Rompete le righe

 

 

(Giostra, Londra - Foto di Marco Guimarães)

(Giostra, Londra - Foto di Marco Guimarães)

Ma chi sono gli italiani di Londra? So bene chi sono quelli che ho incontrato io, certo. Più difficile è però scoprire i tratti generali di un insieme così elastico, così eclettico, confuso. Possiamo prendere gli italiani nati a Londra da genitori che lasciarono l’Italia nel secolo scorso e che hanno avuto a loro volta figli e nipoti. Però non basta. Allora, prima di rompere le righe (ma non per sempre) da questa città ho rivolto la domanda a padre Carmelo, alla chiesa italiana di Clerkenwell Road. Volevo avere un colpo d’occhio su questa marea di vite che sfugge alle statistiche, che non affolla le cronache, che non appassiona quelli che non hanno mai varcato il recinto di casa. E con padre Carmelo si va sul sicuro, perché da lui sono passati e passano in parecchi. Ne battezza i figli, ne confessa i peccati. Celebra le messe per i loro morti, sepolti in una terra che non è quella natia. A volte smista fra i parrocchiani le bottiglie di olio, il vino, i torroni fatti arrivare dall’Italia, che per molti ancora significano il sapore della propria storia, anche se ormai li trovi in qualsiasi supermercato della città. Lui arrivò a Londra nel 1971. “Era un altro mondo – ricorda -. Per entrare nel Regno Unito dovevo dimostrare che cosa venivo a fare, io come tutti gli altri migranti. Ti contavano i soldi in tasca e, se dicevi che stavi andando a raggiungere un parente, le autorità lo chiamavano e chiedevano conferma. L’aspetto legale era molto duro, si doveva andare a fare la registrazione dalla polizia…”. Quarant’anni fa. Il Regno Unito non era un paese comunitario. E non c’era il mordi e fuggi dei turisti, dei lavoratori, degli studenti. Per dire: padre Carmelo rammenta che in quegli anni non rispettare la coda alla fermata degli autobus o alla biglietteria dei cinema era ancora un tabù per gli inglesi. Ora, di notte, c’è l’assalto alla diligenza per infilarsi dalla porta posteriore su bus strapieni da cui rischi di essere lasciato a terra. Quasi subito padre Carmelo iniziò a lavorare come cappellano nelle carceri inglesi per assistere i detenuti italiani. “Negli anni Settanta – racconta – ho visto qualche italiano in carcere per droga, poi negli anni Ottanta sono diventati tantissimi. Fu un periodo veramente brutto, centinaia di decessi dovuti ad Aids e overdose. Erano ragazzi che venivano da tutta Italia, in particolare dal Piemonte, dalla Sardegna, dal Veneto”. Uno scorcio che non dice certo tutto sul paesaggio italiano a Londra, ma che resta scolpito bene nel background di molte famiglie immigrate qui negli ultimi decenni. Poi i tempi sono cambiati. “Londra ha sempre catalizzato molti studenti. Per la lingua, per la libertà, per l’arte”. Le frontiere si sono aperte, la tecnologia ha liquefatto i tabù. “Negli ultimi dieci anni ho registrato un nuovo fenomeno di giovani italiani inviati dalle loro società, spesso banche, o che da soli sono arrivati in cerca di lavoro. C’è per esempio, a Londra, una marea di medici italiani, di architetti, di avvocati, per non parlare di quelli che si occupano di finanza. E ho la chiesa piena di persone che hanno fra i 25 e i 40 anni”. Alla St Peter’s Church, cuore italiano nella metropoli britannica, da un paio di anni sembra che si siano moltiplicati i corsi pre-matrimoniali bilingue. Italiano e inglese. “Almeno 150 coppie all’anno – riferisce padre Carmelo -, due terzi circa vanno a sposarsi in Italia e poi tornano qua…”. E poi, appena sopra la sagrestia, vicino alla chiesa ci sono gli uffici delle Acli, che danno assistenza alla comunità in lingua italiana. Ci sono i corsi di lingua. La messa della domenica è il momento del ritrovo collettivo per quella parte di italiani che hanno fede.  Ma perchè vengono e restano? “Perchè non trovano nulla di quello che cercano in Italia, anche se una parte di loro non vede l’ora di tornarci”.

