Giornata Missionaria Mondiale: fermiamo l’esodo dei cristiani dalla Terra Santa

Ottobre è il mese missionario: domenica 21 la Chiesa celebra la Giornata Missionaria Mondiale, che però nella diocesi ambrosiana viene spostata al 28 ottobre perché il 21 è la festa della Dedicazione del Duomo di Milano. Quale miglior periodo per considerare la Terra Santa come luogo di missione! Di solito si pensa alla Terra Santa più come luogo di pellegrinaggio verso i grandi santuari della cristianità  (Santo Sepolcro, Betlemme, Nazaret); opppure se ne parla per questioni politiche come la questione palestinese, la guerra in Siria, il Libano, la primavera araba. Quando si parla di “missione” di solito si pensa all’Africa, più raramente all’Asia e ad altri posti. Eppure il cristianesimo in Africa è ormai una realtà consolidata in molte zone, in qualche caso maggioritaria, e solidamente impiantata. Vi sono però zone del mondo dove il cristianesimo non “sfonda” (per esempio il Giappone), dove regredisce numericamente e in percentuale (l’Europa), dove regredisce solo in percentuale (la Palestina), e dove le comunità cristiane sono perseguitate e martirizzate, di solito a causa del fondamentalismo terrorista musulmano (che recentemente ha colpito in Nigeria, Egitto, Iraq), ma anche indù.
Io stesso, stando a Gerusalemme, non sono abituato a pensarmi come un missionario, anche se in realtà ufficialmente lo sono. Forse è per il fatto che noi francescani ci sentiamo a casa ovunque siamo, mentre la parola “missione” richiama un altrove lontano che non è il tuo. O forse perché noi francescani siamo in Terra Santa dal XIII secolo. S. Francesco arrivò in Terra Santa nel 1219 chiedendo un passaggio ai crociati, ma venne senza armi come messaggero di pace. La sua testimonianza resa tramite un dialogo con l’allora sultano di Egitto che comandava tutto il fronte anti-crociato, valse a lui e ai suoi frati un salvacondotto, al quale si fa risalire la continua permanenza dell’Ordine francescano in ambiente quasi totalmente musulmano per tutti questi secoli.

L’entità ecclesiastica dei frati minori in Terra Santa, che agisce su mandato della Santa Sede fin dal 1342, si chiama Custodia di Terra Santa. Il nostro compito principale è quello di custodire i luoghi santi; “custodire” in qualche caso ha significato “difendere” e garantire il diritto di tutti i pellegrini cristiani di accedervi; più normalmente significa curare la liturgia, in modo che queste chiese non si riducano ad affascinanti testimonianze storiche ed architettoniche del passato, ma vivano e ripresentino ogni giorno lo scopo per cui sono state costruite, ovvero quello di essere case di preghiera e di memoria dei segni che contengono.  Oltre a ciò, la Custodia ha sempre fornito  assistenza pastorale e sostegno caritativo alla popolazione cristiana locale, soprattutto di rito cattolico, ma non esclusivamente. Solo dal 1847 è stata istituita una diocesi (che qui si chiama patriarcato) ma la grande maggioranza dei cattolici è tuttora assistita spiritualmente dai frati minori, che officiano nelle parrocchie più grandi di Gerusalemme, Betlemme, Nazaret. I cristiani che vivono in Israele e nei Territori Palestinesi sono l’1 % della popolazione, e a loro volta si dividono secondo i riti di appartenenza. La maggior parte sono greco-ortodossi, seguono cattolici, armeni, siriaci e copti. Tra i cattolici, il numero maggiore di fedeli appartiene alla chiesa melchita, ovvero i greco-cattolici di rito bizantino. In tutto i cristiani sono circa 120.000 in Israele e 40.000 nei Territori Palestinesi, tutti di lingua e cultura araba. Questi sono i cosiddetti “cristiani locali”, mentre con il fenomeno dell’immigrazione ora esistono anche numeri rilevanti di “cristiani non locali”, soprattutto indiani e filippini (vedi il mio blog del novembre 2011), anch’essi assistiti spiritualmente dai frati della Custodia; infatti, essendo l’ordine francescano presente in tutto il mondo, moltissime nazioni sono rappresentate nella Custodia di Terra Santa, che può così provvedere alle varie comunità cristiane con frati che parlano la stessa lingua e hanno la stessa cultura dei fedeli che assistono. Il problema dei cristiani “non locali” è che rimangono sempre sempre tali, cioè che non si possono integrare o insediare sul territorio in quanto il loro permesso di soggiorno scade insidacabilmente dopo un certo numero di anni  (tre o cinque) e quindi devono tornare al loro paese, lasciando il posto ad altri loro compatrioti che -per così dire- danno loro il cambio.

