Nel mondo del pesce “made in Africa”

Nei post precedenti vi ho detto che il Senegal vive principalmente di pesca. Durante il mio mese a Dakar sono andato a visitare il secondo porto del Paese, Joal-Fadiouth. Si tratta di una cittadina a 5 ore a sud di Dakar, meta anche di molti turisti. Questo perchè Joal si trova vicinissima all’isola di Fadiouth, un piccolo angolo di paradiso completamente ricoperto da conchiglie bianche in mezzo ad una rigogliosa laguna.

Ma la nostra “missione” non era certo quella di visitare i negozietti sull’isola o di fare un giro in piroga per la placida laguna. Il nostro obiettivo era andare là dove nessun turista si addentrerebbe mai: il mercato del pesce. A Joal, infatti, eravamo in “servizio” per il CESES, la Ong che ci ha ospitato in Senegal, per effettuare un reportage tra le donne di un’associazione che sarà presto oggetto di un progetto di cooperazione. Oggi però non voglio parlarvi di questo progetto -ancora da definire nei dettagli- ma di quello che ho visto nel secondo porto del Senegal.


Partiamo dalla pesca. In Senegal non ci sono grossi pescherecci come quelli che siamo abituati vedere solcare i nostri mari. I pesci vengono catturati da coloratissime piroghe di legno che solcano le impetuose onde dell’Atlantico. Una volta riempita la barca di pescato, le piroghe tornano a riva. Di porti non c’è traccia. Le imbarcazioni ormeggiano alla fonda, poco lontani dalle rive della spiaggia che brulica di persone. Inizia così una lenta processione di uomini che, indossando una cerata, si immergono nelle acque, arrivano fino alle sponde delle barche dove ricevono una cassa di pesce. Tenendola sulla testa ritornano a riva e portano il pesce a destinazione. Alcune casse vengono scaricate direttamente sulla sabbia mentre altre sono portate al mercato, qualche decina di metri più indietro.

Nel mercato il pesce viene “malamente” scaricato sul cemento bagnato che fa da pavimento. Vengono organizzati diversi cumuli di pesce in base alla barca di provenienza e al tipo e attorno ad ogni pigna si affollano i compratori. Questi ultimi scelgono il pesce che desiderano acquistare e poi un’altra serie di uomini si occupa del carico sui camion. Il pesce viene raccolto in altre ceste, coperto di ghiaccio e portato ai camion frigoriferi che aspettano schierati su un lato della struttura. Una volta caricati partono verso le fabbriche di lavorazione. E oltre ai grossi mercanti ci sono anche le donne che vengono a comprare piccole quantità di pesce.

L’odore di pesce marcio penetra fin dentro i polmoni, pozze di acqua stagnante segnano la strada per arrivare al mercato e il pavimento su cui vengono scaricati i pesci non brilla per pulizia. Ma se le realtà del mercato può colpire, non è nulla in confronto al luogo dove il pesce viene affumicato. Noi siamo andati lì non per masochismo ma per il reportage per l’associazione e quello che ho visto è incredibile.

Il colpo d’occhio è incredibile. Tutti i numerosi banchi e forni sono immersi nei rifiuti. La discarica della città è tutt’attorno a tavoli pieni di pesce -sopratutto sardine- che verranno venduti sul mercato internazionale (solo africano, non temete). Con grande disinvoltura le donne, piegate su lunghi forni, mostrano come si prepara il pesce per il processo di affumicazione e poco importa se il pesce è gettato a terra, vicinissimo al pattume e con un maiale grosso come un vitello (giuro che era enorme!) che si aggira famelico tra i forni. Una volta “cotto a puntino”, il pesce viene preso, spezzettato in piccole parti e deposto su lunghe tavolate al sole per essiccare. E se qualche gabbiano decidesse di fermarsi a banchettare su quei tavoli, nulla glielo impedirebbe (e infatti è quello che accade regolarmente).

Girando per quei luoghi mi sono posto una domanda: è giusto cercare di cambiare queste abitudini? E la risposta che mi sono dato è sì. E non è un “sì” dato per etnocentrismo, per mire colonizzatrici, per paternalismo o dato guardando dall’alto in basso gli africani. E’ un “sì” dettato dalla volontà di aiutare un popolo a migliorare le sue condizioni. Noi occidentali disponiamo di conoscenze che una donna nata e cresciuta in un villaggio a 100 km da Dakar non può avere e non è per niente arrogante o etnocentrico il condividere i nostri saperi. Non è un caso che l’aspettativa di vita di un africano sia nettamente inferiore alla nostra.

Questo mio pensiero ha trovato conferma in una delle prime cose che le donne di Joal ci hanno detto: «abbiamo bisogno di formazione». E se tutto andrà bene, grazie al CESES un centinaio di loro verrà formato nelle migliori scuole di pescatori italiane per poi trasmettere le loro conoscenze alle compagne in patria. Vi terrò informati su questo progetto e, a breve, vi farò sapere i modi con i quali potrete sostenerlo.

 

Marco

Lezioni di tolleranza

Lunedì 29 agosto è stato un grande giorno di festa per milioni di persone in tutto il mondo. Era la Korite, la fine del ramadan. Quando cioè è calato il sole è calato anche il sipario sul mese di digiuno e astinenza a cui ogni anno i mussulmani devono sottoporsi.