La febbre del gioco

 

Bookmakers a bordo pista

Bookmakers a bordo pista

Quando ho letto quella notizia sullo scommettitore “beffato” da una delle società di bookmakers più grandi del regno, mi è venuta in mente quella sera a Wimbledon. La notizia riguarda un signore inglese che ha azzeccato le 24 città in cui il giorno di Natale sarebbe nevicato, ma per un errore chi ha preso la puntata non ha spiegato al cliente che quella non poteva essere una scommessa multipla. Insomma, non ha vinto quei 7 milioni di sterline che si era già sognato in tasca, grazie ad appena 5 pounds di “investimento”. A Wimbledon io non avrei mai vinto quella somma, scommettendo alle corse dei levrieri. Cani, esattamente come fossero i cavalli delle Bettole. Alla periferia sud di Londra, non lontano dal tempio del tennis, c’è uno stadio apposito. Atmosfera molto inglese. Anziane signore a prendere le scommesse allo sportello ufficiale, anziani bookmakers a contendersi i clienti a bordo pista sotto tre ombrelli di colori diversi. Intorno un viavai di umanità varia che – all’apparenza – di raffinato ha ben poco. Beh, avevo puntato 2 pounds sul cane numero 3, ma la signora dello sportello ha segnato 2. Non me ne ero accorto, finché il 3 non ha battuto proprio il 2 al fotofinish. E ho visto sfumare 5 pounds facili facili. Niente di che, ma per chi passa da Londra questa specie di febbre per la scommessa è un aspetto interessante da notare. Ci sono agenzie di bookmakers praticamente in ogni strada principale, quasi una vetrina accanto all’altra, sono più dei negozi che vendono pane. Si può scommettere sullo sport, calcio in testa. Ma anche sulla politica, sull’attualità ancora da venire, sulle classifiche musicale. E anche, perché no, sulle previsioni del tempo. Mai entrato in uno di questi negozi, troppo pericoloso per le mie tasche. Ma una serata con gli amici al Greyhound Stadium di Wimbledon non poteva mancare. Le corse dei cani non mi hanno particolarmente affascinato, il pubblico dello stadio – una specie di ippodromo per gente ruspante – merita però una visita.

I banchi "ufficiali" dove si raccolgono le puntate

I banchi “ufficiali” dove si raccolgono le puntate

Scarpe e pantaloni neri. E farsi la barba

 

Londra - Foto di Marco Guimarães

Londra - Foto di Marco Guimarães

 

Scarpe nere lucide: devono essere di pelle o di similpelle, taglio elegante anche se costano una manciata di soldi. Pantaloni neri: devono essere ben stirati, spesso con la riga, anch’essi taglio elegante anche si di tessuto scadente. E’ la divisa – anzi, la mezza divisa cui, sopra, ogni luogo di lavoro dà il suo differente completamento – di quel grande popolo che alimenta, dietro le quinte, la macchina economica della città infinita. Scarpe e calzoni neri, spesso anche la maglietta lo è, oppure si indossa la camicia bianca. Gli uomini devono essere sbarbati, le donne non portare orecchini. Sono i camerieri degli alberghi e dei ristoranti, gli uomini delle pulizie dei negozi e delle decine di migliaia di uffici, i commessi dei supermercati. Insomma, quelli che fisicamente presidiano la macchina di una metropoli che non si ferma mai. Vengono da tutto il mondo, a Londra. Dall’India e dal Bangladesh, soprattutto. Ma anche da molti paesi europei, specie dell’est. Vengono dalle Filippine, dal Sudamerica, dai tanti Stati del Commonwealth che, esattamente come a Londra, hanno come Capo dello Stato la regina Elisabetta. E’ facile che i più giovani siano studenti che hanno bisogno di guadagnare qualcosa. Un popolo in nero, anonimo, che viene inghiottito dalla metropoli silenziosamente. Lo incontri soprattutto al mattino presto, sugli autobus: la metropolitana è ancora chiusa, ma scarpe e pantaloni neri si accodano alle fermate dei quartieri di periferia e raggiungono i posti di lavoro prima che si accendano le luci e arrivino gli altri pendolari. E’ già mattina, ma il bus è ancora quello notturno con la grossa N davanti al numero. Di giorno la folla confonde tutto. La sera, spesso a tarda ora, il viaggio inverso, dal centro alla periferia. Per moltissimi avere la cittadinanza di questo popolo è il primo passo per conquistarsi un posto in città.

