La neve a corso Como

Meno 4 al binario 2, cielo grigio che trattiene la neve a malapena. Prima o poi verrà giù e renderà le rotaie addirittura suggestive. Già mi prefiguro lo scenario da nevicata, con i rumori attutiti, l’aria tersa e il borbottio incessante d’imprecazioni proveniente dalle carrozze popolate da impiegati e stagisti in ritardo…. Perché quando piove…i treni ritardano, quando nevica, pure, quando gelano gli scambi, pure, quando fa troppo caldo, pure….. Ma la metropoli pensa al Natale, Milano ha un sacco di belle proposte da esporre… ieri sera, intanto, a Quarto Oggiaro hanno fatto pulizia. Pulizia di camorristi, in un’isola ai margini, una delle tante, di questa città. Smantellato un clan…quello della cocaina, dicono i giornali. Ma la neve, anche stasera, a corso Como cadrà ugualmente. Purtroppo.

L’ultima farfalla

C’è della poesia, a volte, nella frustrante quotidianità di un pendolare. Come la luna piena che fa capolino da dietro i tralicci dell’alta tensione della ferrovia. L’aria è più frizzantina, viene dai monti innevati che, al chiar di luna, si riescono persino a vedere, dalla città fin su, verso la Svizzera.
Viaggiatori assorti al binario uno, immobili e accarezzati dal vento freddo, ma non troppo, d’inizio dicembre: c’è persino una farfalla. Volteggia nell’aria, come un puntino colorato che porta buon umore, disegna forme immaginarie a mezz’aria, scende ad altezza banchina e si posa. Immobile, eccola mostrare la sua livrea colorata: in mezzo a tutto il marciume di periferia, due piccole ali colorate illuminano pensieri fin troppo immersi nella quotidianità. Ali che si posano e sguardi che si posano su di loro. Un fermo immagine di una frazione di secondo e… schratch! Un colpo a bruciapelo, uno scarpone firmato in pelle di cervo: un giro di suola, come per spegnere un mozzicone, e della farfalla non resta più nulla. L’assassino, un palestrato in giubbotto di pelle, la guarda appena, abbozza un sorriso beffardo, getta il mozzicone sul binario e sale sul suo treno.
La gente smette di sognare e torna a incollare il proprio sguardo ai telefoni cellulari, a spedire messaggi a chissà chi. Non si vede nemmeno più la luna, nascosta dai vagoni, si torna a sentire la solita puzza di mondo non lavato.

Sì, sono un “saponista”: aria nuova sui treni!

In dodici ore, tra un ritorno e un’andata, sera tardi e mattina presto, due treni guasti, due soppressi, due coincidenze perse per strada, quattro ore e trenta minuti di viaggio in tutto. Un bollettino di guerra sulla linea Milano-Domodossola. Ed è in quei momenti, ovvero quando il pendolare è sotto stress, che il training autogeno dell’ottimismo non funziona più, lo scudo di positività (come il karma della formica) s’infrange e filtrano soltanto magagne: nel senso che, in balìa di un treno che non va avanti, un pendolare scaricato come un baule da una banchina all’altra, si accorge di un sacco di altre cose che fanno incazzare.

Stamani, su tutte, l’ascella putrefatta di un paio di viaggiatori era da mani in faccia: in nessun caso, e a maggior ragione alle 6,45 del mattino, gli pseudocaproni non dovrebbero essere autorizzati a viaggiare sui treni affollati. I treni fanno schifo ed è cosa nota, ma non ha senso lamentarsi per la scarsa pulizia delle carrozze senza prima una sana dose di sapone abbondantemente utilizzata su se stessi. Sbaglio? Ho sempre diffidato dei movimenti di protesta “codificati”, ma ora mi converto: voglio fondare il movimento dei “saponisti”. Sì sono un saponista, per motivi di sopravvivenza, ovviamente.

La linfa vitale di Milano scorre nelle vene delle linee dei trasporti e io ne sono parte con altre centinaia di migliaia di persone, come globuli rossi che dovrebbero portare ossigeno all’organismo e all’economia della città: l’effetto, però, è quello di un pugno in pancia, per il fetore. Altro che manifesti culturali: il rinnovamento cominciamolo da una sana doccia quotidiana.