L’elemento principale del ramadan -e forse anche quello più duro- è il digiuno di liquidi e cibi dalle 5 del mattino fino alle 19.30 circa ma non è la sola prescrizione che caratterizza il mese sacro. Fumare, avere rapporti sessuali, cantare, ballare e altro ancora sono importanti punti che rendono il ramadan un mese decisamente ostico.Ma quest’anno poi, il ramadan è stato più duro del solito. Cadendo in pieno agosto, ha reso ognuna di queste prove ancora più difficile da affrontare. Provate voi a non bere per tutto il giorno sotto il sole africano e poi mi dite 🙂

Ed è interessante notare che, comunque, durante tutto il mese la vita per gli islamici non cambia poi più di tanto, almeno fino al tramonto. Durante il giorno la vita procede come durante il resto dell’anno (si deve pur lavorare) ma quando il sole supera la linea dell’orizzonte, però, scatta l’ “ndogou”. Ora, io pensavo che dopo un giorno intero di digiuno, la prima cosa dopo il tramonto fosse lo sgolarsi una bottiglia d’acqua e strafogarsi con qualche cibo, ma così non è. C’è una grande dignità nell’iniziare a mangiare, quasi a voler dire che il digiuno non è stato poi così pesante. Solitamente, quindi, si inizia con una bevanda calda molto zuccherata per poi crescere. Un panino, uno snack, qualcosa giusto per placare l’inevitabile appetito perchè per la cena, quella vera, c’è ancora molto da aspettare. Il vero e proprio pasto viene consumato a tarda notte. Poi c’è qualche eccezione. Una volta uno dei nostri accompagnatori era così affamato che, appena iniziato l’ndogu, stava mangiando una merendina con tanto di carta.

Comunque, se da un punto di vista pratico per i mussulmani non cambia nulla, per la società cambia molto. Infatti, i tempi e i ritmi della città si piegano alle esigenze dei mussulmani. Per la strada, ad esempio, fino al tramonto è raro vedere uno dei soliti venditori ambulanti di cibo ma anche trovare una baguette al mattino è molto difficile. E’ infatti solo dal tardo pomeriggio che le panetterie iniziano ad infondere il delicato sapore di pane appena sfornato per le strade della città ed è poco prima dell’ndogu che le donne allestiscono i propri banchetti per le strade.

Questo adeguamento dei ritmi è una delle tante prove della grandissima tolleranza inter-religiosa del Senegal. Nel paese, ovviamente, non ci sono solo mussulmani ma anche cristiani e animisti (quest’ultimo diffuso più nelle zone rurali). Tutte e tre le confessioni convivono in maniera assolutamente pacifica. Chiese sorgono accanto a moschee e non c’è alcun problema a confessare pubblicamente la propria fede. Le persone girano per le strade indossando rosari -sia mussulmani che cristiani- e nello stesso gruppo di amici la religione non è in alcun modo un elemento discriminante. Capita così che, nel bel mezzo del ramadan, ti ritrovi al tavolo di un bar con mussulmani e cristiani e, se all’inizio sei un po’ intimorito dall’ordinare una birra, sono gli stessi islamici ad invitarti a farlo. Stesso discorso vale per una bella grigliata di carne di maiale.

Il Senegal offre una lezione di tolleranza da cui il civile occidente dovrebbe prendere esempio. Ancora viva è nella mia mente la campagna elettorale per il comune di Milano giocata molto -forse troppo- sul “rischio Moschea” in città. Mi permetto quindi di lasciarvi con un consiglio: quando discutendo sulla costruzione di moschee nella laica Italia salterà fuori un acuto osservatore con la classica frase «ma a casa loro le chiese non si possono costruire» voi pensate al Senegal e -se avrete voglia- ditelo anche al vostro interlocutore.

Marco

Mal d’Africa

Sono in Italia. Dopo esattamente un mese passato in Senegal dal pomeriggio di ieri i miei piedi camminano su terra italiana e, devo ammetterlo, è traumatico. Ogni volta che torno da un viaggio, mi capita sempre di trovare qualche difficoltà a riadattarmi ai ritmi e alla vita di tutti i giorni ma questa volta è decisamente un altro discorso.

Il mese che ho passato in Africa è stato così diverso -sotto mille punti di vista- che tornare alla vita da toubab non sarà facile. Il modo di vivere in Senegal -come spero di avervi fatto capire con questo blog- è estremamente differente dal nostro e, sotto alcuni aspetti, oserei dire migliore. Certo è che la comodità dell’acqua corrente, la sicurezza dell’elettricità senza black out o il miracolo della carta igienica un po’ mi sono mancati ma mi sono reso conto che non solo è possibile vivere benissimo anche senza tutte queste nostre comodità ma che milioni di persone lo fanno. Non che prima non lo sapessi, ovvio, ma quando provi una cosa con mano l’effetto è molto più profondo. E così, mangiare per terra da uno stesso piatto, lavarsi con secchi d’acqua, il muezzin che canta alle 5 del mattino o il vivere a lume di candela sono diventati la normalità per me.

