6/05/2012: la presa della Bastiglia.

6/05/2012, ore 21.50, métro, linea 1, direzione La Défense.

Ad ogni fermata i vagoni sono sempre più pieni. Sciarpe, capelli, striscioni rossi. Bandiere, risate, canti e rose. Il métro non si fermerà a Bastille. La stazione è chiusa al momento. Mi trovo con degli amici a Reully Diderot, ci incamminiamo verso Place de la Bastille passando per Faubourg Saint Antoine. Man mano che ci avviciniamo a Bastille i cori si fanno più forti, la gente più euforica, i marciapiedi impraticabili. Non ci sono più passanti : c’è una folla urlante che si fa strada tra le automobili ferme che accompagnano gli slogan con il clacson. Ragazze che ballano sui tettucci delle automobili o che si sporgono dai finestrini con le braccia alzate, persone che corrono a comprare la copia speciale del quotidiano dedicato alle elezioni presidenziali, rumore di trombette e di fischietti, striscioni improvvisati ricavati dai cartoni della pizza d’asporto.

Poi le camionette de la gendarmerie e i poliziotti che cercano  di fare defluire persone di tutte le età che che intonano gioiose il coro che avevo sentito urlare per ore il 15/04/2012 al comizio di François Hollande all’Esplanade du Château de Vincennes : « François président ! François président ! ». Cerchiamo di avvicinarci il più possibile verso il centro della piazza nel quale troneggia la Colonna di Luglio oggi conquistata dai sostenitori del nuovo presidente. Un’impresa impossibile, dettata solo dall’euforia. Il bagno di folla spinge in direzioni opposte: c’è chi persevera e vuole arrivare nel centro della piazza, c’è chi non riesce più a respirare e vuole buttarsi ai lati. Per qualche minuto non riusciamo a muoverci né a vedere al di sopra delle nostre teste. Poi qualcuno riesce a spostarsi verso le vie che costeggiano la piazza, aprendo una piccola fessura nella mischia compatta. “In ogni caso l’uscita è a sinistra”, sottolinea un giovane sventolando la bandiera del PS. A fatica riusciamo a spostarci sui lati e a camminare sulla strada. Ma la festa continua, i bar sono pieni, i clienti brindano, sono rilassati, sorridono. Il clima è così festoso da sembrare quasi surreale. La gente cammina scomposta per i grandi boulevard, sconosciuti si salutano per le strade, persone di ogni tipo saltellano  da un lato all’altro della strada indecise se ritornare a Bastille o no.

 

Ansiosi di scoprire domani una nuova Parigi torniamo verso il métro. Il servizio è pure prolungato…allora è proprio vero che “le changement c’est maintenant!”.

Dans le métro

Il metronomo della quotidianità scandisce il ritmo di miliardi di passi che ogni giorno e ogni notte echeggiano per i corridoi del métro. Sguardi sfuggenti, stanchi, curiosi, euforici, tristi, svaniti si incrociano sulla banchina, sulle interminabili rampe di scale, sui vagoni che accolgono in poche ore innumerevoli storie.

Siamo nel regno della RATP, la Régie Autonome des Transports Parisiens. 14 linee métro, 3 linee tram, 2 linee RER (le altre linee del Réseau Express Régional sono gestite dalla società SNCF), 351 bus (dei quali 31 noctilien, bus notte) a Parigi e in banlieue. Un sistema di fili che fluttuando si intersecano, mossi incessantemente dalla mano agile di burattinaio rispettato e temuto. Una squadra compatta di funzionari diligenti che, a dispetto dalla rigidità dei loro movimenti e della voce metallica con cui proferiscono qualche monosilalbo, sembrano essere umani. Insomma, un imponente castello fortificato in cui tutto funziona alla perfezione, circondato da un profondo fossato in cui sguazzano branchi di documenti. Per avere accesso ai privilegi che il favoloso mondo dei transports commun offre ai residenti nella regione parigina, una battaglia combattuta a suon di firme, giustificativi, fotocopie, lettere e telefonate è inevitabile. Forse più che di una guerra si tratta di un duello, di uno scontro tête a tête con la grande macchina burocratica che tutto pervade, inesorabilmente. Ma alla fine, anche se con quel senso d’impotenza nel cuore che solo chi si è scontrato con il Dio Burocrate può provare, si raggiunge (quasi sempre) il fine che si è posti. Quando ci si avvicina al tornello all’entrata del métro brandendo fieramente il proprio Pass Navigo per studenti e lo si striscia con disinvoltura sulla superficie liscia del marchingegno, ogni singola briciola di rancore viene spazzata via dal vocio dei passeggeri, dalle melodie dei musicisti itineranti, dalla luce riflessa sulle piastrelle bianche.