Letture da treno: l’orribile karma della formica

Sul solito lercio treno delle 6,43, stamane rischiavo di perdere la fermata: dialogavo mentalmente con Arcadio Buendia (il protagonista del romanzo che sto leggendo) a proposito di formiche e reincarnazioni.
Già, perché Desi, che lavora per una compagnia di assicurazioni, mi aveva appena parlato in modo entusiasta dell’ultimo libro terminato, tra andate e ritorni in ferrovia: “L’orribile karma della formica”, un romanzo di David Safier.
Kim è una donna in carriera, conduttrice televisiva di successo si ritrova spesso a mettere in primo piano la sua carriera anziché la famiglia, ovvero un marito e una figlia dolcissimi. Ma un giorno Kim muore per un incidente assurdo e rinasce come formica. Tuttavia, a ogni karma positivo si reincarna in un animale ogni volta più grosso, fino a tornare uomo.
Mi chiedo a quale punto di questa scala verso la redenzione siano posizionati i pendolari: secondo Darwin saremmo l’evoluzione della specie, oltre l’uomo e l’automobilista. All’opposto, ovvero secondo il pensiero metafisico, saremmo più simili a peccatori in purgatorio, reincarnati da una cimice, forse (visto l’odore che si avverte nelle carrozze del treno). Pensieri balzani di una mattinata grigia grigia…

Dimmi cosa leggi, pendolare…

Al bando la freepress, dunque, tra le prime cause d’inquinamento ambientale dei treni pendolari e d’inquinamento mentale degli stessi viaggiatori che ne fanno un uso smodato, spesso improprio. Sui locali del mattino e della sera, i libri, per fortuna, resistono… Anzi continua a essere il feticcio ideale del pendolare, è la finestra su un mondo parallelo, la scorciatoia verso una fantasia che permette di evadere almeno con la mente da una carrozza lercia e maleodorante che, stamane, ha raggiunto livelli al limite della vivibilità.

Treni, metrò, autobus: a ogni mezzo un libro. In genere la differenza sta nel formato e nel numero di pagine, ma a volte anche nel contenuto: questo vale soprattutto per chi, ogni mattina, prende un solo mezzo pubblico. Per chi, invece, si barcamena su più mezzi, la scelta dipende semplicemente l’umore del momento. Il libro da treno, in genere, è di un formato che si può tranquillamente appoggiare sulle ginocchia mentre si sta seduti. Io non faccio testo, poiché sto leggendo “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez, edizione economica, scritto piccolo: questo mi costringe a leggere lentamente, a soffermarmi di più e a rileggere spesso i passaggi più intensi. Insomma è un po’ più faticoso di un bel tomo scritto grande, come per esempio un rassicurante “Libro dei morti” di Patricia Cornwell elegantemente sorretto da un’avvenente signorina seduta di fronte a me, stamane. Chissà quali idee avrà per il week-end…

C’è poi il libro da metrò, in genere di dimensioni ridotte dal peso e formato minimo, facile da tenere in mano mentre si sta in piedi, nella vettura strapiena di gente: spesso la scelta cade su autori con ritmo veloce, dalla scrittura facile, immediata, che usa capitoli molto brevi. Andrea Vitali, per esempio, ha lo stile ideale per chi ama ingoiare capitoli che durano un paio di fermate o tre. Il libro da autobus, invece, è più light soprattutto come contenuto, in genere umoristico: la Littizzetto e Oreglio spopolano alle fermate.

Come accennato, chi usa più mezzi sceglie in base all’umore: e com’è l’umore dei pendolari, in questi giorni? Sbircio a destra a sinistra nella mia carrozza e vedo, lì accanto, un ragazzo assorto nella lettura di “A ritroso” di Joris Karl Huysmans. Chiedo di parlarmene e il giovane, sicuramente uno studente, risponde in poche parole: «È il manuale del perfetto decadente». Il protagonista è un nobile parigino, stanco della vita. Il libro racconta le fobìe di un uomo che vive in una stanza arredata come fosse una nave… Coraggio, pendolari: su con il morale!

Diario del pendolare: libertà di stampa

La libertà di stampa è un diritto, si sa. Ma comporta scelte e doveri per sostenerla, sia da chi i giornali li fa, sia da chi i giornali li legge.
I pendolari, da sempre, sono un popolo di lettori e sulle carrozze dei localacci, e non sulle linee dei signori dell’alta velocità, si riesce a tastare il polso dell’informazione dei lombardi che studiano e lavorano.
Ebbene l’edicola della stazione, un tempo strapiena di clienti, da qualche tempo è vuota. Le copertine e le prime pagine fanno bella mostra di sé sullo scaffale, ma rimangono dove sono. «Colpa di quelli che i giornali li danno gratis», si lamenta l’edicolante.
Quotidiani freepress (gratuiti), tra Milano e l’hinterland, oggi, se ne distribuiscono parecchi, migliaia e migliaia: spopolano agli ingressi delle stazioni e vanno a ruba tra i viaggiatori, per poi essere abbandonati sul posto. Notizie? Tutte uguali, riprese da Internet e scopiazzate dalle agenzie, un po’ di gnocca qua e là, tanta bella morbosità, il giusto mix di pettegolezzi per un lettore sempre più stressato, quello che viaggia. «Tanto anche sui quotidiani a pagamento è la stessa solfa», dice, sconsolato, un pendolare, ex lettore di quotidiani a pagamento, oggi rifugiatosi nella letteratura (Dan Brown trionfa sul passante ferroviario). La desolazione delle carrozze, al termine della giornata, con tutta quella carta sparsa qua e là, da un’idea precisa di quando si parla di “informazione spazzatura”.
Già, ma la difesa della libertà di stampa, quella che tanto fa infervorare la politica e i benpensanti, non comincia dall’investimento di 1 euro (uno) presso un’edicola?

