Pendolari: Mino, cespuglio senza freni

L’artista del fuori corso cambia vita: non per scelta, ma per minaccia. Presenza fissa al binario due, tra le sette e trenta e le otto, eccolo all’ultima discesa verso la grande Milano: Mino, per gli amici cespuglio, prova a familiarizzare con la parola “lavoro”. E lo fa dopo una vita teorica e troppi amori troppo poco platonici. Un carrozziere di Legnano una sera l’ha preso per il bavero e sollevato da terra di dieci centimetri: «Hai voluto fare il porco con mia figlia? Adesso il pupo lo mantieni tu e vedi di essere uomo». Domani sarà il giorno imposto per essere uomo: nella carrozzeria di Legnano, naturalmente.

Presenza carismatica del chiostro dell’università, come le colonne in granito rosa piantate lì fin dal medioevo: facoltà di filosofia, settimo anno fuori corso, ma frequentante. «Bisogna farsi una posizione, in questo mondo», diceva al primo anno. Sua madre glielo aveva inculcato per tutta l’adolescenza, questo concetto: Mino impiegò pochi mesi, tra i banchi delle aule affollate di pensatori in erba, a confondersi le idee: la filosofia, intesa come amore per la sapienza, non offre certezze, anzi le distrugge. E i primi dubbi sulla posizione sorsero già a metà dell’incontro con Parmenide ed Eraclito, tra la filosofia dell’essere e il “panta rei”. E lì cespuglio, il nemico dei barbieri, fece la sua prima scelta: prima di approdare a Socrate già sapeva di non sapere e optò per Marilù, specialista in teoria e pratica dello sbattacchiar di ciglia. Mino frequentava e frequenta: per coerenza più che per dovere morale, perché è meglio indugiare sulle scollature delle studentesse, puntando sul fascino dell’intellettuale incompreso dal mondo. Perché è meglio pensare che è il mondo a non capire, piuttosto che sospettare di essere noi stessi a non capire il mondo. Rachele, la scosciata che odiava Cartesio, invece, aveva capito tutto e passava gli esami con argomenti decisamente più interessanti rispetto alle teorie di Mino: faceva presa su giovani assistenti di cattedratici incartapecoriti, uomini mai stati maschi che, davanti allo svolazzar di tessuti della signorina, scoprivano inaspettate applicazioni del pensiero di Hobbes, secondo il quale la sostanza unica è la materia. Ma quella materia, mostrata dalla Rachele, aveva tutt’altra sostanza: quanto basta per mandare il cervello in “game over” e affibbiare un ventisei su trenta per manifesta superiorità della carne sul pensiero.

Già, la Rachele mandò in pappa anche i pochi neuroni di Mino che, dietro le sue sottane, smarrì un altro anno di corso, con montagne di libri impolverati che rimanevano oggetti inesplorati. Come fare a capire se cespuglio avesse o meno aperto e studiato un libro? Semplice, bastava aprirli e verificarne la presenza della forfora tra le pagine. Ormai lo sapeva benissimo anche il prof di filosofia moderna a ogni sessione d’esame. Prima ancora di formulare la domanda d’inizio allo studente, gli bastava dare un’occhiatina al libro che aveva con sé lo svogliato, per capire che andazzo avrebbero preso quei dieci minuti d’interrogazione.
Mino, però, non si perdeva mai d’animo, né per la bocciatore, né per i due di picche: «La filosofia è cultura», diceva lui. E la cultura ha bisogno dei suoi tempi per essere capita e studiata: «In questa società frenetica, ora si capisce perché non si fa più cultura», era la sua giustificazione.
Per darsi un tono, perché non si è mai capito se ci credesse veramente, si fece una posizione anche nel comitato leninista universitario: roba da superintellettuali, con riunioni interminabili a parlare di partito e lotta di classe che sfociavano, quasi sempre, in desolanti battibecchi farciti di “Juve merda” e “milanista del cazzo”. A quel punto Mino si era fatto l’idea che, per essere un leninista credibile, avrebbe dovuto tifare Inter: in primo luogo perché, a quei tempi, l’Inter non ne imbroccava una ed era un po’ come la classe operaia che mai andava in paradiso. E poi, l’interista era la contrapposizione netta al berlusconismo imperante che aveva nel Milan, un simbolo di potere quasi dispotico.