Ma c’è di più. La sera prima di partire ho passato molto tempo sul balcone della nostra casa e, sferzato da un fresco vento, mi guardavo intorno; il container arrugginito in fondo alla strada, i cavalli legati davanti al campo da calcio, la chiesa del quartiere, le oceaniche pozzanghere, i bambini che giocano in mezzo alla via, la sabbia, le capre al pascolo e mille altri dettagli si sono stampati nella mia mente perchè -solo in quel momento me ne sono reso veramente conto- di lì a poco non li avrei più rivisti per molto tempo. E se ora guardo fuori dalla finestra di camera mia, per le strade di bambini che giocano non se ne vedono proprio, la sabbia è “diventata” l’erba delle aiuole, asfalto e cemento ricoprono quasi ogni centimetro di terra e gli animali per strada si sono trasformati in automobili. Capite bene che guardare fuori dalla finestra metta un’immensa tristezza. Un sentimento che cresce ancora di più quando vedi due passanti che si incrociano, quasi si sfiorano, ma non si degnano di nessun cenno.

E infatti, abitando in quello che è il Paese più bello del mondo, sono proprio le persone a mancarmi di più del Senegal. Anche se un mese non è poi così lungo, il rapporto instaurato con alcuni di loro è stato così profondo che, più che amici, sono diventati quasi fratelli. Salutarli non è stato facile e, detto con sincerità, gli occhiali da sole hanno reso tutto molto più facile.

Durante il viaggio di ritorno, in aereo ho chiacchierato per molto tempo con la persona seduta accanto a me raccontandole della mia esperienza. Dopo avermi ascoltato, come se fosse un dottore,  mi ha detto «è chiaro che ti sei ammalato». Di quale malattia si tratti non è difficile intuirlo: il mal d’Africa, la sensazione di grande nostalgia che provano le persone che tornano dal continente nero. Da notare che non si trattava di un dottore qualunque ma di una suora missionaria in Africa da 13 anni…quindi c’è da fidarsi 🙂

Ma c’è un fatto, un dettaglio, che riesce a mitigare questa incurabile malattia. E’ la consapevolezza che il mio allontanamento dal Senegal è solo momentaneo. Sono mille i sogni e i progetti che balenano nella mente mia e degli altri ragazzi -toubab e senegalesi- e che cercheremo di realizzare in futuro, magari anche con il vostro aiuto.

Alla fine, abbiamo pur sempre 20 anni!

 

Marco

 

P.S. Anche se ormai non sono più in Senegal, ho ancora una discreta mole di storie da raccontarvi…quindi tornate anche nei prossimi giorni!

Vivere, studiare e lavorare a Dakar

Dakar é una città di quasi 3 milioni di abitanti (stando ai dati ufficiali) e, dopo un mese di permanenza, penso di aver capito abbastanza bene cosa facciano i suoi abitanti durante la giornata.

Partiamo dai più piccoli. I bambini che vanno a scuola non sono molti per una complessa serie di motivi. Qui, infatti, le famiglie sono estremamente numerose e mandare tutta la prole a scuola getterebbe sul lastrico moltissimi nuclei familiari. E cosi’, specialmente in quelle con minori disponibilità economiche, si fanno delle scelte. In questa triste “competizione” tra fratelli, inutile dirlo, le donne partono estremamente svantaggiate. Ma camminando per le strade, capita di incontrare molti bambini che chiedono l’elemosina. Devo ammettere che è difficile dire no a quegli occhioni dolci che ti fissano imperturbabili, a quei visi scavati e a quelle mani magrissime ma, pensando razionalmente, i soldi che darei loro non finirebbero mai nelle loro tasche. Infatti, la maggioranza dei bambini per le strade di Dakar sono alunni delle scuole coraniche. In queste scuole i bambini vengono affidati dalle loro famiglie ad un Marabut che dovrebbe occuparsi della loro educazione e provvedere al loro mantenimento ma non sempre i Marabut sono animati da filantropici sentimenti e i bambini per le strade a chiedere l’elemosina ne sono una prova. Ovviamente, non é possibile generalizzare: non tutte le scuole coraniche funzionano in questo modo, sia chiaro.

Con l’aumentare dell’età, i destini dei ragazzi si differenziano ancora di più.

Sono pochi igiovani che proseguono gli studi e moltidi questi lo fanno grazie anche a borse di studio. Un giorno, mentre andavo in centro Dakar in taxi, una folla di ragazzi ostruiva la strada. Erano proprio i giovani studenti in coda davanti alla sede principale di una banca che quel giorno assegnava le borse di studio per il prossimo anno accademico. Ma i ragazzi che studiano sono una percentuale molto piccola tra i giovani. La gran parte non va a scuola ma inizia a trovarsi lavoretti in botteghe artigianali: falegnamerie, sartorie, panifici e cosi’ via. Molti altri, invece, si occupano di “trasporto merci”. I carretti trainati da cavalli, infatti, hanno conducenti che difficilmente superano i 25 anni. Anche in questo caso, la strada per le donne è un po’ più complicata. Le giovani donne si occupano principalmente delle faccende di casa e la loro educazione viene piuttosto tralasciata.