Diario del pendolare: il guasto

Binario due, pienone in banchina, termometro a cinque gradi: ecco il giorno ideale per iniziare il diario del pendolare. Perché fino a qualche settimana fa, i treni viaggiavano ancora mezzi vuoti e perché il caldo fuori stagione regalava fin troppo sollievo. A Milano, sembrava quasi di andarci per una gita.

Oggi ci siamo, però: comincia la stagione. Donne, che fino a ieri concedevano generose scollature a sguardi neanche tanto indiscreti, stazionano appallottolate negli scialli, uomini intabarrati e irrigiditi come merluzzi norvegesi: tutti in attesa del treno delle 6,43, con lo stomaco contratto per il freddo e la testa che già è sprofondata nel sedile di una carrozza di seconda classe. Sagome asessuate di un mattino tipico di ogni pendolare, con un venticello che taglia la faccia, alzato dal treno in arrivo.

Si sale e ci si lascia cadere su una poltroncina impolverata e lercia, ma comoda quanto basta per entrare nel mondo di Orfeo che sembra attendere quella massa di sfrattati dalle lenzuola come un San Bernardo con la grappa sotto il mento, per dare un po’ di tepore. Quasi all’istante ci s’ingloba in un intero popolo dormiente, sfatto dal ritmo quotidiano, che a quell’ora non ha la forza di leggere nemmeno un aforisma o una barzelletta. Libri, quotidiani, pc ordinatamente riposti sulle ginocchia di ognuno, testa appoggiata all’indietro e respiro pesante: soltanto qualche studentello alle prime esperienze trova l’energia per starnazzare e ridacchiare, quanto basta per liberare un “vadavialcù” da una bocca impastata di sonno.

“Gallarate, stazione di Gallarate. Il treno fermo al binario 2 termina la corsa”. Guasto nefasto e bastardo, annunciato da un altoparlante non abbastanza carismatico per farsi ascoltare da uomini e donne in fase rem. Passano minuti prima che qualcuno, almeno tra gli insonni, si accorga del trappolone: il passaparola solleva sederi appesantiti al grido di «uè andiamo al sei, c’è la coincidenza per Pioltello»: è l’odissea tipica del pendolare, animale apparentemente senza meta, ma con un punto d’arrivo ipotetico, almeno ipotetico.

La transumanza al binario 6 è completa, o quasi: tuttavia, nei meccanismi perversi della quotidianità, qualcuno resta impigliato. Gimmy, per esempio, è rimasto di là sul treno spento: la sua sagoma la s’intravede appena, dietro il finestrino. Sogna un mondo diverso, è protagonista della storia d’amore che avrebbe voluto scrivere e pubblicare, vaga in un’isola esotica, deserta, accanto a Monica Bellucci. La trama è confusa, ma la scena è troppo intensa per risvegliarsi. Di fronte a Gimmy, poi, c’è Silvana, che si vede “più bella che intelligente”, ma è troppo immersa nella lettura per accorgersi di quanto accade attorno: dentro la sua realtà virtuale, è nel vivo delle Ragazze di Sanfrediano di Pratolini, un storia che prova a immaginare ai giorni nostri, perché la fantasia è bizzarra, non si ferma mai. Bob, il protagonista, donnaiolo e finto partigiano, è un novello Silvio B. capitato nelle grinfie di un gruppo di veline sedotte e deluse che, con violenza, esprimono il loro “non siamo a tua disposizione”.

Due anime disperse su un binario morto e nemmeno un straccio di samaritano pronto a riportarli nel mondo reale. Il resto della massa di corpi deambulanti è già sul localaccio delle 7,08: addio ai sogni, tutti in piedi e pedalare. Tutti in piedi, tranne Gimmy e Silvana, due destini che hanno deciso di fermarsi uno di fronte all’altro: chissà, a volte è così che nascono le storie d’amore.