La sfida natalizia

 

Passeggero in attesa all'aeroporto di London Gatwick (da www.guardian.co.uk)

Passeggero in attesa all'aeroporto di London Gatwick (da www.guardian.co.uk)

La buona sorte ha premiato solo chi – come me – è atterrato in Italia prima dell’ondata di gelo e di neve. Il Natale 2009 sarà però ricordato, da molti italiani e varesini che abitano all’estero, come il più difficile da raggiungere. Non per ragioni di calendario ma di trasporto e di meteo. Da venerdì scorso gli aeroporti londinesi hanno accolto migliaia di passeggeri che in realtà non sono potuti partire o lo hanno poi fatto in ritardo e con un volo che non era quello prenotato, scongiurando solo all’ultimo un Natale lontano da casa. E’ stato così per chi doveva raggiungere soprattutto Milano ma anche Firenze. Il mio amico Paolo, che doveva essere a Varese già venerdì sera, ma che in questo momento è ancora a Londra a incrociare le dita per l’ultimo volo prenotato domani, ci racconta la sua piccola odissea, all’aeroporto di Gatwick, il secondo scalo di Londra da cui partono la maggior parte dei voli low-cost diretti a Malpensa. Tornare per Natale a casa è diventata un’avventura che (per ora) dura da 6 giorni:

 