Passiamo quindi ai genitori. Se chiedi ad un ragazzo delle banlieue che lavoro faccia il padre o la madre, c’é un’altissima probabilità che ti risponda che non lo sa. Non é un qualcosa che deve stupire; qui i lavoratori che noi chiameremmo a “tempo indeterminato” sono molto pochi e la maggior parte delle persone vive arrangiandosi e inventandosi lavori. Ad esempio, sulle strade di scorrimento di Dakar –che in realtà sono sempre un lungo serpentone di auto in colonna- sono dozzine gli uomini e le donne che vendono qualunque tipo di merce. Si va dai pacchetti di anacardi fino ai giornali passando per accessori per cellulare, cd, ricariche telefoniche, cibo, bevande e cosi’ via. Riuscire a vendere qualcosa è un’impresa e non ho idea di quanti soldi queste persone riescano a portare a casa la sera (pochi, questo è certo). Oltre a questa grossa categoria, ci sono quelli che un lavoro più o meno stabile lo hanno. Ad esempio i pescatori che, grazie a coloratissime piroghe, riempiono di pesce i banchi del mercato. E sono proprio i mercanti, sopratutto di sesso femminile, a costituirsi come un’altra grande fetta degli occupati. Ma il mercato non è il solo posto dove si vendono prodotti sulle bancherelle. Infatti, ogni zona della città, ogni via, ogni incrocio puo’ diventare location ideale per fare il proprio business. Basta un tavolino e molta fantasia per diventare commercianti e, sopratutto in questo periodo di ramadan, i venditoridi cibo ambulante –ovviamente dopo il tramonto- pullulano per le strade. In questi posti è possible mangiare un panino (mezza baguette) farcitissimo a 450 franchi, circa 80 centesimi. Ci sono poi molti che si occupano dei trasporti e del turismo, uno dei pilastri dell’economia senegalese.

E infine ci sono le persone che non fanno nulla. Sono tante, forse troppe, me se di lavoro “vero” non ce n’è, non possono mica vendere tutti ricariche per telefonini o manghi lungo il ciglio di una strada.

Acqua sulla sabbia

imageE’ arrivata. Pensavamo di averla scampata ma, invece, in coda al nostro viaggio, siamo riusciti a prenderne le prime avvisaglie. Di cosa sto parlando? Della stagione delle piogge!

Infatti in Africa è vero che non piove praticamente mai, ma quando succede il continente nero non si fa mancare proprio nulla. Io sapevo che sarei venuto in questa parte di Africa nel momento forse meno opportuno ma non ero preparato a “come” gestire i nubifragi dal lato pratico.

Partiamo dalle strade. Voi investireste in canali di scolo dell’acqua con piogge un paio di mesi all’anno? Direi di no. Ed è proprio il ragionamento che devono aver fatto a Dakar mentre costruivano le strade. Qui, quando piove, non si tratta più di attraversare le strade ma sarebbe più opportuno parlare di “guadare un fiume”. Non avendo tombini, l’acqua corre seguendo la pendenza delle strade e, una volta raggiunto il punto piùbasso, li’ rimane. Si creano cosi’ pozzanghere di fango che occuperanno le strade per nessuno sa quanto tempo.

Ma oltre a piccoli laghi (che hanno un non so che di caratteristico), i cittadini di Dakar devono fare i conti anche con il fango. Le strade, infatti, sono normalmente ricoperte da un soffice strato di sabbia che, una volta bagnato, ricopre l’asfalto di una patina scivolosa. E’ un paesaggio che ricorda vagamente quello delle nostre città di inverno, quando la neve sulle strade inizia a sciogliersi. Inutile che vi dica a che genere di ingorghi vadano incontro gli automobilisti in questi momenti ma, posso assicurarvi, che essere su un taxi durante un acquazzone è molto “divertente”.

Ma anche una volta raggiunta la vostra meta, non pensate di rimanere all’asciutto. Qui, infatti, quasi ogni casa ha un grosso lucernario al centro della struttura per permettere sfruttare sopratutto le correnti d’aria e climatizzare le  stanze. Il non avere una copertura, sebbene sia una manna dal cielo nelle calde giornate estive, quando piove si trasforma in una disgrazia. Secchiate d’acqua piovono fino al piano terra che viene, quasi sempre, parzialmente allagato. Ma se piove storto (ipotesi poi non cosi’ remota) neanche i piani superiori possono ritenersi immuni.

Ma al di là dei piccoli inconvenienti –come il tuo taxi che si impaltana nel mezzo di una pozzanghera- la pioggia in Africa è sempre una benedizione. La stragrande maggioranza dell’acqua consumata, infatti, arriva da falde che si riempiono proprio di pioggia. Il ritardo di quasi due mesi dell’arrivo delle precipitazioni in Senegal aveva già fatto balenare nella mente di qualcuno lo spettro della crisi del Corno d’Africa, in ginocchio per una siccità senza precedenti.

E adesso il Senegal si aspetta un settembre ricco di piogge per poter affrontare il resto dell’anno con tranquillità quindi…ben venga pioggia (tanto tra qualche giorno torno in Italia 😉 )

Marco

Goree, un’isola che ha fatto la storia

Oggi l’isola di Goree è un paradiso a 20 minuti di nave da Dakar. Una piccola isola con case basse e colorate, una vegetazione rigogliosa, spiagge bianchissime e un fresco vento oceanico. Ma se questo paradiso, riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità è così famoso, lo deve a ben meno nobili motivi. Goree è l’isola da cui per 300 anni sono partiti gli schiavi neri per le americhe. E anche le bellissime case in stile portoghese che riempiono l’isola, nelle quali oggi si può soggiornare a prezzi stracciati, hanno una storia molto antica. Sono sorte con l’arrivo dei primi mercanti di schiavi e sono state l’ultimo scorcio di Africa per milioni di uomini, donne e bambini.

