Tra le nuvole tutto troppo perfetto

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Due volte al cinema in una settimana. Per chi come me aveva abituato gli occhi al televisore di casa, questo è un vero avvenimento. Peccato che, dopo il bel Avatar, l’aspettativa di tanto entusiasmo sia stata smorzata da un film che, seppur bello, abbia reso non come si sperava. Non fraintendiamo, Tra le nuvole di Jason Reitman, è decisamente sopra la media, è un bel film, godibile e intelligente. Ma dopo un inizio molto originale, cattivo, scoppiettante, nella seconda parte scade in un moralismo che poco aiuta quella vena di cattiveria già avviata con Juno dal giovane regista. Certo, anche quel film aveva un moralismo di fondo. Moralismo che però si confondeva con la speranza e che soprattutto affrontava il tema della “vita”.

Tra le nuvole osserva le relazioni umane, le seziona, le comprime, fino a farle esplodere in due personaggi solo apparentemente agli opposti. Il film racconta del tagliatore di teste che combatte il sistema per poter licenziare di persona i dipendenti delle aziende in crisi, piuttosto che essere sostituito da un sistema di chat. Un lavoro, quello del tagliatore di teste, che prende piede soprattutto grazie alla crisi economica e che ha un obiettivo: evitare possibili cause legali all’azienda che licenzia. Clooney nella parte è come al solito fenomenale, il regista usa lo stesso stile fresco e giovane di Juno. Musiche ottime.

Ma quella seconda parte di film, dove il tagliatore di teste Clooney è costretto a fare i conti con i suoi di rapporti personali che aveva “licenziato” anni prima, scade nel banale. Mentre in Juno vi era originalità anche nelle scelte finali della protagonista, in Up in the air (titolo originale del film) proprio il finale non riserva particolari sorprese, tutto è in linea con una classica commedia drammatica. La speranza c’è, la tristezza anche. Tutto è perfetto, forse troppo.

Avatar 3D, il fascino di entrare in un nuovo mondo

avn12_avatar_22894fDue volte al cinema in due settimane. Un record se si considera gli ultimi due anni di visione domestica. Due anni in cui il cinema è cambiato ed Avater 3D ne è la prova. Il film di James Cameron è nei cinema da quasi un mese, ha battuto ogni record di incasso, e le sale sono ancora stracolme con lunghe attese per le prenotazioni, come accadde solo per Titanic, sempre diretto dal genio furbo di Cameron. Ma non è questo che ha fatto cambiare il Cinema. Lo ha fatto il 3D, e non uno qualunque, bensì quello di Avatar.

Quando i fratelli Lumiere inventarono il Cinematografo, inteso come concetto di visione di gruppo a pagamento, mostrarono treni che andavano incontro agli spettatori, posti esotici mai visti che lasciavano ammaliato chi osservava. E soprattutto soddisfatto. Avatar fa la stessa cosa: porta lo spettatore in un nuovo mondo, sconosciuto, alieno, invitante, affascinante, costruito nei minimi dettagli. Il mondo di Pandora, dove si svolge la vicenda narrata nel film, diventa reale proprio grazie a quella finestra che rende tutte le immagini tridimensionali.

La storia non è certo originale o nuova. Ma non lo era neppure il Titanic (non poteva certo non affondare). I detrattori di Avatar dicono che non racconta niente di originale. Nessun film lo fa. Le storie che l’uomo ha bisogno di sentirsi raccontare sono sempre le stesse. Avatar narra del riscatto di una società attraverso la forza di un singolo che riscopre, anche attraverso una storia d’amore, il proprio contatto con tutto ciò che lo circonda e che trova letteralmente il proprio posto nel mondo. Quanti film raccontano ciò? Tanti, tra cui molti capolavori del cinema.

Avatar ha il grande pregio di utilizzare il 3D non in maniera esibizionista o come un gioco per dispiegfare mezzi tecnologici mai visti. Il 3D è semplice e dopo pochi minuti dall’inizio ci si dimentica pure degli occhialini (seppur fastidiosi, soprattutto per chi porta altri occhiali). Tutta l’emozione della storia viene amplificata da un senso di realtà accentuato da una profondità mai vista prima al cinema. Pandora diventa reale, i suoi paesaggi (che mi hanno molto ricordato i quadri di Magritte) esistono veramente, sono tangibili. I protagonisti sono in sala sala di fianco a te. Le piante si colorano e vivono nel cinema. Tutta la sala diventa Pandora. Si rimane senza fiato e senza parole di fronte all’apprendimento del protagonista Jake che scopre il mondo di Pandora insieme allo spettatore.