“Venerdi’ 18 Dicembre arrivando all’aeroporto di Gatwick vengo a sapere che i 3 cm di neve caduti 24 h prima hanno completamente paralizzato la Easyjet per almeno tre giorni. Uno steward mi dà un volantino in cui si spiega che andando sul sito della compagnia si può ottenere il rimborso oppure un altro biglietto Easyjet. Vabbe’, mi dico, tanto mancano ancora un po’ di giorni a Natale, vado tranquillo a casa e riprenoto. Purtroppo però noto che questo ragionamento non viene seguito dalle centinaia di passeggeri nella mia stessa situazione, i quali invece preferiscono mettersi in fila davanti all’unico sportello Easyjet dell’aeroporto per fare quello che l’animale noto come uomo sapiens sapiens sa fare meglio ovvero lamentarsi trovando le piu’ assurde dietrologie sul perche’ qualcosa non funziona, imprecando ad alta voce e diffidando di tutto e di tutti. Ho lasciato Gatwick in questa situazione, venerdì scorso.
Martedi’ 22 dicembre ho il nuovo volo, ho un po’ piu’ di paura perche i cm di neve sono almeno una decina stavolta e le strade di Londra sono orribilmente ghiacciate. Con l’occhio costantemente su internet cerco di vedere se il mio volo è stato cancellato come temo viste le migliaia di cancellazioni dei giorni scorsi: il volo prima per Malpensa cancellato, il volo dopo per Malpensa cancellato, il mio nemmeno in ritardo. Miracolo di Natale? Vado a Gatwick e riesco ad arrivare fino alla lounge pensando ormai di essere quasi pronto a salire sull’aereo, ma niente, ci rimandano indietro all’area partenze. Io mi siedo esausto. “Morire dormire forse sognare”…no. Il destino gioca la carta “tortura” e parte un karaoke organizzato per far divertire le migliaia di bambini (tendenzialmente in lacrime e urlanti) presenti in aeroporto. Il volume e’ altissimo e per qualche strano motivo le canzoni invece che essere canzoni per bambini sono mielosissime canzoni d’amore R’n’B. In tutto ciò sui tabelloni il nostro volo risulta essere regolarmente imbarcato e le uniche informazioni buone ci vengono date da una signorina che di volta in volta ci aggiorna scrivendo su una lavagnetta. Il trionfo della tecnologia.
Alle 16.30 veniamo richiamati nella lounge, il morale della truppa, nonostante tutto, è alto: in parecchi hanno fatto amicizia e si sono formati parecchi gruppetti che confabulano amichevolmente e si ripromettono di uscire qualche sera insieme.
All’altoparlante si annuncia un ritardo di 10 minuti, mi pare di aver capito problemi di slot. Poi un altro ritardo: a Malpensa, ci dicono, la pista è ghiacciata. Poi un altro ritardo ancora, pare stavolta che il pilota non sia pronto. Alla fine c’e’ una pausa di silenzio di quasi un’ora. Il morale non e’ piu’ alto. Gli animi iniziano a scaldarsi, cominciano a partire i primi “ci prendono in giro!”, “è uno scandalo”, ” Bastardi!”. Alle 19 dopo una sfilza di scuse il responsabile Easyjet ci dice che non ci sono più voli Easyjet prima di Natale ma eventualmente possiamo prenotare con altre compagnie e la compagnia aerea ci rimborserà il prezzo del volo: in parecchi si fiondano su internet a prenotare le piu’ faraoniche business class su aerei placcati in oro di qiualche sceicco del Dubai. Io, per una volta, ringrazio Dio di aver studiato legge e spulciando le clausule del foglio informativo mi accorgo che il rimborso non puo’ eccedere i 250 euro, così torno a casa e riprenoto con la British Airways ad un prezzo quasi ragionavole per la vigilia di Natale. Così me ne sono tornato ancora una volta a casa (a Londra) ad aspettare altri due giorni per imbarcarmi, questa volta all’aeroporto di Heathrow. Non so quando, se e come ricevero’ il risarcimento dalla Easyjet ma sto preparando il fascicolo che spediro’ in giornata alla loro sede centrale che si trova (non e’ uno scherzo) nell’hangar 89 dell’aeroporto di Luton”.

Gli italiani sono secondi ai romeni

I numeri. Sono chiari. Sono freschissimi di pubblicazione. E dicono quello che da queste parti sappiamo da un bel po’ di tempo: gli italiani in giro per il continente sono davvero parecchi (almeno in percentuale). Eurostat ha reso noti ieri i dati su quelli che stanno in un paese straniero, benché interno all’Ue, in modo stabile. Gli italiani sono il secondo “gruppo” dopo i romeni. Ovvero l’11% dei cittadini stranieri residenti all’estero dentro l’Unione Europea, si tratta di 1,3 milioni di persone. Poi ci sono i polacchi. E ci sono ovviamente quelli – non considerati in questa statistica – che all’estero viaggiano spesso per lavoro, vivono per brevi periodi di studio o sempre di lavoro. Per chi volesse avere maggiori dati può andare a leggersi una sintesi a questo link: http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/3-16122009-BP/EN/3-16122009-BP-EN.PDF

Una volpe per amica

La notizia fa il giro del mondo. La foto è cliccatissima, a quanto pare: una volpe sale le scale mobile di una stazione della metropolitana di Londra. Ebbene sì, incontrare uno di questi animali in giro per la città – sembrerà strano – è cosa abbastanza consueta, soprattutto di notte.

http://www.corriere.it/gallery/cronache/12-2009/volpe/1/volpe-metro_a869a958-e341-11de-b4bf-00144f02aabc.shtml#1

http://www.corriere.it/gallery/cronache/12-2009/volpe/1/volpe-metro_a869a958-e341-11de-b4bf-00144f02aabc.shtml#1

Quante volte sono rientrato a casa a piedi e, da qualche parte, ho incrociato una volpe. Passeggiano come grossi gatti, spesso si spaventano e si infilano nel primo giardino a nascondersi e ti fanno passare. Una notte ce n’era una che rovistava nel sacco delle bottiglie vuote di un pub, vicino a Victoria Park: le ha fatte rotolare tutte per strada con grande fragore e poi se n’è andata, guardandosi furtivamente alle spalle.