Erano ben 38 le case sull’isola che servivano ai mercanti per contrattare i prezzi. Sono tutte simili. Dietro ad un grosso portone di legno si apre un piccolo cortile con un edificio a due piani. Il piano inferiore era destinato ai futuri schiavi che erano stipati a dozzine in camere quadrate di 1,60 metri per lato. Le famiglie venivano separate non appena varcavano quei portoni: uomini con uomini, donne con donne, bambini con bambini e difficilmente si rivedevano. Gli schiavi venivano fatti uscire una sola volta al giorno per sgranchirsi le gambe e per andare in bagno; il resto del tempo lo passavano in piedi, appoggiati gli uni contro gli altri. Di fianco a questi veri e propri loculi, ci sono altri tipi di stanze. Ci sono le stanze dove gli schiavi venivano pesati, camere destinate alle persone che non si rassegnavano al loro destino, quelle per chi era troppo magro e aveva bisogno di ingrassare e infine locali destinati  alle vergini. Proprio per queste ultime, il destino era ancora peggiore di tutti gli altri schiavi. Puntualmente, i mercanti della casa scendevano e sceglievano una ragazza da stuprare al piano superiore, dove erano presenti le loro stanze. “come facevano a vivere lassù sapendo quello che succedeva qui sotto” si è chiesto uno dei ragazzi di Dakar che ci ha accompagnato in questo giro e, da toubab, non puoi far altro che vergognarti per ciò che è stato fatto in passato.

Ma se fa impressione girare per queste stanze, manca proprio il fiato quando si arriva in fondo alla casa. In fondo ad un lungo e buio corridoio, infatti, una piccola porticina si apre sull’oceano e, attraverso un pontile di legno, conduceva alle navi  sarebbero approdate in America. Ed è proprio quel posto, in cui oggi dozzine di turisti si ammassano per farsi cinicamente fotografare, a costituire l’ultimo pezzo di suolo africano per milioni di uomini strappati alle loro terre, alle loro famiglie, alle loro vite.

Ma il trauma della tratta degli schiavi non viene quasi mai compreso in tutta la sua tragicità. Per secoli, infatti, mercanti europei senza scrupoli hanno selezionato solo gli uomini e le donne “migliori” tra tutti i villaggi. L’intero continente è stato privato per lunghissimo tempo delle sue braccia più forti impedendo, di fatto, uno sviluppo serio e continuativo. Ci sono oggi numerose teorie antropologiche che imputano i problemi del continente proprio al fatto di averlo saccheggiato per lungo tempo delle sue personalità migliori.

E i moderni flussi migratori non pongono forse la stessa questione in altri termini?

Problemi di energia

Viaggiando lungo le strade del Senegal stupisce la quasi totale assenza di fabbriche. Tra tutti gli spostamenti che ho fatto ho visto solo due industrie di grosse dimensioni: un cementificio avvolto da una asfissiante polvere a pochi chilometri da Dakar e un’industria chimica alle porte di Mboro che, tra l’altro, risulta essere la fabbrica più grande di tutta l’africa occidentale. Con due sole industrie nel raggio di circa 200 km, su cosa si regge l’economia? Pesca e turismo, questa è la risposta. Capite bene che un sistema economico di questo tipo è molto fragile.  In primo luogo la pesca –di cui molto arriva in occidente- per ovvie ragioni si puo’ praticare solo lungo le coste atlantiche mentre i turisti si concentrano a sud dello Stato, nella bellissima regione della Casamance (sotto il Gambia) che è oggetto di moti secessionisti. Ma anche volendo, investire in industrie in Senegal è molto difficile.

Infatti, il più grande problema che affligge il paese riguarda l’energia elettrica. Di norma, i black out spengono quartieri o città intere circa 1 o 2 volte al giorno. Capita cosi’ di camminare per le strade e imbattersi in falegnami, fabbri, sarti, artigiani con le mani in mano, stesi su tappeti nell’attesa del ritorno della tensione per far funzionare i macchinari. Sono pochi gli esercizi commerciali o le persone in possesso di un gruppo elettrogeno che è colonna sonora -e segnale- dell’arrivo dello stop. Ma i disagi non si fermano certo qui. Pensate ad un commerciante i cui frigoriferi si spengono a ripetizione durante la giornata per un tempo imprecisato, che fa dei suoi prodotti? Li butta tutte le volte?

La causa dei black out è un mistero. La versione ufficiale della società che gestisce la rete elettrica di Dakar è che, a causa di infrastrutture troppo vecchie per le esigenze della città, quando l’energia richiesta dalle utenze é troppa, la rete non sarebbe in grado di  distribuirla e quindi si blocca tutto il sistema per evitare il collasso della rete. Molti cittadini invece accusano il governo. Dicono che i soldi per comprare il petrolio per far funzionare le centrali “sparisce” misteriosamente e quindi bisogna razionare quello che c’è. Qualunque sia il motivo, lo sperco di energia in tutta la città è comunque evidente. Ad esempio, mentre scrivo (sono le 6 del pomeriggio qui e il sole è ancora alto sull’orizzonte) i lampioni nella strada davanti all’ufficio sono accesi per non si sa quale ragione.