Sarà anche il film più costoso della storia del Cinema, sarà quello che incasserà di più. Ma da questo punto, da Avatar, non si torna più indietro. Esisterà sempre il cinema a due dimensioni, come esistono ancora i fumetti o i giornali di carta, ma la frontiera di ciò che è possibile è stata spostata, non impercettibilmente, ma in maniera netta e tangibile.

In due anni il cinema è cambiato. E non ci vuole questa “astinenza” per capirlo. Avatar è reale quanto lo è il mondo di Pandora.

I bastardi che non dimenticano

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Quentin Tarantino si conferma uno dei pochi grandi registi in circolazione, insieme naturalmente all’intramontabile Michael Mann. Bastardi senza gloria è un grande film, nonostante le licenze storiche che si prende. Licenze che sono il fondamento di una narrazione “da riscatto” per le vittime. Un capolavoro di cui il regista dell’altrettanto grande Le iene ne è consapevole, tanto da farsi i complimenti da solo alla fine del film.

I bastardi di Tarantino sono perfetti, cattivi, scorretti fino ad arrivare alla macchietta, ma senza raggiungere l’estremismo violento di Kill Bill. La storia degli otto ebrei e del loro comandante che chiede a ognuno lo scalpo di cento nazisti, è un piacere per gli occhi e per le orecchie. Come al solito, il punto migliore sono i dialoghi: Tarantino riesce a rendere credibili dei monologhi che in mano ad altri registi farebbero venire il latte alle ginocchia; li rende vivi e tramite quel fiume di parole crea dei personaggi, come il nazista in questione, da manuale, cattivi che fanno venire i brividi per la loro consapevole lucidità.

Il regista ha realizzato come al solito un omaggio a quello che secondo lui è cinema: le pellicole di serie B che già aveva omaggiato nel sottovalutato Jackie Brown e altri capolavori; qui omaggia/copia un film anni ’70 di Enzo Castellari. Il risultato è un film di serie A, una grande opera che è capace di porre domande come “Ma è possibile che gli ebrei non si siano mai ribellati?” senza vergognarsi di voler mostrare la rabbia per la repressione subita.

Bastardi senza gloria è molto americano, è vero, è impossibile, è storicamente falso. Ma è cinema allo stato puro.

Il momento di Avatar, nuova frontiera del Cinema

avatar10Cresce l’attesa per Avatar, il film che cambierà ufficialmente il cinema. L’opera in tre dimensioni di James Cameron è destinata a rinnovare l’immagine collettiva della settimana arte esattamente come in passato hanno fatto solo l’avvento del sonoro e del colore. Il cinema 3D è già da tempo operativo e nell’ultimo anno le sale cinematografiche dotate di questo strumento sono più che triplicate. Quindi la tecnologia, almeno apparentemente, non è una novità.

 

Le novità del film e il regista

La vera novità è James Cameron, il regista. L’ultimo film è stato Titanic, 12 anni, oggi il più grande incasso della storia del cinema. Cameron lavora ad Avatar da diversi anni, ha creato delle speciali macchine da presa a tre dimensioni che già vengono utilizzate da altri registi su altri set. Per Avatar ha inoltre ideato uno sistema di ripresa sui volti degli attori che, in fase di montaggio, permette di non richiamare gli stessi sul set per rifare le scene, basta modificarle le loro espressioni al computer.

In tutto questo, esattamente come in Titanic, c’è anche la storia. Lo stesso Steven Spielberg ha ammesso, dopo la visione, di essere stato completamente rapito dal film. James Cameron non è nuovo a fare dei propri film degli eventi. Basta ricordare che il secondo Alien (Scontro finale) è quasi migliore del primo, mentre il primo Terminator è stato realizzato con pochi soldi. Titanic poi sarebbe stato per tutti un flop, mentre oggi è il film più visto della storia del cinema.

 

Il 3D e gli spettatori

Avatar e il 3D sono la nuova frontiera del Cinema. Il calo fisiologico degli spettatori negli ultimi cinque anni sembrava inarrestabile. Ma lo sviluppo tecnologico delle proiezioni cinematografiche in tre dimensioni hanno permesso di fronteggiare la pirateria sempre più diffusa attraverso il web. Infatti “scaricare” un film in tre dimensioni, sul televisore di casa non avrebbe nessuna resa dal punto di vista dell’immagine.