Non c’è crisi per l’idraulico

«Mille per mille e il libro di Marco Polo, tre orizzontale». Parole crociate in libertà, di prima mattina, condivise ad alta voce dal tavolino del bar dell’angolo e per tutto il marciapiede: ecco uno dei passatempi preferiti di Nebbia che corruccia lo sguardo, si passa la matita nel cespuglio che ha al posto della barba, conosce la risposta, ma tace per qualche istante. L’enigmistica a lui serve per socializzare, per sentire una voce che si unisce al gioco e poi, chissà, finisce a parlare della vita, delle donne o dell’Inter. E intanto fuma un pezzo di toscano.
Il primo di agosto, però, i cruciverba a Certosa sono cantilena nel deserto di un quartiere chiuso per ferie, non morto, ma assopito. Non in vacanza, ma ritirato chissà dove, dietro persiane semichiuse verso strade che sprigionano calore e umidità. C’è Sandro, il barista, ma è rintanato là dentro, in compagnia della sola aria condizionata, e c’è il ragionier Ponchio che sembra non aver voglia di giocare, ma la risposta gli vien fuori così, come d’istinto per uno come lui che con i numeri ha una certa dimestichezza: «Mille per mille fa un milione, quello che mi ci vorrebbe per mandare affanculo tutti». Nebbia risponde con una risata soffocata da un colpo di tosse, perché non gli era mai capitato di sentire la voce del Ponchio e mai si sarebbe immaginato che un signore così riservato potesse lasciarsi andare con simili espressioni. Sono quattro giorni che il ragioniere passa le giornate seduto al tavolino: arriva di buon mattino, alle otto. Sta lì seduto tra giornali e caffè, ogni tanto fuma, sbircia nella sua valigetta, guarda nel vuoto, si nasconde dietro a un cellulare microscopico e tace. Soprattutto, tace. Nebbia conosce la verità, non l’ha saputa da nessuno, l’ha semplicemente intuita: il ragionier Ponchio, da quattro giorni, non va in ufficio ed è un libro aperto al capitolo disperazione. «La situazione attuale, sa, ci costringe a scelte dolorose e lei capirà, il suo rapporto di lavoro con noi finisce qui. La ringraziamo e le auguriamo buona fortuna»: è andata, più o meno, così. Licenziato in due minuti, quanto basta per buttare nel cesso ventitré anni di sacrifici, per l’azienda, per la causa comune: «Già, ma ora come faccio da dirlo a mia moglie e ai miei figli?», sono state le sue parole intrise di magone pronunciate davanti al direttore del personale. Sono passati quattro giorni e la famiglia Ponchio non sa nulla. E un ex ragioniere continua a prendere il treno al binario uno di Canegrate, convoglio carrettone privo di ogni comfort e con fermata a Certosa: a seguire, dieci minuti a piedi tra fabbriche dismesse e un cavalcavia dell’autostrada e altri cinque lungo un viale che, invece di condurre al suo ufficio, ora si ferma prima, a quel tavolino tra i platani e il marciapiede. La moglie a casa, i figli all’oratorio e lui lì seduto a consultare annunci di lavoro.
«Ditzamo, guardi, ditzamo che lei Ponchio, qui, non conta un cazzo», era stato l’avvertimento di un perfido manager di origine emiliana, ma che della sua terra, ora, non conserva che la parlata. Era un messaggio chiaro, quello, dopo che il superiore aveva scoperto che il Ponchio si era incautamente confidato al collega Perelli, noto aziendalista e spione, dicendo di volersi iscrivere al sindacato. Poi, dopo qualche settimana, altri segnali poco confortanti. «Sa, la crisi, ditzamo che richiede un’attenta valutazione, ditzamo, che prenda in esame la congiuntura che porterà probabilmente, ditzamo, a un riassetto strutturale in attesa che il mercato, ditzamo, riprenda a dare segnali confortanti»: aria fritta mirabilmente modellata da un supermanager da ottomila euro al mese, più buona uscita da nababbo, in caso di affondamento dell’azienda. Si fregia del titolo di bocconiano, l’emiliano, mica come un ragioniere qualunque, qual è il Ponchio. Studente a pieni voti presso il santuario milanese del “fàa danée” e oggi autentico sacerdote dell’unico grande credo che esalta i cattedratici della finanza: gli utili a monte, le perdite a valle. A monte ci sta lui, a valle i poveri cristi con le loro famiglie. E il Ponchio era un povero cristo, anche se non completamente scemo, tant’è che aveva colto il senso del discorso: il riassetto strutturale sarebbe passato dalle chiappe di qualcuno, forse anche le sue.
«Il milione, ragioniere, la risposta esatta è proprio milione. E lei che ci farebbe con un milione?», prova a sdrammatizzare Nebbia, lontano da lui non più di tre metri e due tazzine di caffè.
«Prima bisogna averlo davvero in mano il milione, poi quando si è sicuri di avercelo, si può ragionare. Io comincerei con l’andare fino a quell’azienda là, nell’isolato qui vicino, salirei le scale e andrei da un certo signore: “ditzamo che ora lei se ne va a fare in culo, ditzamo, a fare in culo lei, la congiuntura e il riassetto strutturale”, sarebbe il primo sfizio, poi al resto ci penso».
«Se l’avessi io, forse glieli regalerei, sa. Non me ne frega, io ci ho paura dei trop danée, caso mai mi vadano alla testa. E a proposito di testa, già sono messo male così, figuriamoci se i soldi la guastassero ancora di più. Anzi no, magari del milione farei metà: una a lei e l’altra metà me la tengo per assumere una badante brasiliana superaccessoriata, “solo distinti”. Già perché con un milione sei un distinto, mica un puttaniere qualsiasi». Ci aveva provato a dipingersi come l’uomo del gran gesto, Nebbia, ma anche in sogno sbraca sulla gnocca: ecco il vero difetto che gli impedisce di passare per filosofo professionista.