Bastano una tessera di plastica e un prelevamento bancario effettuato automaticamente ogni mese per spostarsi in maniera veloce e pratica per Parigi e banlieues. Métro frequentissimi e frequentatissimi durante tutta la giornata solcano il sottosuolo della città, sbucando di tanto in tanto in sprazzi chiari o luccicanti, con l’acqua ai due lati. Persone che salgono, scendono, corrono, guardano, si fermano. Non sono mai ombre, mai sagome vuote in cui si passa attraverso. La notte, quando il métro riposa, si staglia il ricordo del rumore dei vagoni sulle rotaie, delle voci che annunciano o si scusano, si mescola alla solidità di volti, di frasi rubate (ascoltate o lette), di abiti firmati, di aliti imbevuti d’alcol, di sacchi a pelo e coperte che nascondono un’esistenza difficile.

Si sale, si scende, si corre, si guarda, ci si ferma. Tutto è automatico, tutto è naturale, tutto rientra nell’ordine della vita parigina. Eppure in tutto questo, nella normalità schiacciante di viaggi in métro c’è di più. C’è un pezzo di umanità, ci sono vite che urlano. C’è il ritratto di una città con le sue bellezze, le sue abitudini, i suoi interessi, i suoi ossimori, le sue contraddizioni.

Woody Allen à Paris

Qualche sera fa passeggiavo sovrappensiero per le stradine del quinto arrondissement quando passando di fianco alla chiesa Saint-Étienne-du-mont la mia attenzione è stata richiamata dagli scalini sul lato destro. E’ bastato un rintocco di campana per rendere chiara e distinta un’idea vaga che mi ronzava per la testa da giorni: è lì che Woody Allen ha individuato la soglia del ritorno al passato in Midnight in Paris.

In bocca ancora il retrogusto dolce-aspro di una tartelette au citron, negli occhi la luce gialla della sera parigina che inonda gli scalini che precedono una delle entrate secondarie della chiesa Saint-Étienne-du-mont.

Place Sainte-Geneviève è uno di quei luoghi che non possono essere schiacciati nella definizione scarna e troppo cauta di « bel endroit ». Place Sainte-Geneviève è molto di più. Al mattino la piazza si riempie di studenti dalle palpebre gonfie di sonno, diretti alla Sorbonne, alla bibliothèque Sainte-Geveviève, alla bibliothèque Sainte-Barbe.Con noncuranza un poco bobo (bourgeois-bohémien) si lasciano inumidire i vestiti e i capelli da fitti spilli di pioggia, senza nemmeno lanciare uno sguardo verso la facciata imponente di Saint-Étienne-du-mont. E’ piacevole guardarli con distacco per qualche attimo, cristallizzando quell’immagine di quotidianità che nella sua disarmante scontatezza porta con sé parecchi grammi di serenità. Al pomeriggio invece Place Sainte-Geneviève si anima di voci chiassose. Le porte dei licei si aprono, così come si aprono gli stomaci degli impiegati e deli universitari. Schiere di affamati si contendono gli scalini dell’église, luogo privilegiato per le pause pranzo all’insegna del low-cost. I turisti appena usciti dal Panthéon osservano curiosi la serie infinita di dettagli che rende così speciale anche un rapido passaggio per la piazza. Ma questo piccolo quadro vivente nel cinquième arrondissement la notte s’invade di una magia tanto sfuggente quanto certa.

E questo lo sanno bene le ombre chiassose che rientrano nei propri appartamenti dopo una serata in Place Contrescarpe, così come lo sa bene Woody Allen.

Attraverso lo sguardo stupito di Gill, il regista disegna a contorni sfumati quell’atmosfera surreale che solo un promeneur solitaire deliziosamente perso la notte per le vie di Parigi sa assaporare. E’ vero : « al mattino Parigi è bellissima, nel pomeriggio è deliziosa, alla sera è incantevole, e dopo la mezzanotte Parigi diventa magica ». Ed è sugli scalini dell’entrata sul lato destro dell’église Saint-Étienne-du-mont che il sipario si alza e la scena viene invasa dalla magia che solo Parigi la notte sa dare. I fari di una Peugeot 184 Landaulet nella notte, le voci gioiose dei passeggeri, l’espressione disorientata del protagonista…e poi la Ville-lumière negli anni ’20. Midnight in Paris non rappresenta solo uno dei tanti elogi di una delle città più ambite al mondo, ma è un pentagramma su cui danzano colori, suoni, odori, superfici, un crogiolo di sinestesie che si espandono nella fluidità del tempo. Considerare questo film come un puro tentativo di ritornare al passato attraverso la cultura (francese?) degli anni venti sarebbe estremamente riduttivo. L’essenza della mezzanotte a Pargi forse risiede proprio nell’intemporalità di questa città. Quandoci si perde la notte a Parigi la presenza diventa sempre più sfuocata. C’è solo la luce dei lampioni, il ciottolato delle viuzze in salita, il rumore dei propri passi e la leggerezza dello spazio. Il tempo non c’è più.