Presi per la gola

Il vero miscuglio lo vedi a tavola, benché quello di tavola sia un concetto spesso molto vago. Nella via in cui abito – nell’East London meno elegante – puoi percorrere un paio di chilometri e mangiare indiano, cinese, turco, italiano, libanese, hamburger e fish’n chips. La qualità non è sempre di casa, è vero (non lo è nemmeno ai miei fornelli…). Però basta andare in qualsiasi altro angolo di questa enorme città e scoprire la propria tavola preferita. Spesso ciò significa incappare in una bancarella che, all’ora di punta, ti offre un buon take-away. A Exmouth Market, una viuzza fra le strade residenziali di Islington e gli uffici della City, a mezzogiorno puoi gustare (in piedi) un risotto con olio al tartufo, piatti brasiliani e indiani, salsicce cucinate da tre ragazzi italiani. Alle 11 scaricano il furgone, montano il gazebo e le griglie, poi inizia la distribuzione. In un paio d’ore si smonta tutto. E dire che intorno ci sono 4 ristoranti italiani, uno greco, una boulangerie francese, pubs e catene di caffé. Sfamare Londra è un’impresa che però richiede grande sforzo. E anche qui – pur non essendo nella campagna più tradizionale – capisci che la vera ricchezza che ciascuno può condividere con gli altri è il cibo. Se porti un buon piatto da qualsiasi parte del mondo hai conquistato il cuore di qualcuno. Il cibo può essere un lavoro. Per l’italiano immigrato qua può significare vendere forme di squisito pecorino o mozzarelle di bufala in un mercato, come a Borough Market. Esattamente come i turchi sotto casa mia ti preparano il kebab. Davanti al banco, nessuno verrà a obiettarti che questo non è il cibo tradizionale di Londra.

Brick Lane

Quando parlo di vivacità, parlo anche di luoghi. Come Brick Lane, al confine fra i palazzi di vetro e acciaio della City e East London. E’ un luogo che amo. E’ dove vedo più spesso fotografi a caccia di immagini curiose, nascoste. C’è qualcosa che rende questo luogo apparentemente vecchio il crocevia della contemporaneità che si realizza. E’ qui che una Londra alternativa si ritrova nei locali meno convenzionali della città. Le modelle posano agli incroci per le riviste patinate. Alla domenica – ideale continuazione del più austero Spitalfields – un coloratissimo mercato offre di tutto, dal cibo di ogni parte del mondo alle t-shirt che solo qui trovi. Ci sono abiti, gioielli, quadri, libri, mobili usati, vecchie cartoline. Molto di questa mercanzia è frutto della creatività di giovani (ma non solo) che bazzicano Londra. Ci sono anche italiani, benché la maggior parte di quelli che vedi alle bancarelle abbiano volti asiatici. La vivacità di un luogo che attira i giovani in cerca di novità la vedi all’opera in angoli come questo, dove è difficile distinguere il bizzarro dal normale e proprio per questo senti di poter partecipare anche tu. Dove mai trovi locali pieni di gente in vecchie fabbriche in disuso? E le mostre d’arte al primo piano di una autosilo chiuso in certe giornate per lasciare entrare la gente e installare il mercato? E quel ristorante in un vecchio autobus a due piani ormai a riposo? E i negozi alla moda dove un giacca costa 300 pounds accanto ai negozi vintage dove puoi trovare e indossare con poco lo stile del passato? Brick Lane, of course.