Intanto, però, il Ponchio riprende morale: «Se la mettessimo sulla fantasia, allora avrei un sacco di idee anch’io. Intanto manderei i figli a studiare in America e io e la mia signora ci passiamo un bel periodo da coppia di mezza età. Eh, la mia signora… già che ci sono, la manderei anche dal carrozziere, ma uno di quelli buoni, quello dei vip, a rifarsi un paio di taglie o tre di seno: è un regaluccio che ogni tanto mi chiede, ma che indubbiamente farebbe piacere anche a me. Mia moglie dice che la signora Santucci, la donna dell’idraulico, ha trovato una clinica in Brianza che faceva pure gli sconti e già che c’era si è fatta gonfiare davanti e tirare su dietro».
«Eccola, la piccola borghesia che si perde nel silicone!».
«Sì, ma fare l’idraulico, oggi, è quasi come fare il gioielliere. Però ha la figlia che si droga».
«Con la mamma che vuol fare la soubrette, è il minimo…io che pensavo che voi in provincia avevate le mogli che pensano a fare la salsa di pomodoro, visto che siamo ad agosto».
«La passata la troviamo al discount, quanto al resto, da noi in provincia, l’importante è che sembri tutto normale, tutto perfetto».
E anche il ragionier Ponchio, egli lo sa bene, è uomo di provincia, di una provincia troppo vicina alla città e troppo lontana dalla campagna, troppo piccola per soffocare il pettegolezzo, troppo cresciuta per essere immune dai mali tipici della periferia di una metropoli: meglio tacere, non dire, non far sapere e tutto sembrerà come sempre. Ma a fine mese qualcosa accadrà, la verità verrà a galla… È più o meno così che scoppiano le tragedie di provincia. Ma un ragioniere non può perdere la testa, dice lui, gesti insani e folli non ce ne saranno. «Domani vedremo», dice sempre. Intanto sorseggia il suo caffè davanti a Nebbia, fissando un telefonino muto.
«Quasi quasi vendo questo aggeggio al marocchino là al semaforo. L’altro ieri mi ha offerto cinquanta euro… almeno con quello ci porto la mia signora in pizzeria anche domenica, come facciamo sempre».
«Ah, per me quella è chincaglieria, ma per lei, ragioniere… meglio che lo tenga da conto, caso mai arrivasse la telefonata della svolta».
«Ah, allora per me è già venduto».
La mattinata scorre lenta e appiccicosa, il pomeriggio ancora di più. Nel mezzo, una michetta col salame e spuma nera mischiata al vino rosso, come nelle vecchie osterie meneghine. L’indomani arriva comunque, presto, nonostante la noia.
Poche ore e un nuovo caffè è sul tavolino del ragioniere, che prima di sedersi si aggiusta la cravatta proprio come se stesse per appoggiarsi alla scrivania dell’ufficio, un gesto che non ha mai perso, è come un tic. Anche Nebbia è sempre là, dove l’aveva lasciato il giorno precedente, con il cruciverba sotto gli occhi, la matita che scrolla un po’ di forfora dalla nuca e un dodici verticale da completare. Ma stavolta è Ponchio a rompere il silenzio: «Oggi te lo faccio io l’indovinello: dove va a dormire un cornuto?»
«Quelli veri dormono sempre nello stesso letto, con la moglie. Che è successo, ragioniere?».
«L’idraulico, boiavacca…Ieri ho preso il treno prima perché mi annoiavo qui al bar e l’idraulico Santucci aveva un gran lavoro sulla nostra lavatrice. Ma tra lui e la lavatrice, c’era in mezzo la mia signora…. Chela troia!».
«Oh Madonna! E il telefonino, cosa cavolo lo tiene in tasca per fare? Lei non sa, ragioniere, che è sempre buona regola telefonare alla moglie prima di rientrare in casa? E che ha fatto quando ha scoperto il fattaccio?»
«Chi ha fatto cosa? Lei, come niente fosse, è andata a farsi la doccia e almeno quella funzionava. Io, invece, sono stato cacciato di casa perché le ho detto che mi hanno licenziato, ma l’ho chiamata zoccola. L’idraulico, invece, ha tirato su i pantaloni e prima di andarsene ha pure salutato. Perché l’educazione viene prima di tutto».
«Non se la prenda ragioniere. Certo che l’idraulico è un tipo strano… manda la moglie a gonfiarsi come un canotto in clinica, ma poi si riconverte alle tardone vecchia maniera. La riparazione della lavatrice almeno l’avrà fatta gratis e le persone per bene si vedono dal saluto».
Ragionier Gianantonio Ponchio, disoccupato reo confesso e pigro nell’utilizzare il telefonino, torna sul mercato e, nel frattempo, alloggia da mamma Esterina: «Ecco dove va a dormire un cornuto di provincia. Una pensione minima in due può bastare, almeno per un po’». La povera donnetta che l’ha allevato lo considera ancora un ragazzotto che deve farsi le ossa: quarantasei anni sono pochi per capire come vanno il mondo e le donne di oggi, dice lei. «Sicuramente mi metterà a zappare nell’orto, mi ha già detto che ci sono i pomodori da cogliere. Quando ha saputo che torno da lei, è rifiorita, dice che vuol fare la salsa come tanti anni fa».
Le mamme di provincia, ad agosto, cuociono e imbottigliano passata di pomodoro. Lo fanno ancora, ma soltanto quelle dai settant’anni in su. La metropoli è lontanissima per loro, lavano a mano e non hanno tempo per i cruciverba. Nebbia farà a meno delle risposte del ragionier Ponchio, ma sui pomodori è sensibile: «Lei è fortunato! Pensi che io ho dei gran pomodori giù in fondo, vicino al cimitero, ma non ho nessuno che mi faccia la salsa».
«Se lo sapesse mamma Esterina… c’è un treno locale che ferma alla mia stazione già di buon mattino. Portali su, i pomodori, che domani facciamo giornata».