Poi i tempi sono cambiati e anche l’Inter non è stata più la stessa di qualche anno fa. Mino si è un po’ distaccato dal calcio, per dovere morale, perché un leninista non può stare con chi vince sempre e troppo. «Mino! Ma quand’è che ti fai una posizione?», domandava mamma Irma, che si sentiva invecchiare e avvertiva, al contrario del figlio, il vero senso del tutto scorre, panta rei… «e quel lazarun l’è semper là cunt i liber in man». Con i libri in mano, pensava mamma Irma, ma non conosceva la musa ispiratrice del figlio, Clotilde, donna modificata al silicone e trasformata in sventola. Mai avrebbe pensato, Mino, che avrebbe capitolato nelle grinfie di una sirena del capitalismo, perché la chirurgia estetica è l’emblema più attuale dell’ineguaglianza sociale. Ma Clotilde, filosofa di Legnano con papà carrozziere, aveva tutta un’altra idea della posizione e avrebbe voluto sposare un manager d’azienda: e con un seno piccolo, si sarebbe sentita depressa. E una donna depressa mai avrebbe potuto sedurre un manager. «Per una donna, la filosofia è vero amore per la sapienza se riuscisse a trovare un marito con un bel conto in banca».

Ma la natura, spesso, prevale e la sognatrice sottovalutava l’impeto del leninista, con quella forza che sale dal basso come una rivoluzione: e mentre Mino faceva la sua rivoluzione, la situazione sfuggiva di mano, come capita nelle più caotiche sommosse popolari, ma più probabilmente per scarsa dimestichezza con la materia artificiale, ovvero il silicone. Undici anni di “onorata carriera” (quattro più sette fuori corso) per dare un senso ai “perché della vita e del mondo” non sono bastati per capire che, a volte, nella vita è meglio tirare i freni: Mino, per una sera, non ha frenato, non si è tenuto e la vita ha scelto per lui. «Meglio così» Panta rei, tutto scorre, e niente sarà più come prima: la natura ha fatto il suo corso, il treno per Milano, da ora in avanti per lui si ferma prima, nella ridente Legnano (“che cavolo avrà mai da ridere ‘sta città”, pensa spesso tra sé l’ex leninista). Il suo destino passa da una carrozzeria, svolta beffarda, ma inevitabile: «un papà che si rispetti deve farsi una posizione» e Mino si rassegna al suo futuro, o meglio, ad avere un futuro. Per essere uomo.

L’incubo della crisi

L’ultimo scatolone è colmo, nastro isolante e via: carte, documenti, cancelleria, persino la foto della miss tappa su cornice di finta madreperla, il poster di Gino Bartali e Fausto Coppi, una bottiglia di Vecchia Romagna da cui attingo da anni nei momenti difficili, per digerire il capo. Tutto pronto per il trasloco, carichi in movimento dall’ufficio a un fantastico camion con scritto sopra “metti il tuo pacco in buone mani”. All’uscita dell’azienda che smobilita campeggia un megastriscione con un bel disegno e una scritta: “Ci trasferiamo qui”, con mappa e immagine digitale di un plastico del “giardino dell’Eden” con uffici paradiso, parco fiorito e uccellini che svolazzano.
L’indomani si cambia, un saluto alla sciantosa che, per una volta, mi ferma sull’uscio e mi prende in disparte…. La mia lingua già fatica a contenersi, è già felpata, ma la sciantosa ha ben altro da dirmi: «Sai che ci chiedono di non lavorare per i prossimi due giorni? È per via della crisi e con il trasloco ne approfittano». «Ma va?». Sono fortunato io, nessuno mi ha detto nulla, sono fuori da questa operazione, nessuna crisi, si lavora e basta.