Il problema dei cristiani locali invece (cioè i cristiani di lingua araba; ci sono anche cristiani ebreofoni, ma sono poche centinaia) è che sono pochi e si sentono e/o sono discriminati sia dal punto di vista religioso che civile  e culturale da ebrei e musulmani, i quali crescono sia a livello numerico che in percentuale. Tra questi dovremmo inoltre distinguere la diversa situazione tra i cristiani che sono cittadini israeliani, tra quelli che sono cittadini Palestinesi e tra i cristiani di Gerusalemme che non sono né l’una né l’altra cosa dal punto di vista dell’appartenenza civile, ma che dal punto di vista della vita ecclesiale formano un solo corpo con  gli altri.

Come dicevo prima, presi in mezzo da tutte le parti, la psicologia e la tendenza dei cristiani è quella della fuga alla prima occasione. Ma questo la Chiesa Universale non se lo può permettere. Non possiamo cioè permettere che nei luoghi che fisicamente sono stati testimoni dell’evento della salvezza in Gesù di Nazaret e storicamente hanno visto la nascita del cristianesimo, la presenza cristiana sia garantita solo da religiosi e pellegrini stranieri, senza diritti “nativi”. Per scongiurare questo pericolo la Custodia di Terra Santa fa le veci di uno stato, al fine garantire ai cristiani locali il diritto alla casa, al lavoro e a un’istruzione non manipolata. Questo significa costruire case nuove e ristrutturare le vecchie da dare poi in affitto ai cristiani a prezzi quasi simbolici; significa dare lavoro direttamente o indirettamente, e gestire scuole dove il messaggio e la visione cristiana della storia non sia corrotta dall’ideologia o da faziosità politico-religiose.
Per sapere come aiutare concretamente la Terra Santa nei vari progetti curati dalla Custodia di Terra Santa, vi rimando al sito dell’Associazione di Terra Santa: http://www.proterrasancta.org/

Magnificat: un “laboratorio di pace” a Gerusalemme

Gerusalemme, Porta Nuova, qui sta il Magnificat

Dal 3 al 7 settembre la Fondazione ambrosiana Paolo VI ha organizzato a Villa Cagnola di Gazzada un bel convegno su Gerusalemme, “una città fra terra e cielo”. Il programma era intenso, con esperti di varia provenienza che hanno affrontato soprattutto gli aspetti storici, ma anche liturgici e pastorali della città santa, considerata da molti l’ombelico religioso del mondo. Mi sarebbe piaciuto andare, ma ho dovuto rimanere proprio a Gerusalemme per l’inaugurazione delle nuove aule destinate ai corsi accademici dell’Istituto Magnificat, la scuola di musica della Custodia di Terra Santa. Associo i due eventi per la coincidenza temporale e di argomento e perché condividono lo stesso spirito. Il convegno –secondo il depliant- “si propone come strumento per la formazione di una sensibilità culturale aperta al dialogo tra realtà antropologiche e religiose diverse”; il Magnificat questa sensibilità la concretizza quotidianamente.

All’Istituto Magnificat di Gerusalemme studiano, lavorano e suonano insieme insegnanti ed allievi musulmani, cristiani ed ebrei, sia Israeliani che Palestinesi, senza discriminazione di provenienza e di religione. Per questo qualcuno ci identifica come un “Laboratorio di Pace”, ma noi vogliamo essere solo una scuola di musica. Tuttavia per esistere come scuola di musica, nel contesto di questa città santa e contesa, dobbiamo coltivare la pace al nostro interno.

A volte mi diverto a scandalizzare le persone, dicendo che “la pace non è un obbiettivo”. Solo dopo che hanno strabuzzato gli occhi, spiego il paradosso: la pace non è un oggetto o un territorio che si può acquistare o conquistare, la pace non è un target, un bersaglio da centrare; la pace è come l’acqua per il pesce o l’aria per l’uomo, ovvero qualcosa che già ci deve essere affinché il nostro organismo possa crescere e maturare.

Da queste parti, al fine di vivere in pace, tendenzialmente ognuno “si tiene i suoi”, costruendo le proprie città, i propri muri, le proprie scuole, per poi chiudercisi dentro, sperando così di evitare i conflitti che possono nascere dalla mescolanza tra provenienze e religioni diverse. Ma la musica è l’arte che unisce al di là delle differenze: noi confidiamo nella musica e non escludiamo nessuno. Però questo non ci impedisce di fare le nostre scelte. La missione del Magnificat è quella di essere un luogo di educazione musicale e di preparazione professionale in campo concertistico e didattico, con particolare riguardo verso la comunità palestinese, dove c’è più bisogno e dove la domanda di un insegnamento qualificato è crescente, ma mancano i professori: stiamo cercando di formarli noi. La musica a Gerusalemme e nei Territori Palestinesi rappresenta non solo un’attività educativa, ricreativa e culturale, ma anche una concreta possibilità di lavoro e, per alcuni, di riscatto sociale.