Ma anche quando la corrente c’è, ci possono essere altri problemi altrettanto seri. Infatti, non sempre dalle prese elettriche “sgorga” corrente a 220 V ma il voltaggio puo’ ondeggiare senza preavviso. Questo causa enormi danni agli apparecchi elettrici che non sono dotati di speciali protezioni che qui in Senegal rimangono piuttosto costose.

Tuttavia, chi investe nel paese c’é. I cinesi, ad esempio, stanno spendendo moltissimo per infrastrutturare il paese ma la strada é ancora lunga e il lavoro da fare ancora molto. . In ogni caso è difficile pensare ad un serio sviluppo industriale con l’energia elettrica che funziona a singhiozzo.

In questo contesto si inserisce anche uno dei progetti che CESES ha in Senegal. Si tratta di dotare il liceo Limamoulaye di una copertura con pannelli fotovoltaici per garantire al luogo pubblico di continuare a funzionare normalmente anche quando la corrente non vuole arrivare. Ad oggi, pero’, il progetto pare essersi arenato. Il milione e mezzo stanziato dal ministero degli affari esteri Italiano rimarrà congelato fino a quando il governo senegalese non farà partire la ristrutturazione dell’intera scuola. Questo vincolo non è poi cosi’ stringente se si pensa che i soldi per i lavori di ristrutturazione sono già stati trovati ma sono inutilizzati per via di un rimpallo burocratico tra i vari ministeri. E se la situazione non si sbloccherà entro fine anno, tutto il progetto rischia di saltare. 

Sulle strade di Dakar

Venendo in Africa, la preoccupazione maggiore è stata quella delle malattie. Vaccini, medicine, profilassi hanno invaso il mio corpo per settimane per poi accorgermi che il più grande rischio in Senegal non arriva da virus o zanzare ma…dalle strade!

Girare per le strade di Dakar o di qualunque altra città senegalese può essere un’esperienza letale. Il primo grande rischio è il traffico. La città è continuamente congestionata da auto, bus, camion e qualche intraprendente motocicletta che si muovono in lunghi serpentoni a velocità piuttosto variabile. Sulle strade di grande scorrimento che dal centro della città corrono attraverso tutte le banlieue, le macchine sfrecciano a velocità altissime e il sorpasso sulla destra è forse più comune di quello a sinistra. Una volta lasciate queste strade principali, la velocità si riduce enormemente. Non certo per paura di investire qualche passante ma per il semplice fatto che le strade sembrano bombardate. L’asfalto –quando c’è- è costellato da buche o dune di sabbia che obbligano i conducenti a ridurre enormemente la velocità per evitare di ribaltarsi. E dove di buche non ce ne sono, ci pensano dossi alti come palizzate ad impedire alle lancette del tachimetro di alzarsi troppo. Poi certo, ci sono anche molti altri ostacoli da superare sulle strade di Dakar come branchi di orrende capre che pascolano allegramente sull’asfalto, ma a queste si bada poco.

E c’è un modo per segnalare il fatto tu stia superando sulla destra o che stia accostando (rigorosamente in mezzo alla strada) o per avvisare qualcuno che sta per essere investito…ed è il clacson. Qualunque cosa si faccia sulle strade è accompagnata da un colpo di clacson. Le strade sono così un gracchiante sinfonia di clacson piu’ o meno acuti.

Da notare che il parco macchine che si muove per il Senegal probabilmente ha un’età media che supera abbondantemente i miei vent’anni. Ci sono automobili che rimangono in vita solo grazie all’accanimento terapeutico di meccanici dalle mani d’oro. Questi meccanici saranno sì bravi, ma contro l’inquinamento sono impotenti. L’aria che esce dai tubi di scarico di queste auto zombie fa male al cuore, ve lo giuro :-).

Ma come ci si muove a Dakar?

Tralasciando chi possiede una macchina propria, il mezzo relativamente piu’ caro è il taxi. I taxi sono auto tutto sommato funzionanti di colore giallo e nero i cui conducenti domano senza paura per le strade cittadine. Non è un problema viaggiare anche in 8 sulla stessa macchina da 5 persone, basta semplicemente pagare qualche franco in piu’ e il gioco è fatto. Un gradino sotto in questa classifica basata sui prezzi ci sono i cosiddetti taxi collettivi. Si tratta di normalissime auto private che ricoprono tratte conosciute tra diversi punti delle banlieue ad un prezzo fisso a seconda della destinazione. Al terzo posto della classifica ci sono gli autobus di linea. Il servizio è capillare, le linee sono moltissime e i mezzi sono generalmente abbastanza nuovi. Esistono 3 diverse fasce di prezzo a seconda della destinazione che, in ogni caso, rimangono molto basse. L’unico piccolo inconveniente è che spesso questi bus sono strapieni, ma nulla in confronto ai “car rapid”. I car rapid non saprei come definirli: non hanno marca (corre voce che siano mercedes), non hanno una forma conosciuta in Europa ma sono tutti coloratissimi. Si tratta del mezzo piu’ economico per muoversi a Dakar ma è anche il piu’ scomodo. Tralasciando ammortizzatori e sospensioni, i posti a sedere sono pochissimi e non c’è alcun limite al numero di passeggeri. Questi mezzi si possono caricare viaggiatori in qualunque punto della città, basta fare un cenno al ragazzo addetto “al carico” che picchietterà sulla carrozzeria dando segnale all’autista di fermarsi. Ora, il lavoro di questo ragazzo credo sia uno dei piu’ pericolosi mai visti: rimane per ore ed ore sotto il sole aggrappato con le unghie alla carrozzeria e poggiandosi solo su una piccola pedana di legno.