Qualsiasi cosa può essere un ristorante

Qualsiasi cosa può essere un ristorante

Una gran voglia di correre

Ci sarebbero tanti modi per replicare o aggiungere qualcosa alla lettera del direttore della Luiss, quanti almeno sono gli italiani che stanno all’estero. Ognuno, è chiaro, avrà il suo pezzetto di cammino da raccontare. A me, che certo non sono venuto a Londra per sfruttare i vantaggi di una laurea e non ho intenzione di rimanerci per sempre, vengono in mente molti aspetti quotidiani della vita (da immigrato) in questa metropoli, che valgano come possibili chiavi di lettura di una avventura lontano da casa. La prima è la ricerca di una vivacità che in Italia non trovi, al di là che tu sia laureato, ricercatore o semplice vagabondo. Spesso, a prescindere dal merito, è la paura di invecchiare giovane che mette le ali ai piedi. Quando qui cerchi un lavoro la prima cosa che vogliono sapere è: che cosa sai fare? Se lo sai fare, qualsiasi cosa sia, puoi trovare il tuo spazio, ti mettono alla prova. Anch’io ero in questa situazione un anno fa, mi ero messo in testa che avrei impiegato mesi a sistemarmi. Ci sono voluti 6 giorni. E quando in un’agenzia di lavoro mi hanno detto che potevo iniziare, era un venerdì, beh…il lunedì ho ricevuto la prima convocazione! Tutto in regola. Anzi ho fatto subito anche il National Insurance Number, di fatto il numero fiscale che ti fa esistere nel mercato del lavoro UK. Anche qui: pochi giorni e la tessera, gratuita, l’avevo in tasca. Per i lavori, generalmente, ti chiedono il curriculum e la lettera di presentazione. Devi dire chi sei, un po’ come il tema a scuola, solo che in questo caso ottieni spesso almeno un colloquio. Poi c’è la casa. Conosco persone che hanno cercato una stanza, l’hanno trovata e hanno traslocato da un punto all’altro di Londra in meno di una settimana. Nei musei ci vai gratis e ti raccontano una bella parte di storia artistica italiana, oltre a farti conoscere l’arte di oggi e di domani. Nei bar e nelle biblioteche trovi la connessione wi-fi gratuita. Intendiamoci: Londra non è il paradiso. E’ una vita spietata, le grandi opportunità che ti da’ possono essere al prezzo di una concorrenza sprezzante, di giornate a passo di marcia, amicizie spesso improvvisate, notti insonni per il rumore. In molti qui non trovano spazio e se ne vanno. Però penso che essere giovani richieda anche questo: se hai voglia di correre non puoi sempre tollerare che gli altri ti trattengano.

A volte un colpo d’occhio…

 

Banksy

Banksy

Regent’s park è uno dei parchi più grandi e più belli di Londra. Di fatto intorno a questa macchia di verde di proprietà della Corona britannica – che misura quanto un intero paese delle lontane prealpi – ruota una bella parte della capitale inglese. E’ come una raggiera: di qua la frenesia della zona commerciale di Oxford Street, i ristoranti italiani, francesi, libanesi, spagnoli di Marylebone, di là il museo di Madame Tussauds, poco più sopra ci sono gli eleganti scorci e le case lussuose di Little Venice, poi ancora dall’altra parte si può immaginare la folla di Camden Town e il traffico di King’s Cross. Quasi quasi potresti anche scorgere  la sagrestia di padre Carmelo.  Insomma, dal centro di Regent’s park si vede un volto vero dello skyline londinese. E quando a ovest tramonta il sole su questo formicaio di milioni di persone, abitanti e forestieri, nel bel mezzo di quello squarcio di cielo in cui le nuvole si rincorrono il profilo che si staglia con maggiore nettezza è sempre lo stesso. E’ quello di un minareto. Il minareto della London Central Mosque. Nessuno, a parte il cielo, arrosisce.