Il Magnificat è l’unica scuola di musica situata dentro le mura storiche di Gerusalemme, nella Città Vecchia (anch’essa classificata come East Jerusalem). Siamo a Gerusalemme Est, ma vogliamo suonare come a Berlino Ovest. L’Istituto segue i programmi dei Conservatori di Musica italiani, in convenzione con il Conservatorio “Arrigo Pedrollo” di Vicenza, che vigila sugli standard qualitativi da realizzare. Una prestigiosa risorsa didattica del Magnificat è l’istituzione di Corsi Accademici, riconosciuti dal Ministero dell’Istruzione in Italia, che permettono agli studenti di conseguire diplomi validi nell’Unione Europea. Un’altra attività importante dell’Istituto Magnificat è quella di cantare e di suonare nei santuari e nelle chiese della Terra Santa in occasione delle grandi solennità liturgiche, in particolare al Santo Sepolcro e presso la Basilica della Natività a Betlemme.

C’è però una grande sproporzione tra i nostri risultati e i poveri mezzi con i quali li raggiungiamo. L’insegnamento ha un costo, che per la maggior parte viene sostenuto dalla Custodia di Terra Santa e poi da altri piccoli e grandi benefattori. Il Magnificat non gode di sovvenzioni pubbliche e con la retta scolastica si coprono solo due mesi di attività. Abbiamo bisogno di comperare i libri di testo, gli spartiti e gli strumenti musicali da mettere a disposizione dei bambini, perché le famiglie non possono sostenere inizialmente questa spesa, soprattutto per strumenti poco popolari ma molto costosi, come per esempio l’oboe e il fagotto. Vorremmo aprire nuove classi per completare l’offerta didattica con tutti i principali strumenti. Il nostro sogno è di arrivare a proporre una regolare stagione concertistica con i nostri allievi ed ex allievi, rivitalizzando la Città Vecchia di Gerusalemme, pressoché priva di istituzioni culturali stabili, soprattutto musicali.

Ma oltre alle risorse finanziarie sono importanti le relazioni e gli scambi con le altre scuole e istituzioni musicali e culturali europee, che permettano ai nostri allievi di confrontarsi con ambienti internazionali, oltre i muri mentali e materiali di questa terra, che chiudono loro orizzonti e prospettive.

So che province, comuni e regioni (e anche l’unione Europea) hanno dei capitoli di spesa per cooperazione internazionale, ma noi non sappiamo da dove attingere queste informazioni e a chi rivolgerci. Se qualcuno desidera contattarmi per darci aiuti, informazioni o consigli può scrivermi a questo indirizzo: magnificatjerusalem@gmail.com. Altre informazioni sul Magnificat si possono ricavare dal sito www.magnificatinstitute.org.

Ramadan: un invito per tutti alla coerenza

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Cari amici di Varese Terra Santa Blog,

dopo tre mesi di silenzio torno a farmi vivo, soprattutto per rassicurare quelli si chiedevano che fine avessi fatto. È presto detto: ho lavorato, pregato e basta; sempre piegato su dettagli di poco interesse per voi e sempre chiuso dentro, ma senza la voglia e il tempo di guardare fuori.

In realtà ieri notte la testa fuori l’ho messa; o, più esattamente, ho curiosato dalla finestra della mia stanza per capire chi facesse tutto quel casino. Era una manifestazioni di ebrei nazionalisti che in gran numero sfilavano verso la Porta di Damasco gridando slogan che inneggiavano a Gerusalemme. Qui avranno incrociato i musulmani che si recavano alla preghiera durante il mese di Ramadan, per poi fare il giro esterno delle mura fino al Muro Occidentale (o “del pianto”, come dite voi in Occidente). In questo giorno (per gli ebrei Tisha Beav, che quest’anno cade il 29 luglio) entrambi i gruppi religiosi sono in digiuno, i musulmani perché siamo nel mese di Ramadan e gli ebrei perché ricordano la distruzione sia del primo che del secondo Tempio (586 avanti Cristo ad opera di Nabucodonosor e 70 DC ad per mano delle truppe di Tito). Perché vi dico questo? Solo perché ho fatto la foto che vedete. Però questa potrebbe essere l’occasione anche per una breve riflessione sul digiuno.