All’ultimo posto di questa classifica ci sarebbero i carretti trainati dai cavalli…ma questo è un altro discorso 🙂

Marco

P.S. Nei giorni scorsi, a causa di un problema alla rete internet non ho potuto aggiornare il blog. Da oggi, comunque,  dovrei riuscire a pubblicare notizie dal Senegal tutti i giorni.

Un giorno da “vero” africano

Mboro è un villaggio. Se siete come me, la parola “villaggio” vi avrà evocato immagini di capanne di paglia e fieno, pozzi profondissimi, sporadiche palme e terra arida. Ma, come ho già spiegato nei post precedenti, questa immagine è piuttosto lontana dalla realtà.

I villaggi senegalesi non sono più quelli di una volta senza corrente elettrica, senza tecnologia, senza quella che noi toubab chiamiamo -forse un po’ arrogantemente- civiltà. Oggi questi insediamenti avranno l’illuminazione, gli internet point, i mercati e così via ma rimangono comunque caratteristiche uniche, impensabili in occidente.

Io credo che basti una sola giornata per poter afferrare almeno le principali caratteristiche della vita di villaggio.

Cosa c’è di meglio che svegliarsi alle prime luci dell’alba grazie al canto del gallo? Forse il continuare a dormire 🙂 ma farlo non è poi così facile. Infatti, se riesci a superare la botta del caldo soffocante già di prima mattina, un nuovo problema si preannuncia: l’acqua. Non tutte le case sono dotate di collegamento alla rete idrica (che comunque non risulta troppo affidabile) e non tutte hanno un pozzo proprio. Così, mentre gli uomini si muovono verso i campi, le strade di Mboro si riempiono di uomini, donne e bambini con secchi o taniche sulla testa per fare scorte d’acqua. E se sei un tuobab, è con il cigolare dei secchi del pozzo che la tua giornata inizia e ti prepari per la prima attività della giornata: fare colazione.

La colazione senegalese è una tra le cose più caloriche della storia. Pane, burro e “nutella” (anche se il paragone non regge assolutamente), magari con uno yogurt e il tutto accompagnato da tè extra zuccherato. Nelle colazioni più ricche si può trovare anche caffè solubile e latte in polvere che vengono preparati non con la banale acqua calda ma con il tè. Una mattina mi è capitato un beverone con tutte e 3 le bevande insieme…da provare!

Ristorati da questa “leggera” colazione, tutto è pronto per fare una doccia che lavi via il sudore notturno. Ma come si fa la doccia nella vera Africa? Facile: secchio, bacinella, sapone e via! Le prime volte ti trovi un po’ impacciato. Abituato a litri e litri di acqua che ti piovono addosso, non è facile giostrarti con due sole mani tra tutte le “complesse” operazioni da compiere e per di più bisogna stare anche attenti a non finire l’acqua del secchio. Ma con l’andare delle docce il tutto diventa estremamente più facile e anzi, capita che ti ritrovi lavato a fondo e con ancora mezzo secchio pieno.

Ma se il problema della doccia può venire agilmente superato, andare al bagno può sembrare un ostacolo insormontabile. I bagni in Africa sono tutti più o meno simili: una turca, un secchio pieno d’acqua e una bacinella (e per i più fortunati qualche simpatica blatta ad assisterti). Carta igienica e sciacquone non esistono proprio. E quindi be’…fai quello che devi fare e poi con la bacinella ti pulisci e “tiri l’acqua”.

Quando arriva l’ora del pranzo, sono ore che le donne cucinano. Il piatto principale, il riso, ha infatti bisogno di una lunga preparazione preliminare. Le buste sottovuoto da un chilo sono un miraggio. In Senegal bisogna scartare da grossi sacchi da mezzo quintale di riso cinese i chicchi cattivi e anche gli eventuali piccoli vermi che saltuariamente si possono incontrare. E’ un lavoro molto meticoloso che richiede diverso tempo e, una volta finito, si può passare in cucina. “Cucina” è una parola forse un po’ grossa per descrivere il locale con nel quale si preparano i cibi. Questi, infatti, vengono cotti su bracieri a carbone e considerando che non tutti hanno il frigorifero e che il Paese soffre di notevoli problemi di approvvigionamento elettrico, i condimenti -quasi tutti a base di pesce- vengono acquistati di giorno in giorno, anche per la loro freschezza.

Quello che poi non deve mancare per far fronte ai caldi pomeriggi africani è il tè. Vi ho già raccontato della dedizione di tutti per la preparazione e, ovviamente, non c’è nessuno che rifiuti mai un bicchierino di bevanda.

Quando poi il sole sparisce all’orizzonte, tra le onde dell’oceano, Mboro viene avvolto dalle tenebre. L’illuminazione stradale semplicemente non esiste e le uniche luci che rischiarano le strade sono quelle dei neon che filtrano da qualche abitazione. Tutto il resto è buio e silenzio. Certo, ci sono notti in cui l’unica luce è quella della luna perché di energia elettrica non c’è traccia, ma basta una torcia per potersi muovere in tutta facilità.