L’amore distrutto da un’oliva

Cicciuzzo non prende l’autobus di linea, ma un furgone sgangherato che lo scarica giusto davanti al cantiere, nella periferia Ovest: lavora alla Milano del futuro, è manovalanza del progresso. Parte che è ancora notte, dalla piazza del paese dormitorio, fagotto umano appoggiato alle colonne di un porticato. Lo sveglia la frenata, con scricchiolìo incorporato, del mezzo che proviene dalle baracche vicino al fiume, dopo aver caricato i fantasmi a giornata, uomini invisibili per il resto del mondo, caricati dietro, nascosti dal portellone. «Salire amigo», lo chiama Karim, l’autista senegalese. Sei posti, basta stringersi diventano sette: con le molle sfondate, ogni sedile sembra un nido di cornacchia nel quale sprofondare, mentre l’autoradio anni Settanta, a valvole, diffonde musica araba.

Papà Salvatore con mamma Rosalia erano saliti al Nord quarant’anni fa, per dare un futuro migliore ai propri figli: l’Italia del miracolo economico ha partorito una generazione di mantenuti, ma Cicciuzzo dalle case popolari non si è mai emancipato. Papà Salvatore faceva il magutt, come dicono qui, lui fa il magutt, anche se oggi il dialetto milanese non è più una lingua da imparare nei cantieri, oggi è meglio impratichirsi con i dialetti marocchini e rumeni. Il destino non gli ha concesso un gradino in più del padre, nella scala gerarchica degli operai edili: è stato superato da molti disperati, arrivati qui a bordo di un barcone di legno marcio, ma solido quanto basta per fuggire dalla fame. Non ha fatto carriera per via del suo carattere, permaloso quando non deve, bonaccione quando non conviene: «Mi arrabbio quando mi chiamano porco. Con quella parola, perdo la testa». E così, quasi apposta, i capicantiere incontrati negli ultimi anni finivano sempre per apostrofarlo in quel modo, per il gusto di vederlo andare su tutte le furie, come fanno i veterani di caserma con le reclute. «Sposta quel sacco di calce, brutto porco», gli disse un capo, quattro anni fa. E lui, come preso da raptus, prese il sacco e lo lanciò nel vuoto da trenta metri d’altezza, dal nono piano di una palazzina in costruzione, fortunatamente senza conseguenze per qualche malcapitato al piano terra. Ovviamente Cicciuzzo fu costretto a trovarsi un altro cantiere, però. Un’altra volta spaccò una pila di dieci tegole con un pugno, roba da guinness dei primati. Al cantiere del Musocco, dove lavora da un anno, tra Cicciuzzo e il maiale sembra essere tornata la pace, soprattutto perché i colleghi, quasi tutti stranieri, lo insultano in altro modo, tutta roba incomprensibile, in quattro lingue.

Di conseguenza, trascorre intere giornate sulle impalcature senza quasi scambiare una parola con nessuno, soltanto qualche parola sulle donne in generale, durante l’ora di pausa: si siede lì sulle assi, a venti metri da terra, e si rifocilla con il muso immerso nella schiscetta. Piatto unico: fagioli con cipolle e, quando mamma è generosa, vi trova anche una salsiccia. Lo sfama, ma non basta per placare la sua ossessione, il rapporto difficile con l’altro sesso: «Tu ti tromberesti la cassiera del bar lì sotto?», chiede di frequente al collega marocchino. «Que, trombesti?» risponde l’altro. E Cicciuzzo traduce nel linguaggio universale, con un gesto con la mano, e il marocchino ride. Il collega si chiama Rachid e ogni tanto si è addirittura confidato con lui: «Non è possibile che alla mia età, a trentacinque anni suonati, non abbia ancora fatto l’amore con una donna».