Rientro in cuccia, cena, tivù, sei ore di sonno, risveglio impastato, ripartenza in autobus, prima di essere scaricato al solito pos…. eh no! Ma dove cavolo sto andando? Oggi si va più in là, oltre il confine della città, nella non città che appartiene a un’altra città…dicesi hinterland o periferia o un posto piazzato lì. Anzi più in là, con solarium vista inceneritore e dehor sulla tangenziale. Perché così il lavoratore si tempra ed è preparato alle magagne della vita…la voglia di andare più in là, uno la trova nell’animo interiore. E così il lavoratore non guarda più fuori dalla finestra, non si distrae, lavora e basta: è una teoria da Minculpop, che si evolve in Minculeiozitt.
Aria nuova, sa di cavolo lesso, ma nuova. Deviazione dalla fermata del bus, un chilometro in linea d’aria, mezz’ora con i mezzi… sob. Tappa dura, ma arrivo a destinazione, mi guardo attorno, cerco di ritrovarmi nel fantastico poster paradiso che avevo visto riprodotto sullo striscione del giorno precedente. Cerco di capire. Controllo l’indirizzo, è giusto, c’è anche il Merletti e guarda là, «ragionier Buzzini!, come va?».
«Per fortuna anche lei qui, pensavo di aver sbagliato indirizzo, ma ora sono più tranquillo».
«Già, ma… non c’è quel… e nemmeno il… beh, il citofono e il numero civico corrispondono. Suono».

Un bullmastiff da 90 chili balza fuori da un portico della villetta che sorge al posto della nuova azienda. In contemporanea una voce metallica esce dal citofono…«qu è». Resto paralizzato, senza parole, anche il ragionier Buzzini sembra un Capodimonte. Passa un minuto e sulla porta in fondo al giardino si fa vedere un cingalese di due metri, vestito da maggiordomo. Mi esce finalmente una domanda: «Ah… è lei il nuovo portiere?». Domanda pronunciata con un vibrato tendente all’isterico, con l’ultima sillaba che si smorza nella disperazione. In mano, il cingalese sembra tenere qualcosa, come un mazzo di rose, ma più s’avvicina, il mazzo di rose perde le rose. Si apre il cancello e il bullmastiff prende l’iniziativa. Sensazione di bagnato nelle mutande, il velocista che è in me esce allo scoperto… «Se ne vada, lazarùn d’un extracomunitario», mi grida il maggiordomo.

E via di corsa, a perdifiato. «Coraggio ragioniere, faccia Carl Lewis».
Gambe in spalla con vista inceneritore… dalla ciminiera mi sembra di scorgere una nuvola a forma di Gino Bartali e Fausto Coppi, a forma di Vecchia Romagna, a forma di miss tappa e quella sensazione di strada senza uscita, di lenzuola che ti avvolgono le gambe, di sudore sulla fronte, di fatemi uscire prima di tirare una craniata sulla sponda del letto.

La linea della perdizione

Il Trivero non è un autobus come tutti gli altri. Lì sopra si è pendolari per vocazione: non potrebbe essere altrimenti per chi percorre ogni giorno centoventichilometri all’andata, centoventi al ritorno, tre ore a ogni viaggio. Si parte all’alba, si rientra che è notte: d’inverno, il capolinea lo si vede sempre al buio, andata e ritorno sotto la luna. Il fedelissimo del Trivero è Caronte, autista segaligno, crapa pelata ed espressione rassegnata: saluta la sua terra alle 5, vi rientra dopo le 21. In mezzo, un fiume di chilometri, tra il Piemonte e la metropoli, arrivi e ripartenze, attese fatte di panini col salame e sigarette. La radio sempre accesa, ma tanta voglia di scambiare due parole appena possibile. Sogni ad occhi aperti: caricare la sventolona che passa ancheggiando tutte le mattine dalla fermata, ma non si sa dove va, probabilmente abita qui, ma si potrebbe farla salire, chiudere le porte e portarla dove vuole: «Destinazione ignota, scelga lei». E invece nulla, sul Trivero salgono impiegati che sprofondano senza forma sui sedili più in fondo, studentelli avvolti in una dimensione tutta loro, tra i-pod e telefonino, zitelle inacidite e vecchiette con la sciatica: naturalmente le ultime due categorie sono sempre lì, quasi a soffiargli sul collo, nei primi posti del bus. «Ma si paga uguale anche dietro…», avvisa lui. «Sì, ma dietro mi vien la nausea, soffro le curve», risponde la tardona di turno senza lasciargli tregua. E così, la nausea la fan venire a lui, a furia di sorbirsi una tiritera senza rime, ma che suona più o meno così: «Io non so come si possa andare avanti con tutti questi extracomunitari. Ma cosa vogliono,dico, cosa vogliono!».
«Ah non lo dica a me che non trovo più una badante per mia suocera, che non voglia essere messa in regola, ma con tutte quelle tasse da pagare, come si fa».
«Io non so come Berlusconi riesca a sopportare tutta questa sinistra, non si può più tollerare».
«Ma sì, ma sì, non lo dica a me, che un vicino di casa sindacalista e al lavoro non c’è mai, è sempre lì in malattia».