 Il digiuno è una confessione di fede fatta col corpo, come risposta d’amore alla grazia di Dio, che ci ha amato per primo. In questo senso è anche una sorta di dichiarazione d’amore. Ci può essere vero amore laddove si rifugge da rinuncia e sacrificio? Facciamo un test: sposereste un “lui” o una “lei” che vi dicesse: “Ti amo, ma non chiedermi di dimostrarlo”? Così il digiuno è come una prova di amore che si fa con amore. Il digiuno (come le altre forme di penitenza) è segno ed esercizio della propria volontà di conversione. Ma la conversione è un’esperienza religiosa e umana, che in quanto tale richiede la partecipazione anche del corpo.

A seconda delle tradizioni religiose il digiuno assume anche altri significati, come quello di purificazione e di espiazione. Il digiuno, in quanto segno di una volontà di conversione, di purificazione, di espiazione, ha anche un forte valore di testimonianza. Come non rimanere impressionati ed edificati dalla costanza di questi musulmani che in questo mese di Ramadan stanno senza mangiare e senza bere dall’alba al tramonto, tantopiù in un periodo così caldo dell’anno?

Qui in Terra Santa, a seconda della ricorrenza, digiunano tutti: ebrei, musulmani e cristiani. Purtroppo proprio qui a Gerusalemme è più facile constatare che quelli che digiunano di meno –e che quindi danno su questo punto meno testimonianza- siamo proprio noi cattolici. E, tra i cattolici, i religiosi. Forse perché studiamo troppo. Quelli che hanno studiato ti spiegano che penitenza significa conversione, che nel vangelo conversione è una parola greca che si chiama metànoia e che la metanoia è il cambiamento del cuore e della mente dal male al bene: insomma, tutto un giro di parole che per qualcuno teorizza l’illusione di potersi convertire senza fare penitenza.

La Chiesa italiana poi ci mette del suo e ammette e dispone come “digiuno” addirittura un atto che è il suo contrario, cioè il mangiare (cfr. la nota pastorale “Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza” del 1994). Si tratta di un mangiare regolamentato: un solo pasto al giorno con eventuali piccole integrazioni al mattino e alla sera: faccio notare che nessun vocabolario registra questa accezione di “digiuno” come valida per la lingua italiana, e che se tutto il mondo digiunasse in questo modo il problema della fame nel mondo non esisterebbe.

Sotto sotto c’è forse anche la preoccupazione del pastore di non essere più seguito dalle proprie pecore; ma a Gerusalemme sembra che le cose non stiano così, e che dove la fede è vissuta con maggior coerenza e radicalità (una radicalità semplice, antropologica, non fondamentalista, non cieca) la religione torna ad interessare, perché rappresenta maggiormente l’uomo, fatto di anima e di corpo.

Io comunque sono tornato a 110 kg di ciccia e di peccati, e voglio prendere stimolo da questo Ramadan per un recupero sia fisico che spirituale.

Palle di neve a Gerusalemme

2 marzo 2012. Nevica a Gerusalemme. Succede in media ogni quattro anni. Sul monte Hermon nel Golan invece la neve c’è tutti gli anni, tanto che gli israeliani hanno costruito una stazione sciistica dentro una base militare (il Golan è territorio sottratto alla Siria dalla Guerra dei Sei Giorni): ricorda posti come i Piani di Bobbio o Monte San Primo, ma nei primi anni 70. Nessun problema di traffico, perché il traffico non c’è. Quando nevica le scuole sono automaticamente chiuse e quasi nessuno va a lavorare. Il problema viene risolto alla radice e nessuno se la prende col sindaco. Non sembra vero ai frati e alle suore che studiano alla Studio Biblico Gerosolimitano di poter fare a palle di neve. Alcuni la neve la vedono per la prima volta, per esempio i frati del Mozambico e del Brasile. Nevica sul Santo Sepolcro, oggi invaso dalle crociere che sbarcano ad Haifa e in un giorno si fanno i principali santuari confusamente. Tra di loro c’era anche gente di Varese che ho visto in coda per entrare nella Tomba della Resurrezione: non erano tanto contenti di aver trovato la neve, però si divertiranno a raccontarlo quando torneranno a casa. Nel link qua sotto trovate il video di quello che ho descritto (tranne i turisti di Varese).

http://youtu.be/TU6uQGpvSVs

 

 

È iniziata la Quaresima: Alleluia!