La sera passa tra canti, balli o chiacchiere in famiglia sorseggiando (oltre al tè) vino di palma o birra. E infine, ben oltre la mezzanotte, la città si ferma per la notte. Sopra materassi più o meno “artigianali” non sempre appoggiati su letti ma sempre e comunque avvolti da leggere zanzariere le braccia di Morfeo accolgono tutti.

E il giorno dopo si replica.

Mboro…sempre pronta a stupirti

In questo periodo Mboro è piuttosto affollato. In realtà questo succede in tutti i villaggi del Senegal dato che le scuole sono chiuse e quindi, soprattutto i ragazzi, tornano a casa per passare qualche tempo in famiglia. Per questo per le strade ci sono moltissimi giovani senza molto da fare. O meglio, qualcosa in villaggio si trova sempre. Le ragazze aiutano le madri con le faccende di casa mentre i maschi vanno nei campi oppure aiutano con lavoretti di piccola edilizia casalinga. Tuttavia, un momento da dedicare ad un gruppo di otto toubab lo si trova sempre. Ed è così che accompagnati sempre da almeno una dozzina di accompagnatori abbiamo scoperto cosa si fa in un villaggio senza internet, senza televisione, senza illuminazione notturna e con l’acqua corrente solo tra l’1 e le 4 di notte.

Primo posto nelle attività di tutti ci sono i campi. Da perfetto occidentale, mi immaginavo anche il Senegal fosse una grande distesa arida con qua e là qualche palma. Quando poi trovi insalata, pomodori, melanzane, pannocchie, peperoni, limoni, arance, pompelmi, cocchi e manghi rimani a bocca aperta (sia per la sorpresa che per la loro bontà). Una vegetazione così rigogliosa è possibile solo grazie ad una grandissima quantità di acqua che a Mboro è facilmente reperibile. Nella zona dei campi, infatti, basta scavare qualche metro per raggiungere la falda acquifera da cui un continuo di secchielli rovescia acqua freschissima sulle piantine. Ma oltre a piante che possiamo trovare anche in Italia, in Senegal ci sono coltivazioni più tropicali. Oltre ai manghi (che costano pochissimo e sono veramente squisiti) ci sono un’infinità di palme.

C’è un particolare tipo di palma che merita di essere “assaggiata”: quella da vino. Basta una piccola incisione in un determinato punto del fusto e grazie ad un imbuto (fatto di foglie di palma intrecciate) si può letteralmente spillare un liquido biancastro, dolce al mattino e gasato alla sera. Qui lo chiamano “vino di Palma” ma pur avendone bevuto moltissimo –mi avevano ribattezzato Jola, l’etnia dei produttori di vino 🙂– non saprei dirvi se e quale gradazione alcolica abbia. In ogni caso si tratta di una specialità che difficilmente potrò riassaggiare in Italia. A quanto dicono, questa bevanda può essere conservata per massimo 3 giorni e, infatti, anche a Dakar non se ne trova traccia.

Essendo comunque calde giornate estive, capita spesso di passare lunghi momenti di riposo sdraiati su tappeti all’ombra di gazebo o di alberi. Il “cazzegio time” (come lo abbiamo ribattezzato) è un’istituzione. Si possono passare interi pomeriggi a chiacchierare con amici e parenti sulle natte magari bevendo vino di palma, succo di bissap o di bui o magari una fresca birra. Qualunque cosa si faccia durante il riposo, state ben certi che ci sarà qualcuno a preparare il tè. Il tè in Senegal è un’istituzione. Con una piccola teiera, un braciere a carbone, menta freschissima e una sproporzionata quantità di zucchero i senegalesi passerebbero -e in effetti passano- ore intere a preparare tè che viene poi servito in un paio di piccoli bicchieri (tipo chupiti) che passano di bocca in bocca. Capita così che, anche se stai dormendo beatamente rinfrescato dal vento, il fratello più piccolo della tua famiglia venga a svegliarti perché c’è il tè da bere. Per tre volte!

In ogni caso, qualunque cosa si faccia, il silenzio è rotto dalla musica. Le piccole casse dei cellulari (se si è in strada) o amplificatori più o meno grandi (se si è a casa) riversano note nell’altrimenti silenziosissima Mboro. Qui, infatti, i ragazzi non riescono fisicamente a stare senza musica. E quando non la ascoltano, la producono. Certo, con un bongo si possono fare molte cose, ma non è strettamente necessario. Per produrre musica basta veramente pochissimo. Capita così che attorno ad un falò sulla spiaggia si riesca a ballare con una bottiglia di Coca Cola finita, un termos per l’acqua e un coperchio. Ma i bonghi -di qualunque tipo siano- hanno una particolarità: produrre solo musica tradizionale. Ed è una musica che non ha nulla a che fare con le nostre canzoni popolari. Ritmi serrati e ritmati che mettono voglia di muoversi. E i senegalesi non se lo fanno dire due volte di mettersi a ballare. Come avevo già avuto modo di notare a Dakar, anche a Mboro non c’è nessuno che non si muova come un ballerino professionista.

E se vi chiedete come ci si faccia la doccia in un villaggio o come si faccia per andare in bagno…ci risentiamo domani!