E via discorrendo, su questo tono, prigioniero silenzioso tra pettegolezzi e luoghi comuni, su quell’Autolaghi sempre e costantemente ridotta a un imbuto stracolmo di fagioli. Un autobus, incastrato lì, finisce per sembrare un enorme borlotto che, da quel buco che conduce a Milano, ci passa quando e come può: a colpi di boiavacca e tevegnissuncancher. Stamane, poi, il Caronte è più depresso del solito. Ha due sole passioni: l’Inter e Nilde Iotti. «Ieri l’Inter ha perso a Napoli, giocando da cani…». Nemmeno il ricordo ormai lontano della Iotti lo consola: «… e Berlusconi si è preso pure il 25 aprile, pure quello, non gli bastavano le televisioni». Si lamenta ad alta voce, trovando come interlocutrice soltanto la più moderata tra le pettegole, che, però, fatica a contrastare l’arteriosclerosi e parla a vanvera, provando a complicare un cruciverba: «La mi scusi bel sciur… ma in dov’è Costantinopoli? Cinque verticale, il fondatore della città di Costantinopoli».
«Non c’era nemmeno un giovane ieri, al corteo di Valle Mosso…».
La signora replica: «Ah l’avessi io un ballerino come l’Emanuele Filiberto…».
«Voilà Milano, il gran Milan, città della Resistenza, ma qui la faccio io la resistenza».

Capolinea, Lampugnano: discesa in massa, vecchiette, pendolari, tutti tranne lui, il Caronte, che sfinito si assopisce al volante del mezzo, con la porta dell’autobus aperta. Passa un istante o forse un’ora, un periodo indefinito e una voce come dall’aldilà lo ridesta: «Non sa dove si prende l’autobus per Dongo? Lago di Como…». È proprio lei, la sventolona dei suoi sogni…camicia di raso attillata, bottoni che soffrono sul davanti, capello biondo platino sopra cappotto nero, stivalazzo color nero vernice con tacco altissimo e un mazzo di fiori in mano.
«Dongo? Lago di Como..eh dunque…». Una frazione di secondo di follia per una risposta che non può sbagliare, come un calcio di rigore al novantesimo: «… ma prego venga, salga. Aspettiamo un attimo se ci sono altri viaggiatori e partiamo…».
Cuore che batte a mille, pelata che prende colore e turgore, l’occasione per andare in gol: due minuti a guardare la cartina dell’Aci e Dongo è presto localizzata. Un tantino fuori linea: «Altro che Costantinopoli…», pensa tra sé. Tre ore di attesa per la corsa successiva, se le gioca così. La bionda non paga, ma il prezzo che paga il Caronte è alto: «Ci vado ogni anno a Dongo, il 27 aprile, ma è la prima volta che ci vado in autobus», dice lei. E lui manda giù: «Gran bel posto, ha scelto bene».
«Non si sceglie, è dovere andare a Dongo», confida la bionda.
«Già, facciamo il nostro dovere, dunque…».
Nilde Iotti, se fosse in vita, lo perdonerebbe. Tanto forse è solo un sogno, o forse un incubo. Ordinaria storia di vita di una generazione disorientata: prende la prima a destra e l’ultimo boiavacca è tutto per l’Inter.