La Quaresima è iniziata anche in Terra Santa. I Latini –cioè noi cattolici- hanno già celebrato la prima domenica, mentre gli ortodossi la celebreranno il 4 marzo. Questo è il periodo più bello per stare a Gerusalemme, quando la città cristiana esprime la sua identità più profonda nella liturgia, sempre solenne, specialmente al Santo Sepolcro. Qui i riti addirittura spesso si sovrappongono: domenica scorsa mentre i greci ortodossi e i copti erano verso la fine della loro messa, i cattolici avevano iniziato la loro, e così per una ventina di minuti si è verificato tutto un caleidoscopico contrappunto di canti, preghiere, incensi e azioni liturgiche [ascolta un esempio cliccando il link alla fine dell’articolo]. Solo qui a Gerusalemme è possibile vedere in uno stesso tempo, in uno stesso spazio, come la stessa fede si possa esprimere in forme e in gesti così diversi. Per esempio, la comunione ognuno la fa a modo suo. L’altro giorno ho assistito a quella dei copti: prima fanno la fila per il pane e mentre lo consumano si coprono la bocca con un fazzoletto bianco ricamatissimo; poi si mettono in coda per ricevere il vino, che gli verrà somministrato con un cucchiaino (lo stesso per tutti). Ma anche la nostra messa è abbastanza particolare, con le Lodi inserite e cantate in gregoriano, tutta in latino, con letture e preghiera dei fedeli possibili in varie lingue, vangelo e omelia in arabo. Il patriarca –cioè il vescovo o un suo delegato- assiste dalla sede ma non celebra, perché l’eucaristia è sempre presieduta da un frate minore francescano della Custodia di Terra Santa. Il patriarca recita però i riti di introduzione, gli oremus (eccetto quello sulle offerte) e tutte le benedizioni (cioè quella al diacono per il vangelo, al predicatore per l’omelia e quella finale). Il patriarca invece presiederà e celebrerà i riti della Settimana Santa. Le ragioni di questa strana situazione liturgica sono storiche e giuridiche allo stesso tempo, ma ora non mi ci addentro. Non sembri una scortesia, anzi, al contrario, al patriarca riserviamo tutti gli onori che spetterebbero storicamente al Guardiano del Santo Sepolcro e del Monte Sion, ovvero al Custode di Terra Santa. Il Custode invece in Quaresima e nel Triduo Pasquale presiede riti meno importanti, ma più specifici della liturgia propria di Gerusalemme, come le Vigilie notturne, il Funerale di Cristo e la Lavanda dei piedi al Cenacolo. Le notti di vigilia si celebra la Memoria della Resurrezione, e per questo si canta un antifona con l’Alleluia, che in tutte le altre chiese cattoliche è sospeso fino a Pasqua. Dopo un giro con le candele accese intorno all’edicola del Santo Sepolcro cantando il Benedictus, il Custode entra nella tomba con l’Evangeliario; quindi, tornati nella cappella dell’Apparizione, proclama egli stesso il vangelo della Resurrezione. Queste sono solo alcune delle ricchezze liturgiche di Gerusalemme e tutte le chiese cristiane hanno le proprie. Chi ama la liturgia deve venire qui: sarebbe bello che qualche agenzia di viaggi organizzasse un “pellegrinaggio liturgico” proprio per fare questa esperienza di bellezza e devozione.

ascolta: http://www.fileden.com/files/2012/3/3/3273464/quaresima.mp3

http://it.custodia.org/default.asp?id=4&id_n=19746

http://it.custodia.org/default.asp?id=4&id_n=19755&Pagina=1

Forza Assad

“Forza Assad”: con questo slogan preso dal linguaggio sportivo si potrebbe sintetizzare il sentimento politico della quasi totalità dei cristiani che vivono in Siria (la mia fonte autorevole per stare sul sicuro parla del 90%). Sotto il regime degli Assad i cristiani hanno goduto di protezione e libertà di culto, così come le altre minoranze religiose. Questa situazione di tranquillità si realizzava anche sotto gli altri regimi dittatoriali o fintamente democratici che sono stati spazzati via dalla cosiddetta “Primavera araba” o stanno per esserlo. I cristiani del Medio Oriente si domandano come mai le potenze tradizionalmente cristiane si diano tanto da fare per creare instabilità politica nella regione e per aprire la porta al fondamentalismo islamico. Gli assalti alle chiese e le uccisioni dei cristiani in Egitto sono già cominciate. Un mio conoscente siriano che abita in un villaggio cristiano vicino al confine turco mi ha detto che solo pochi giorni dopo l’inizio dei sommovimenti in Siria, sui muri della città sono apparse scritte “Stiamo arrivando”.

Lo sapevate? Sono tante le cose che non si sanno su quello che sta succedendo, o che si sanno ma non vengono raccontate. Non le so nemmeno io; ma quelle che so non corrispondono sempre esattamente a quello che appare sulla stampa occidentale. Bisognerebbe controllare le fonti o, almeno, citarle. Così si saprebbe se i giornalisti che mandano informazioni sulla Siria, le raccolgono e le spediscono da lì o non piuttosto da altri luoghi, come Libano, Israele o Turchia; se le immagini e i dati che vediamo sulle televisioni europee e che leggiamo sui giornali derivino da inchieste fatte sul campo o piuttosto non siano dei semplici forward di agenzie di stampa controllate da regimi o stati come la Turchia, l’Arabia Saudita o il Qatar, che hanno interessi nella regione e combattono con l’arma di una informazione unilaterale una guerra che non intendono combattere militarmente.

