Qualche mese fa – era il 17 marzo – il mondo della birra artigianale italiana venne scosso da un articolo pungente di uno dei giornalisti italiani più noti nel mondo dell’enogastronomia, Valerio M. Visintin, il quotato critico milanese del Corriere della Sera.
Nel pezzo (lo trovate QUI) Visintin attaccava in maniera piuttosto pesante il panorama nazionale a partire dal titolo: “L’era della birra al calzino (ma artigianale)”. All’interno, accanto a qualche passaggio incontrovertibile, non mancavano riferimenti ironici a Kuaska, a Teo Musso, ai tanti appassionati “nerd”. Diverse anche le frasi contestabili o addirittura piuttosto campate per aria; su tutte, a nostro avviso, i riferimenti all’uso delle materie prime straniere o all’adozioni di stili esteri da parte dei nostri birrai (che non possono certo essere una colpa) e via discorrendo.
Nei giorni scorsi Visintin – camuffato come di consueto dalla testa ai piedi, occhi compresi (è lo stile con cui si presenta in pubblico per evitare di essere riconosciuto, e quindi trattato con favore nei locali che recensisce e, spesso, stronca) – era ospite di Glocal, il festival di giornalismo digitale organizzato da VareseNews. Non potevamo farci scappare l’occasione, quindi, di tornare sull’argomento “birre artigianali” al termine dell’incontro che lo ha visto protagonista nella sede delle Ville Ponti di Varese.
Visintin, ci racconti la genesi di quell’articolo che ha fatto scalpore e scatenato l’arrabbiatura di molti esponenti del mondo birrario nazionale.
«L’articolo nacque per affetto verso la birra perché io in un certo senso vengo da lì. Mi spiego: io mi ritengo un “protoappassionato” visto che frequentai il primo corso sulla birra addirittura nel 1984, sotto la guida di Franco Re (allora rettore della “Università della Birra” di Azzate ndr). Mi ero appassionato moltissimo, avevo letto parecchi libri a partire da quelli di Michael Jackson e con me c’era anche un amico che tuttora lavora nel mondo della birra, cioè Schigi (D’Amelio ndr)».
Poi che è successo?
«Dopo qualche tempo ho seguito altre strade. E quando il movimento artigianale italiano ha iniziato a riscuotere schiere di appassionati, questi ultimi mi sono sempre più sembrati scostati dalla realtà. Gente alla ricerca di birre sempre più complesse, strane: ormai chi desidera bere una birra semplice fa sempre più fatica a trovarla nelle offerte dei locali. Insomma: trovo buffi certi vizi e linguaggi che un tempo erano appannaggio del mondo del vino e che oggi sono arrivati anche in quello della birra».
Tutto bocciato? O nel suo bicchiere troviamo anche birre italiane?
«No, ci sono anche birre artigianali molto buone, sia chiaro. Anche se ormai l’offerta è talmente ampia che tanti birrifici lasciano il tempo che trovano. Detto questo mi capita di bere artigianale italiano: non mi piace fare nomi, dico solo che cerco e amo sempre di più le birre semplici e ben fatte. Anche se per lavoro devo bere molto più vino».
A tal proposito: lei di mestiere gira per ristoranti anche di alto livello. Qual è il suo giudizio sull’offerta birraria?
«Che spesso fa schifo, e mi dispiace. Però gli chef, molti di quelli importanti, già capiscono poco di vino, figuriamoci di birra. Di solito in quei ristoranti si trovano banali birre industriali tenute lì giusto per mettere qualcosa in carta».
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Capito. A lui piace mangiare sempre la margherita e non gli va giù che gli altri si siano appassionati e preferiscano variare.