Stelle e pianeti alla fermata del bus

Barnaba Oriani, illustre astronomo: che avrà fatto di male costui? Aveva studiato una vita per diventare l’orgoglio di una città e, invece, Milano gli ha intitolato la strada più intasata e tossica, con vista cavalcavia dell’autostrada e, un piano sotto, marciapiedi davanti all’entrata e all’uscita dalla città, verso i laghi, Torino e la Brianza. Proprio lì, c’è la fermata d’autobus più unta d’Italia, sul retro di un fast food, tutti in piedi sul marciapiede, chi in apnea, chi a pieni polmoni, immersi in una bolla di scarico della città. Concentrazione di marmitte incazzate, clacson isterici e un cielo che, a volte, non si vede nemmeno: Barnaba Oriani, che hai fatto di così terribile? Un astronomo, per una strada quasi senza cielo. Unico conforto: un metro quadrato di edicola, con tanto di separé per i pornolettori. Esistono ancora: oggi sono per lo più pensionati esclusi dal grande pornodromo mediatico, il web. Una volta c’erano il Nando e il Tromba, oggi i titoli sono più aggressivi, internazionali, ma lo stile anni Ottanta del voyeur è rimasto identico: Corriere della Sera “special edition” con allegato invisibile all’interno. Johnny, l’edicolante, conosce già tutta la scena a memoria, e anche il prezzo. Dieci euro lasciati lì da una sagoma, sul banchetto, nove più il prezzo del quotidiano, niente resto e rapido allontanamento dietro ai classici occhiali neri.
Tre metri più in là, pendolari in attesa, corpi che ciondolano sul posto, da un piede all’altro. Uomini e donne in stand-by, cento e più occhi fissi sul fiume impazzito di automobili in fuga, pensieri che vagano e scavano nei meandri di una giornata o magari nelle scollature generose di qualche segretaria. Alla fermata, oggi, è scoppiata l’estate. Ad aprile, il sole rammollisce già il bitume del marciapiede: senza pensiline, il solarium di via Oriani segna impietosamente la zona ascelle delle camicie d’impiegati sfatti dalle bizze di una settimana filata via a suon di “senz’altro signor direttore”. Per arrivare fin lì, sfidano la sorte alla roulette del pendolare: slalom e scatto felino da un marciapiede all’altro, in orario di punta e senza strisce pedonali. Sembra che tutto scorra a nastro, ma ecco la tragedia: tacco 12 e cosciona languida sotto una minigonna vertiginosa, fondoschiena da poster avvolto in un tessuto che sembra Domopak. La pantera mette il piede giù dal marciapiede e, taaaac, anche il Suv più cafone inchioda per farla attraversare. Con i pendolari non succede, ma con lei sì. Una frazione di secondo, non di più, e si torna alla realtà, ovvero a un crash da pelle d’oca, lamiere di una Panda proletaria che si sbriciolano contro il Suv, indistruttibile: litanie di vaffanculo e constatazione “amichevole” compilata con il cric sventolato come una bandiera… La pantera si volta appena e la poesia finisce: Ramona, completissima da Rio de Janerio, raggiunge il suo ufficio sotto il cavalcavia. Prima di entrare in servizio, piscia in piedi dietro la colonna. E proprio lì, trecento anni fa, Barnaba Oriani studiava le stelle e i pianeti.

Odio i lunedì … e l’aria frizzantina del mattino

Un tepore torpore dal quale non vorresti uscire. Cinque minuti ancora, per pietà. La fermata dell’autobus, vista Sempione, è il primo fotogramma di una scena di ordinaria tristezza: va in scena il lunedì del pendolare, uomini e donne da marciapiedi e banchine, colletti bianchi e bambini prodigio, ex talenti del giornalismo, precari da scrivania e frustrati del 110 e lode. L’arietta gelida dell’inverno sale dai piedi, s’infila dentro i pantaloni e sale su, fino allo stomaco che, per grazia ricevuta, è ancora vuoto perché alle 6,30 del lunedì mancano la forze anche per il breakfast: l’esperienza insegna a prendere ogni tipo di precauzione contro il terrorismo intestinale, per il bene proprio e degli altri. I brividi spazzano via le ultime tracce di una notte che è sempre troppo breve, ma con l’intima speranza che il viaggio a bordo del torpedone possa in qualche modo prolungare almeno il dormiveglia: il corpo implora un’Autolaghi intasata, ovvero un viaggio interminabile sprofondato in un sedile del pullman, ma la mente è già in un breafing autogeno, ultima variante del training autogeno. Perché il pendolare del ventunesimo secolo è l’ultimo anello dell’evoluzione della specie, un animale di provincia innestato per taléa al polmone marcio della città, la grande Milano, che, vista da piazza Duomo, può ancora stimolare l’orgoglio padano, ma vissuta nelle periferie somiglia a una pentola di zuppa di cavolo troppo piena, lasciata sul fornello in ebollizione: destinata a sbrodolare e spandere puzza ovunque.