Non dico che tutto quello che si sa sia falso, ma invito alla prudenza e a un briciolo di diffidenza critica preventiva. Io stesso non prendo per oro colato tutte le cose che mi raccontano i miei amici siriani o egiziani. Però prima di giudicarle bisognerebbe verificarle e prima di verificarle bisognerebbe saperle. Per esempio, questo mio conoscente che abita in Siria vicino al confine turco, mi ha detto che un giorno si sono alzati e hanno visto arrivare dall’altra parte dei bulldozer che hanno spianato una grande area in territorio turco. In poco tempo è nata una tendopoli ben organizzata con tanto di ospedale da campo. I confinanti si domandavano a che cosa servisse. Quando due settimane dopo sono scoppiati i primi disordini in Siria hanno capito: quell’accampamento era in realtà un campo profughi che la Turchia aveva costruito in anticipo rispetto ai disordini. Sarà vero? Non lo so: ma se fosse vero sarebbe segno che la Turchia sapeva in anticipo che sarebbero scoppiati grossi disordini sociali, tali da preventivare l’allestimento di un campo profughi; o lo sapeva o –nel peggiore dei casi- è stata parte attiva nel provocarli. Un altro amico siriano, di ritorno dalla casa dei suoi genitori, circa un mese fa mi ha detto che aveva trovato molti controlli militari, perché l’esercito stava presidiando il territorio in quanto –approfittando della situazione- si erano formate bande armate di malviventi (alcune provenienti dalla Turchia) che depredavano la gente e violentavano le donne che non portavano il velo. Sarà vero? Non lo so. Ma se fosse vero, probabilmente cambierebbe di molto la nostra indignazione, sentendo che l’esercito di Assad spara contro i civili e sapendo che almeno una parte di questi “civili” è costituita da bande di criminali.

Quello che mi domando è: possibile che in una situazione così complessa la ragione e la verità stiano tutte da una parte sola? Mi piacerebbe sentire o leggere qualche notizia discordante, possibilmente verificata. La cosa mi interessa perché anche la Siria è Terra Santa.

Nella foto: Knayeh (Siria), convento di San Giuseppe

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Post Scriptum
Confusi dal titolo, alcuni amici hanno equivocato questo blog, accusandomi di sostenere una posizione pro Assad: valga per tutti la risposta che ho dato ad uno di loro, qui di seguito.

Caro amico, ti invito a leggere meglio il mio blog. Il titolo “Forza Assad” l’ho scritto per attirare l’attenzione (essendo un titolo) e correttamente si riferisce non alla mia opinione, ma alla posizione pro-Assad dei cristiani siriani fino a un mese e mezzo fa, forse due. Può darsi che adesso abbiano cambiato opinione. Il punto del mio articolo non era sulla politica pro o contro Assad, ma sulla comunicazione: partendo da mie fonti dirette e diverse fra di loro, che risultavano così discordanti rispetto all’informazione che veniva passata in occidente, mi domandavo se quella informazione non fosse veicolata da agenzie controllate da paesi che hanno interesse a manipolarle per i loro interessi, in primo luogo Qatar e Arabia Saudita (che infatti dieci giorni fa ha abbandonato la conferenza di Tunisi perché le potenze internazionali non intendevano prendere in considerazione un intervento armato). Il mio era un invito a controllare le fonti delle informazioni; ma siccome questo non è sempre possibile, si dovrebbe –per prudenza epistemologica- trattarle col beneficio del dubbio e almeno sospendere il giudizio. E a valutare caso per caso. Che l’esercito di Assad stia bombardando Homs possiamo considerarlo un dato assodato (ci sono le immagini); ma che spari ovunque e indistintamente sulla popolazione -come tu asserisci- è più difficile da dimostrare o da mostrare e dunque da credere (anche se è possibile, data la natura abominevole della guerra). La comunicazione ormai viene usata come arma non convenzionale, per cui diventa fondamentale sapere da che parte l’informazione viene “sparata”.

Auguri di Terra Santa

Auguri, auguri, auguri. Di Buon Natale, che è già passato (“e non sono ritornato; ma la miseria sa cos’è l’amor: resto qua”: cit. da Vinicio). E di Buon Anno. Il mio è iniziato malissimo: ho perso tutta la posta dell’anno scorso che avevo salvato in una cartella di Outlook. La ghè pü. Praticamente è un mese che non aggiorno il blog, ma sun tropp ciapàa: per darvi un’idea, ho anche saltato il pranzo di Natale perché dovevo scrivere la cronaca sul Natale del Patriarca a Betlemme (se la volete leggere è su http://it.custodia.org/default.asp?id=4&id_n=18786&Pagina=1 ).