La tecnologia oggi si è evoluta dopo i primi esperimenti degli anni ’80. Allora era necessaria una proiezione con più macchine, oggi ne basta una sola, meglio se in digitale, ovvero senza pellicola. Bastano occhialini speciali, oggi leggeri e non fastidiosi.

Le sale in 3D nell’ultimo anno sono decuplicate. Secondo i dati forniti dall’Associazione nazionale industria cinematografica (Anica), su 3.800 sale in Italia, quelle che garantiscono queste proiezioni sono almeno il 10%. Gli incassi dimostrano la strategia vincente: il film di animazione “L’era glaciale 3D”, uscito a fine agosto, è tra i maggiori incassi degli ultimi dieci anni.

 

La trama del film
Il film racconta la storia del mondo alieno di Pandora, attraverso gli occhi di Jake Sully, un ex Marine costretto a vivere sulla sedia a rotelle. Nonostante il suo corpo martoriato, Jake nel profondo è ancora un combattente. E’ stato reclutato per viaggiare anni luce sino all’avamposto umano su Pandora, dove alcune società stanno estraendo un raro minerale che è la chiave per risolvere la crisi energetica sulla Terra. Poiché l’atmosfera di Pandora è tossica, è stato creato il Programma Avatar, in cui i “piloti” umani collegano le loro coscienze ad un avatar, un corpo organico controllato a distanza che può sopravvivere nell’atmosfera letale. Questi avatar sono degli ibridi geneticamente sviluppati dal DNA umano unito al DNA dei nativi di Pandora… i Na’vi. Rinato nel suo corpo di Avatar, Jake può camminare nuovamente. Gli viene affidata la missione di infiltrarsi tra i Na’vi che sono diventati l’ostacolo maggiore per l’estrazione del prezioso minerale. Ma una bellissima donna Na’vi, Neytiri, salva la vita a Jake, e questo cambia tutto.

New moon, il nuovo Romeo e Giulietta

newmoonGli autori negano, ma la storia è quella di Romeo e Giulietta. La saga di Twilight, i nuovi vampiri che hanno letteralmente fatto impazzire i teen ager di tutto il mondo, è basata sui romanzi di Stephanie Meyer. E nelle sale cinematografiche esce in questi giorni il secondo capitolo dal titolo New Moon. Dopo il successo del primo film, Twilight, costato 35 milioni di dollari incassandone oltre 400 milioni in tutto il mondo, la nuova avventura di Bella ed Edward, lei umana lui vampiro, sembra confermare l’ipotesi che dietro tutto ci sia proprio la storia di Romeo e Giulietta.

New Moon racconta infatti dell’impossibile amore tra Bella ed Edward: lui si vede costretto a lasciarla dopo aver visto che per lei è un pericolo starle vicino. Edward decide di andare a morire a Volterra (le riprese sono state fatte a Montepulciano) dove c’è una stirpe di nobili vampiri. Bella caduta in depressione, reagisce, va a cercare il suo amore credendolo morto.

 

La storia sembra proprio quella scritta dal Bardo, solamente aggiornata alla mitologia dei vampiri. La saga di Twilight ha un grande pregio: non è solo effetti speciali, ma anche introspezione e sofferenza per un amore impossibile; i personaggi sono ben costruiti, piacciono a giovani e meno giovani; lo spazio all’azione è soltanto funzionale al racconto, non esagerato.

Totalmente il contrario di quello che è successo a Harry Potter la cui saga, seppur raccontata da autori diversi, è andata sempre più verso una spettacolarizzazione che ha però raffreddato la storia e le emozioni che avrebbe potuto suscitare i personaggi. Errore che si spera non commetta anche questa nuova saga, decisamente meno politicamente corretta, ma che i grandi produttori hollywoodiani hanno già “addentato”: budget raddoppiato con cambio di regista, Chris Weitz, abituato agli alti costi di produzione. La parola agli spettatori.

Una cintura rossa contro la violenza

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C’è sempre una via d’uscita. Una morale forse scontata, molto americana, molto “ce la possiamo fare, sempre”. Una morale che spesso il cinema statunitense, soprattutto negli anni ’80, ha trasformato in un’ideologia di destra, convinte di aver sempre ragione in un vortice dove la violenza la fa ancora da padrone oggi, con l’imposizione della democrazia.

Redbelt di quel genio di David Mamet utilizza proprio questa morale, in maniera esplicita, diretta, chiara. Ma soprattutto pura: rifiuta la violenza, scompone la necessarietà dell’utilizzo della forza al semplice concetto dello sfruttamento della forza dell’avversario. È il concetto del “ju jitsu” pratica sportiva a metà tra il pugilato e le arti marziali, basata su più tecniche la cui ideologia base è proprio la non aggressione, o meglio, lo sfruttamento della forza e della tecnica di un aggressore.