Già, la puzza: dopo un fine settimana in provincia, è il primo ceffone che offre la metropoli, ma del fetore ci si accorge soltanto il lunedì, poiché, dal martedì in poi, le narici non sono più in grado di avvertirla e anche il pendolare diventa parte di questa grande puzza. Tre milioni di abitanti attendono l’invasione. Ogni giorno a Milano si sommano ai residenti circa 630mila lavoratori che arrivano in macchina, oltre 80mila in treno, più 28 mila turisti, 8mila tra pazienti provenienti da fuori città in cura presso gli ospedali e i loro accompagnatori. Bisogna poi aggiungere oltre 50mila universitari fuori sede non registrati come milanesi all’anagrafe. Più tutti gli altri, mendicanti, clandestini, uomini invisibili, puttane, fantasmi.  Uomini e mezzi, ognuno con il proprio odore che va a formare, appunto, la grande puzza.   

Fermata viale Certosa, vista Cimitero Maggiore. Si scende. Perché non sei abbastanza “in” per fare il giornalista nei salotti del centro, troppo grezzo per entrare in redazione alle due del pomeriggio. I reporter di provincia, come topi di campagna, cominciano all’alba, scaricati su marciapiedi già occupati dai magùtt che entrano nei cantieri, mentre i viados voltano l’angolo barcollando. Il film è lo stesso per tutti, la trama cambia per ognuno e, come in un musical di Broadway, si cambia lo scenario. Vanno in scena gli attori del giorno, quelli della notte scemano dietro le quinte. I teatranti s’incrociano appena, davanti al bancone di un bar che sforna caffè, indifferenza e bestemmie sull’Inter e sul Milan. Tazzina bollente e croissant, macchie di colore su un tavolino riempito di carta dei quotidiani, per masticare notizie e caffeina. La borsa va giù, Wall street si sgretola, mentre un giovane rumeno sventola un gratta & vinci: «Tu spiega me come io vinco», s’incazza con la barista. Un bancario lì seduto lo guarda e si dà una risposta: «Ne dia uno anche a me». Tell me why, i dont’like Monday…

Qui topo di campagna

L’aria è tiepida stasera, qui sul lago Maggiore. Domani Milano sembrerà diversa, più umana. Per via del Venerdì Santo, la città sarà un po’ meno stretta nella morsa di uno sciame di pendolari, ma io sarò là, come quasi sempre, ai bordi di una metropoli che si allarga e ingloba tutto quel trova sul suo territorio, spazzando via valori e fagocitando degrado. Eppure, brulica di vita quella periferia, è una forza della natura, spesso crudele, a volte addirittura contro natura. Non un reporter d’assalto, ma un modesto pendolare/cronista proverà a confrontarsi ogni giorno con un mondo a metà strada tra romanzo e realtà, raccontato e vissuto da personaggi veri. Imparerete a conoscere Nebbia il clochard filosofo, Chantal la gattona, Ugo il calciatore cuoco, Tano il becchino e tante altre anime di una città spietata. Ecco a voi, le mie favole in chiave giornalistica, cronache di uomini e donne, volti di un mondo distante dagli scoop da prima pagina, più vicino alle saghe di quartiere. Con la voglia di ricacciare i blog nel limbo, tra realtà e fiction, il posto giusto per un semplice strumento che viene spesso sbandierato come nuova via dell’informazione, peraltro mai verificata. Che il blog riabbracci la fantasia, ma che faccia riflettere sulla realtà quotidiana.
In questo caso, ecco a voi la vita e i pensieri di un pendolare tra i pendolari che si confronta con un mondo a metà strada tra Milano e l’hinterland, nelle stazioni malfamate, respirando quel che finisce ai margini, lontano dai portici del centro. Lontano da qui, tra i caffè alla moda si sfogliano i quotidiani nobili e si parla di cultura, di una nuova cultura per Milano, ma qui, tra il Cimitero maggiore e l’inceneritore di Pero, i bimbi rom si vendono a finti intellettuali per pochi euro. Quale cultura, dunque, per una giungla che sputa ai margini, ai suoi confini, la sua anima più ipocrita? Qui nasconde ciò che non vorrebbe vedere, ma che un sorcio di provincia, mascherato da cronista, vi vorrà comunque mostrare.