Centocinque chili di verginità. Cicciuzzo ci soffre parecchio e, per sfogare gli istinti, ogni giorno ci dà dentro con la mazza demolitrice: «Dammi un’ora e ti butto giù trenta metri di cemento», avverte Rachid. A volte arriva a sera che, a furia di mazzate, non è in grado nemmeno di tenere in mano la forchetta o il bicchiere della cena perché, per via dei colpi, ha le mani che gli tremano per molte ore dopo il lavoro. Una volta, alla ricerca di una terapia, aveva persino tentato un blitz dalla Chantal, la gattona, ma la scarsa abitudine alle curve femminili aveva finito per creargli il blocco del principiante, come un trapezista che, improvvisamente, scopre di soffrire di vertigini. E Chantal, impietosita, gli restituì pure i soldi: un flop a costo zero è, però, un colpo micidiale alla virilità di un magut irsuto e corpulento.

Oggi, però, Cicciuzzo ha l’aria meno depressa, anzi sembra persino sereno. Tanto che Rachid ne è incuriosito: «Che c’è oggi, hai trombato?»
«No, ma potrebbe accadere. Una donna si è innamorata di me»
«E chi è, la conosco?»
«La barista là sotto»
«Davvero? Che è successo, racconta?»
«Oggi mi ha sorriso e mi ha persino regalato un pacchetto di cicche»
«E allora? Che hai fatto, l’hai invitata fuori?»
«No, ma forse lo farò. E poi in questi giorni sto anche mettendo a posto l’appartamentino vicino a casa dei miei»
«Ma che c’entra?»
«Se la cosa dovesse andare in porto…»
«Non ti sembra di andare un po’ troppo di corsa? Un pacchetto di cicche può bastare per fare un fidanzamento?»
«No, ma è come mi guardava mentre me l’ha regalato….. ho capito che c’era qualcosa di strano»

Stasera, dunque, niente viaggio in furgone. Cicciuzzo ha deciso di tornare a casa in treno: «E se mi va bene, non rientro più, rimango lì al bar». Si precipita al bar con nobili intenzioni e il cuore che fa “bum bum”: al cantiere ha cercato di ripulirsi alla meglio, rubando un deodorante al capocantiere. Ora non è un bijoux, ma almeno sembra presentabile. In pochi secondi è già al tavolo di fronte alla cassa, ma al momento la postazione è vuota, niente barista. Ma eccola comparire: è una femmina giunonica che ama essere civetta e, per provocare i clienti, non nasconde le grazie che possiede. Che in realtà sono concentrate sul petto, enorme e prosperoso, taglia fortissima per due meloni da circo, che sembrano sempre esplodere da un momento all’altro da una scollatura generosa, ma tiratissima. Difficile guardarla negli occhi, ma Cicciuzzo è un uomo tutto d’un pezzo e con lei ha deciso di adottare la linea del massimo rispetto: se ne resta lì timido timido, sorseggiando un Crodino e mangiucchiando olive verdi.

Improvvisamente, la svolta: la donna dei sogni le si avvicina come per chiedergli qualcosa, Cicciuzzo pensa tra sé che è giunto il momento di dichiararsi. E mentre lo pensa, sente il cuore esplodere dentro di sé e una vampa di calore risalire dal petto verso il volto, paonazzo come non lo si era mai visto. Un istante, un non so che, un colpo gobbo del destino: «Ehm signorina?». Lei si china verso di lui, porgendogli il davanzale: lui, con uno stuzzicadenti in mano, prova a infilzare nervosamente un’oliva che, bastarda, rimbalza altissima, come un rigore sopra la traversa, ma finisce in rete, tra le mammelle della barista e sparisce nel buio. Imprevisto che scatena la reazione scomposta e… zac! Cicciuzzo si ritrova senza volerlo, in una frazione di secondo, con la mano infilata nella scollatura: l’istinto di voler riparare al danno l’ha rovinato.

E ora, in quei pochi secondi, è lì con la mano che brancola tra due palloni di carne, alla ricerca di un’oliva ormai dispera: è la tragedia. «Porco!! Brutto porco!», urla la barista. Tutto poteva dirgli, tranne quello: cuore infranto e cervello impazzito in una sola volta. Cicciuzzo scappa fuori dal bar, in preda all’ira: è diretto a tutta velocità contro la saracinesca di una vecchia drogheria dismessa. Impatto mostruoso e un corpo di uomo vergine che rotola scomposto e privo di sensi sull’asfalto. Ambulanza impazzita, corsa all’ospedale verso la salvezza: trauma cranico con amnesia è il verdetto per Cicciuzzo. Non ricorderà più nulla e Rachid, che gli vuole bene, gli ricorderà presto fantasie e conquiste, storie di donne ai suoi piedi, che l’hanno amato e venerato: al settimo piano di un condominio in costruzione, la vita sembra tutta diversa da laggiù.