Il film racconta di un maestro di questa disciplina, integro, puro, che si vede costretto ad andare contro i propri principi dopo essere stato vittima di un raggiro. Redbelt è un film di altri tempi, con una cura dei personaggi e dell’intreccio che solo l’autore de La casa dei giochi e Americani è capace di tessere (se si cordiera che Mamet è anche stato lo sceneggiatore di Gli intoccabili, tutto torna).

I colpi di scena sembrano annunciati e ogni volta vengono ribaltati. Il tutto in un crescendo grandioso che culmina in un finale per niente cinetico come ci si aspetterebbe o come i film di azione di hanno abituato. È tutto così reale e poetico che Mamet riesce a mettere un altro tassello alla collezione di ottimi e sottovalutati film da lui scritti e diretti. Assolutamente da scoprire.

La falsa redenzione di uno sporco distintivo

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Shakespeare in televisione, a Los Angeles, tra polizia e politici corrotti, gang giovanili, poveracci disadattati e amori impossibili, fatti di tradimenti e sesso. Tutto in The Shield, il distintivo, serie tv giunta quest’anno alla settima e ultima serie. Capitolo conclusivo di una saga iniziata sottotono, trasmessa a notte fonda in Italia, con uno stile che faceva sembrare il tutto un reality. Temi scottanti come quelli citati, tra denuncia e critica, che fanno degli episodi una vera cartina tornasole della società americana.

I protagonisti sono quattro poliziotti si una speciale squadra d’assalto che si ritrovano ad avere sulle spalle il peso di reprimere l’escalation di violenza che assale il quartiere losangelino di Farmington. Naturalmente per tenere sotto controllo la situazione, lo spaccio, gli assassini, non possono che diventarne una sorta di protettori, permettendo il tanto che basta che possa essere comodo a tutti, guadagnare soldi e non avere problemi con altri colleghi.

Ma quello che rende The shield inarrivabile per tutti, anche per altri autori americani di cinema, è la stessa qualità della serie carceraria Oz, in Italia troppo bistrattata. È la capacità di scandagliare la parte buia e più nascosta dell’animo umano, i desideri repressi, la gelosia, l’invidia, l’avarizia. Tutti sentimenti che in passato avevano trovato massima espressione nelle opere di Shakespeare. I puristi rideranno di questo paragone, ma questa serie tv, come i testi del Bardo, sono un vero trattato di sociologia. La serie non è ancora finita, ma gli autori hanno già dichiarato che queste saranno le ultime puntate. E finirà esattamente come tante altre tragedie del grande William, con una falsamente rassicurante redenzione.

L’Uomo ragno entrerà a Eurodisney

uomoragno_starcomics_1Topolino compra l’Uomo ragno, la Disney ha acquistato la Marvel. La seconda da qualche anno si era anche lanciata, con grande successo, nella produzione di film tratti dai propri fumetti, soprattutto per quelli nati dal genio di Stan Lee. Risultato: una rivoluzione per tutto il mondo del cinema fantastico con i protagonisti dei film per ragazzi che, come nei fumetti, hanno profonde ferite. Non solo le edificanti storie della Disney degli ultimi anni (quelle dei primi anni volute ad Walt Disney erano profondamente più inquietanti), bensì storie di personaggi tormentati, come un isolato Superman che cerca la normalità assomigliando agli umani; oppure uno Spiderman costretto a rinunciare alla vita privata e mosso dai sensi di colpa per la morte del nonno; o ancora gli eroi di X-men costretti loro malgrado a difendere un’umanità che dà loro la caccia.

Non sono mai stato un estimatore, Uomo ragno e Fantastici quattro a parte, dei fumetti della Marvel. Ma devo riconoscerlo: hanno sicuramente “stregato” e cresciuto più di una generazione.

Disney ha conquistato un’altra fetta di pubblico, sicuramente non indifferente, ha raccontato storie per grandi e piccoli. E non solo con finali edificanti. Ma l’aurea della Disney è sicuramente quella della favola.

Ora cosa succederà? Semplicemente, non cambierà nulla. Disney e Marvel terranno il loro marchio, faranno i loro fumetti, i loro film, terranno le abitudini dei diversi personaggi. Esattamente come accaduto con l’altro braccio della Disney, la Pixar che negli ultimi hanno ha creato i capolavori di Nemo, Monster & C., Cars e Wall-E.