 Auguri. Non è una ripetizione, ma un titolo: parleremo di auguri, gli Auguri in Terra Santa. Non quelli che si scambiano tra amici, ma quelli istituzionali, che sono molto interessanti. In un luogo così denso di conflitti manifesti e latenti, anche il solo incontrarsi è già di per sé un segno di buona volontà e di pace. I primi e più inaspettati, in quanto non previsti da alcun protocollo, sono stati quelli del presidente dello Stato di Israele Shimon Peres, che ha voluto farli di persona ai cristiani locali (qualche giorno dopo ha fatto anche quelli istituzionali previsti ai vari capi delle comunità). Quello che per molti è un concetto univoco (“cristiani”), però qui a livello organizzativo comporta una non facile “reductio ad unum”, perché qui i cristiani sono armeni, armeno-cattolici, greco-ortossi, melkiti, latini (cioè noi), siriaci, siriaco-cattolici, copti, maroniti, anglicani e protestanti di diverse tribù (e adesso per questa ironia mi arriverà la mail di protesta di qualche protestante, che in questo caso ha ragione di protestare). E tutti insieme fanno l’1% della popolazione. Quanti mesi prima si sarà dovuto muovere il segretario di Peres per invitare tutti e –soprattutto– per capire chi invitare, anzi, da chi farsi invitare in modo che ci siano tutti? E quante telefonate avrà fatto? Ve lo dico subito: una sola telefonata dieci giorni prima. Come è stato possibile ciò? Perché da ottocento anni da queste parti c’è una figura istituzionale che conosce tutti e si relaziona con tutti: il Custode di Terra Santa, il quale ha chiamato il parroco francescano di Giaffa (Tel Aviv) che ha invitato i parroci delle altre confessioni cristiane e la cosa si è fatta (c’è il video del Franciscan Media Center su http://it.custodia.org/default.asp?id=4&id_n=18802&Pagina=1 ).
Invece Abu Mazen, il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’abbiamo invitato noi. È una bella consuetudine che si ripete per la cena che precede la messa di mezzanotte a Betlemme, alla quale Abu Mazen -come Arafat prima di lui- sempre partecipa. Prima si faceva nel nostro refettorio e ci stavamo tutti, ma adesso che è cresciuta l’importanza della Palestina e la statura politica del suo Presidente, è aumentato anche il seguito di ministri, guardie del corpo e diplomatici esteri, per cui ci rechiamo nella sala da pranzo di Casa Nova, la pensione per pellegrini annessa al convento.
Tralascio gli auguri a Gerusalemme della Polizia (“come è stato il movimento dei pellegrini durante la primavera araba?”), dell’Esercito (“avete avuto qualche problema al check point quest’anno?”) e del sindaco (“l’avete poi fatto quel parcheggio …?”).

Il 27 dicembre è il giorno ufficiale degli auguri di Natale che le principali chiese (di cui sopra) vengono a porgerci nel nostro convento di San Salvatore. Arrivano in processione con i loro patriarchi dalle 8.30 del mattino (al pomeriggio sarà invece il turno del Patriarca Latino e del Nunzio/Delegato Apostolico). Il clima è cordiale, ma il cerimoniale è rigido: 1) il Patriarca saluta il Custode e i frati e augura un Santo Natale di Pace; 2) il Custode ringrazia il Patriarca ed augura alla sua comunità un Santo Natale di Pace; 3) alcuni frati servono liquori e dolci ai loro ospiti, mentre altri cantano canzoni di Natale; 4) misurate conversazioni informali; 5) i frati servono il caffè, che è l’atto ufficiale conclusivo; 6) dopo il caffè i saluti, con ordinate strette di mano: che sia un Santo Natale di Pace. Il giorno dopo c’è stata l’altrettanto protocollare ramazzata di Betlemme, con scope in cielo e spazzoloni sulla terra (anzi, sulla testa). Ma non c’è problema: a gennaio, dopo il Natale degli ortodossi, tutti si recheranno a fare gli auguri a tutti. E finché si berrà il caffè insieme sarà ecumenismo.