Anche le biglietterie automatiche hanno un cuore

Un pendolare minaccia una biglietteria automatica con la pistola: arrestato. Purtroppo, tra uomo e macchina i rapporti restano difficili, ma la legge trionfa. Alla stazione di Busto Arsizio ha prevalso la tecnologia, perché ha avuto più sangue freddo. L’animale a due gambe, quando non riesce ad aver ragione con le buone, finisce sempre per sbroccare e passare alle maniere cattive: la violenza, è evidente, si dimostra più che mai sintomo di debolezza, al contrario di quello che molti potrebbero pensare. E la dinamica è sempre la stessa, dalla politica internazionale alla coda al semaforo, fino alla vita quotidiana spesa tra le banchine delle stazioni e le carrozze degradate di un treno localissimo.

È vero, la biglietteria automatica a volte è bastarda, ma almeno non fa sciopero: tra le tante sigle sindacali che proliferano tra i ferrovieri, non ce n’è una che abbia mai pensato di difendere i loro diritti, anche se, a questo punto, qualcuno potrebbe pensarci. Non potendo azzardare vertenze su orari di lavoro, minimi salariali e ammortizzatori sociali, almeno uno straccio di comitato potrebbe valutare una campagna di sensibilizzazione sulla sicurezza: scorta armata o possibilità di difendersi. Basta violenza, insomma: anche le biglietterie automatiche, in fondo, hanno un’anima. Altrimenti che si torni all’occhio per occhio.

Ogni lunedì mattina, lo sanno tutti, la stazioni sono una giungla, ma come nei peggiori saloon è comunque vietato sparare sul pianista. Un pistolero esaurito, invece, ha infranto l’unica regola ancora in vigore nel far west e la legge, implacabile, ha fatto il suo corso. Il popolo dei pendolari è in subbuglio, perché voci incontrollate, ma non smentite, sostengono che tra i meandri del pacchetto sicurezza ci sia un articolo che istituisce anche il reato d’ingiuria e sputi ai danni delle macchinette automatiche: è la fine di un’epoca, i maleducati sono avvertiti e, presto, anche le macchinette saranno autorizzate a rispondere per le rime. «Ridammi il resto, zoccola!», «E tu pigia il tasto corretto, stronzo!». La fanno franca, invece, i soliti maniaci: eppure, sembra non siano pochi i casi di stupro delle biglietterie automatiche nelle stazioni più desolate della Pianura Padana. Ma il ministro per le Pari opportunità si sta già attivando.

In quell’angolo triste e isolato della stazione di Busto si è consumato un dramma che, se alle biglietterie automatiche fosse garantito il diritto di replica, si sarebbe potuto evitare:
«Vuoi fare la furba eh!? Io il biglietto l’ho già pagato, ora vediamo se di fronte alla mia pistolona, ti torna la voglia di fottermi»
«Dai non fare così, ragiona, ti posso spiegare tutto…»
«Spiegare cosa? Mi hai tradito e io non ti perdono»
«Fai presto a dire tradito, ma prova a riflettere su come mi hai trattata. Come sempre hai fatto tutto di fretta, ma ti ho sempre chiesto di fare attenzione ai preliminari. Non tutti i buchi sono buoni, poi: per chi mi hai preso?»
«Basta, ho già ascoltato abbastanza, è giunta la tua ora»
«Su, aspetta, non perdere la testa. Se metti via la pistola, ti dò l’indirizzo di una mia amica che li dà gratis e lo fa da tutti i buchi»
«Le solite favole, ma dove l’hai vista, con le bagnine di Baywatch?»
«Quali favole, esiste veramente ed è a due passi da qui»
«Ma almeno è carina?»
«Beh, è simpatica»
«Ecco, siamo alle solite: allora è sicuramente tutta arrugginita con i tasti unti e tappezzata di chewing gum»
«Non è verò, caro, come posso definirla, è un tipo… Nel senso che in certi orari fa la sua figura e parla quattro lingue»
«Mi stai, per caso, dicendo di trovarmi un’altra? Tra noi è proprio finita, dunque?»
«Ho bisogno di tempo per riflettere»
«Vuoi prenderti una pausa, ma non è che hai un altro? Scommetto che mi tradirai con il primo che passa»
«Ma quale altro, mi hai fatto soffrire troppo. Certe ferite non si guariscono in cinque minuti»
«Non volevo farti del male, lo sai, e la pistola è scarica»
«Presto avrò la forza di perdonarti, ma prima di ricominciare lasciami un po’ di tempo per pensare»
«Ok, è giusto che tu prenda i tuoi tempi, ma non ti ricordi quanto è bello fare la pace, poi?»
«Prometti di non farlo più?»
«Promesso»
«Bravo, prima o poi ci riproveremo, contaci. Ma la prossima volta, ricordati la carta di credito, amore»