza è un fiorire di lounge café, brunch, happy hour, burger land, sushi bar: Ugo, invece, rimesta pentole che sembrano vecchie di cent’anni, ma non invecchiano. Perché laggiù, sotto i portici, Milano è diventata una città bugiarda, che mente a se stessa e agli altri: qui, invece, si respira sincerità, la si distingue ancora bene nel profumo di vino di un brasato. Ugo non mente, qui si mangia quel che c’è e guai a chi storce il naso: è la rivincita dei “pulpett cunt i verz” contro ai nuggets precotti e unti, dell’onesta cotoletta che, altrove, soccombe con insalatine plastico/dietetiche. Nervetti e cipolle contro rucola e gamberetti, carpione di curegùn opposto al pesce crudo giapponese.

Una zuppa di fagioli non ha mai mentito, caso mai lo fanno, dopo, i becchini del turno del pomeriggio, con balle che puzzano di zolfo e fuochi fatui, ma in una redazione di giornale non c’è scampo, meglio evitarsi gli sguardi atterriti di segretarie “drogate” di Chanel: una più prudente lasagna non manca mai, come alternativa. Basta non darla vinta al fish & chips o agli involtini primavera.
C’è la fila fuori, ma Ugo serve “fast”. Anche il suo cuore, ogni tanto, corre veloce, tanto da far sospirare la signora che gli sta accanto da sempre, o quasi. “Niente paura, resisto”, risponde lui, facendo le corna. La grinta del terzino c’è ancora, c’è sempre traccia di quel sogno “anni Sessanta” affogato in un paiolo di polenta, ma riaffiora di tanto in tanto, accompagnato da un bicchiere di bonarda. Sincero, non mente mai.

Pina va in pensione e «Forza Milan»

«Sei per sette? Dunque, sei per sette diviso quattro, più tredici…Frenco, lo fai anche tu il sistemone?». Pina, la barista non si separa mai dalla sua calcolatrice, una Sciarp, sottomarca comprata al discount, ma perfettamente funzionante. Forse. «Quanto pago?». «Il caffè più il giornale, dunque… ottanta più un euro, uguale uno e ottanta. Che mi dai, cinque euro? Ok, due e venti di resto a te». «Se vogliamo essere pignoli, mi deve ancora un euro di resto, se vogliamo…». «Vogliamo? Ah, che sbadata, ho sbagliato a schiacciare i tasti. Sa, queste calcolatrici hanno sempre i tasti troppo piccoli, io comincio a vederci poco…». La sua è una forma di astigmatismo per eccesso, mai per difetto, però. Ma i clienti fedeli la perdonano: ci prova sempre, ma è così simpatica…

E il sistemone? Sono giorni che fa i conti, c’è il Superenalotto, jackpot da favola, che mette a dura prova la Sciarp. Tutte le mattine, scatta il tormentone che è diventato un affare di quartiere: «Una quota, vuole comprare una quota? Un euro, due euro, cinque euro». La squadra conta già 20 giocatori, si punta ad arrivare a trenta, trenta sognatori che, puntualmente, al lunedì mattina li ritrovi tutti lì, a pensare a quel 22 che non è uscito, anzi che non esce da mesi. «Ma è meglio non cambiare, facciamo sempre la stessa giocata». La Pina suggerisce la strategia, tira le fila di questo plotoncino di devoti alla cabala che, prima o poi, dicono, mostrerà loro le terga e li sommergerà di fortuna. Per ora, le terga le porge il popolo che si affida alle illusioni delle roulette di Stato: «E lo zio vince anche stavolta», sfotte un meccanico in tuta blu, che sorseggia al banco il suo cappuccio. «E lo zio chi sarebbe, il governo?» ribatte la Pina indispettita. «Il Berlusca vince sempre, comunque», è la risposta pronta.
Pasticcio fatto: con la politica di mezzo, scattano i battibecchi. Talk show in corso. Caffè e grappino alle sette e mezza, Gazzetta sul tavolo, il vecchietto del piano di sopra ha la sua massima: «Quant la merda la munta al scagn, o che la spussa o la fa dagn». Silenzio. Facce perplesse, punti di domanda stampati negli sguardi: «asssorreta, che minchia hai detto?», risponde il più colto dei teatranti. «Forsa Inter, Milanista dal menga», rilancia. E a questo punto, è tutto chiaro e i toni sbracano, ma la Pina getta acqua sul fuoco: «Gratta e vinci, fatevi un gratta e vinci e finitela lì», e distribuisce biglietti che sono pur sempre un euro in più da mettere nel cassetto, oltre agli ottanta per il caffè.
Nel frattempo, uno studentello va a pagarsi la merenda: «Un croissant». «Un cruà? E che è?!», alza lo sguardo al cielo, la Pina. «Una brioche!», riprova lui. «Ahh, così è chiaro. So’ di Foggia, io. Mica lo parlo il francese». Subito dietro, in coda, c’è il meccanico che ha fretta: «Pina ho vinto, paga qui paga qui! Dieci euro, ma vai!!!!». Commento urbi et orbi del vecchietto: «Quand v’un l’è furtunà ga pioeuv int al cuu anca quand l’è setà». Il chierichetto in tuta blu riscuote la vincita e intona il suo alleluia: «Forza Milan» e così sia.
Qualche secondo di silenzio, parlano solo i fogli della Gazzetta e del Corriere che si sfogliano ai tavoli: Kakà rinuncia a 19 milioni di euro l’anno offerti dal Manchester City. «Grande uomo, gesto fatto col cuore». Sbarcherà il lunario con i 6 milioni e rotti che prende in Italia. Il borbottìo intermilanista s’interrompe: «Oggi, ultima giocata. Da domani largo ai giovani». La clientela non capisce, la Pina spiega: «Domani vado in pensione, faccio la nonna a tempo pieno». Nessuno trova le parole, tranne il solito “politologo” che si sente in dovere di rincuorare tutti: «Eccccè la crisi, signori, c’è la crisi eppure si va ancora in pensione. Se non c’era a Berlusconi, altro che pensione!». Intanto, mentre parla, brucia il suo quindicesimo euro al videopoker.