L’unica cosa che cambierà, e qui cito il chiaro e semplice commento di un amico, l’Uomo ragno entrerà ad Eurodisney.

I protagonisti della realtà (cinematografica e non)

campbellIl cinema è ovunque, anche sulle imbarcazioni di immigrati alla deriva. Mai come in questo periodo ne sono convinto. Secondo la narrazione, studiata a livello antropologico da Joseph Campbell negli anni ’50, ogni essere umano alla fine vuole sentirsi raccontare la stessa storia: ebrei, induisti, cristiani, mussulmani. Le gesta dei loro leader ripercorrono sempre un viaggio verso la speranza.

La narrazione codifica così degli archetipi, dei personaggi che assumono un ruolo e su questo ruolo predefinito determinano le proprie azioni. È il caso del protagonista, motore della storia, e dell’antagonista, che si oppone al raggiungimento dell’obiettivo del protagonista.

In questi giorni sui giornali, sulla questione immigrazione, sembra proprio di assistere a un film, alla narrazione di una storia. A un escalation narrativa volta al raggiungimento di un obiettivo. Ma chi è il protagonista? Il malcapitato cittadino italiano benestante che combatte lo straniero antagonista? Secondo coloro che avremmo aletto a governarci, sì. L’antagonista va combattuto, schiacciato, annientato, torturato.

Ma se noi spettatori fossimo anche “personaggi”, potremmo anche assumere il ruolo di un altro archetipo: il mutaforme. In questo siamo bravi. Normalmente questa figura ha un’accezione negativa: si presenta come amico del protagonista portandolo invece sulla via sbagliata.

Tutti quelli che sono stati quindi amici di coloro che si credono protagonisti della Storia di oggi, forse potrebbero prendere coscienza che possono anche cambiare ruolo. Il viaggio per la speranza, per una vita, non è solo quello compiuto sui barconi verso la terra promessa, ma anche quello che si cerca di raggiungere essendo fieri di quello che siamo, rispettando tutte le altre persone. Pensiero che il protagonista di ogni bella storia cerca di raggiungere.

La stessa storia che ognuno di noi vuole sentirsi raccontare ogni giorno.

Delusioni: Tropic Thunder

tropic-thunder-posterBen Stiller mi piace, l’ho apprezzato in passato con il bel Giovani, carini e disoccupati, dove era anche regista di mestiere. Ho riso molto con Tutti pazzi per Mary e spesso è un comico sottovalutato. Ma Tropic Thunder, dove è anche regista, mi ha lasciato molto perplesso. Tanti cinefili mi urleranno contro, altri si saranno divertiti. Ma a parte i trailer iniziali (finti), tutto il resto arriva presto a noia, a mostrare la corda di un’autoreferenzialità cinematografica fine solo a se stessa.

Certo che il film piace ai cinefili e agli addetti ai lavori, come critici, appassionati o professionisti del cinema: Tropic Thunder è pieno di citazioni e soprattutto prende in giro le assurdità del cinema, i capricci degli attori, la macchina informativa, i mezzi di comunicazione. Ma è tutto troppo marcato. Lo facevano già negli anni ’80: L’aereo più pazzo del mondo è stato un must per tutti e lo è ancora oggi; anche La pazza storia del mondo di Mel Brooks è da non perdere. Ma almeno questi film si rivolgevano a un pubblico più eterogeneo, non a una nicchia, seppur amplia.

Tropic Thunder non deve essere bello perché ha avuto successo al botteghino o perché Tom Cruise ha ricevuto una nomination all’Oscar per la parte del produttore pazzo. O perché Robert Donway Jr è irriconoscibile nella parte dell’attore vincitore di cinque premi Oscar. Tropic Thunder, dopo la prima mezz’ora di visione, è una perdita di tempo: non avvince la narrazione, non dice nulla di più di quanto abbia detto in quei primi 30 minuti, non arriva a una conclusione. Seppur apprezzabile nella critica sociale al mondo del cinema, questa volta Ben Stiller ha fatto un buco nell’acqua, molto lontano da quel Giovani carini e disoccupati che me l’aveva fatto notare, e poi apprezzare in Zoolander. Non basta il successo commerciale o chiudersi in un mondo atuoreferenziale.

E poi, detto sinceramente, il tema dei film d’azione nel cinema, avrebbe avuto più senso qualche anno fa, quando gli spettatori andavano al cinema a vedere i film con Chuck Norris (assurdo Rombo di tuono) o Steven Segal (immancabile Nico).