 

Attraverso il muro: il particolare inizio di Avvento a Gerusalemme e Betlemme

In tutto il mondo cattolico la preparazione al Natale inizia con la prima domenica di Avvento. A Gerusalemme e Betlemme, invece, di fatto questa gioiosa attesa è segnata da un evento solenne per la comunità locale: l’ingresso del Custode di Terra Santa a Betlemme per la festa di Santa Caterina di Alessandria il 25 novembre, accolto dalle autorità civili e religiose della città e dalle bande –in senso musicale- degli scout. Però quando la festa è prossima alla prima domenica di Avvento, l’ingresso viene posticipato al sabato per ragioni pastorali, e così la festa coincide con l’inizio dell’Avvento.
Santa Caterina di Alessandria, vergine e martire, la cui venerazione era variamente presente anche nella devozione popolare lombarda (ricordate la canzone? “La santa Caterina -biribim biribim bimbum- era figlia di un re – eeh eeh) è la santa titolare della chiesa, della parrocchia e del convento della Custodia di Terra Santa presso la Basilica della Natività a Betlemme.
L’ingresso del Custode di Terra Santa – o anche del Patriarca Latino quando tocca a lui – è molto ritualizzata. È interessante vedere come la situazione geopolitica di questo paese si inserisca anche nel cerimoniale. In Italia, quando il vescovo deve andare in visita a una sua parrocchia, prende la macchina e arriva. Qui la cosa non è così semplice, anche solo per il fatto che a un certo punto la strada per Betlemme è sbarrata da un muro di otto metri militarizzato che segna un confine conflittuale: di qua Israele, di là la Palestina.
Al mattino il Custode riceve i notabili della parrocchia di Gerusalemme nella “Sala del divano” del convento di San Salvatore. Dopo il saluto e il discorso del mukhtar e la risposta del Custode (vedi il mio articolo su http://it.custodia.org/default.asp?id=4&id_n=18432&Pagina=1) i parrocchiani accompagnano il Custode a Betlemme e si forma un corteo di auto scortato dalla polizia israeliana. Il corteo fa una sosta davanti al monastero greco-ortodosso di Mar Elias, che segna il confine della parrocchia di Gerusalemme e l’inizio di quella di Bet Jala (che dunque oggi è un pezzo al di qua e uno al di là del muro). Qui attendono i notabili e le autorità della parrocchia e del comune di Bet Jala e Bet Sahour, che vengono ad accogliere il Custode: solo in occasione di queste cerimonie è consentito alle auto con la targa verde palestinese di entrare in territorio israeliano. Poi il corteo riparte, però secondo l’antico percorso, più accidentato rispetto alla strada nuova: in Terra Santa bisogna fare le cose come sempre sono state fatte, e le autorità –che siano ottomane, inglesi, giordane, israeliane o palestinesi– si adeguano per non avere ulteriori beghe da risolvere. Arriviamo al muro; non il solito ingresso presidiato che tutti i pellegrini hanno sperimentato, ma un ingresso riservato. Al di là del muro ci sono …. due muri e poi un altro cancello. Qui assisto ad una scena bellissima, di perfetto clima natalizio: al cancello ci sono quattro guardie di frontiera, due israeliane e due palestinesi, spalla a spalla. Passata la macchina del Custode incominciano a ridere; poi si stringono la mano, si salutano e il cancello si richiude. Purtroppo non ho avuto la prontezza di scattare una foto (io ero sulla macchina dietro a quella del Custode). Siamo già a Betlemme,ma c’è ancora una postazione dell’esercito israeliano; qualche metro dopo arrivano le forze di sicurezza palestinesi, che ci scortano verso la basilica mentre la gente ci saluta dai marciapiedi. Arrivati nella piazza principale il custode riceve gli onori e fa il suo ingresso prima in basilica e poi nella chiesa di Santa Caterina per l’inizio delle celebrazioni. Anche l’ingresso in convento è ritualizzato, addirittura fino all’ingresso del Custode nella sua camera in convento. A pomeriggio, durante i vespri solenni si scende nella grotta dove è nato Gesù. Tutto questo lo potete vedere più ampiamente sul sito della Custodia, articolo, foto e video.

http://it.custodia.org/default.asp?id=4&id_n=18484&Pagina=1
http://it.custodia.org/default.asp?id=4&id_n=18498&Pagina=1

 

Devozione e inculturazione in Israele

In India i cristiani costituiscono l’1% della popolazione, ma in Israele i cristiani indiani rappresentano il 90% dei loro connazionali e sono quasi tutti cattolici. Hanno scelto di emigrare qui esattamente per il fatto che questa è la Terra di Gesù, la Terra Santa. E così la Custodia di Terra Santa (che è la provincia ecclesiastica internazionale dei Frati Minori fin dal 1200) gli ha messo a disposizione come cappellani dei frati indiani. Gli indiani sono un esempio di fede e di devozione per tutti. Sabato 10 settembre hanno organizzato a Tel Aviv-Giaffa una processione dalla Chiesa di San Pietro (quella che domina tutta la città) alla chiesa di S.Antonio in occasione della festa della Natività di Maria. Erano più di duemila: considerando che in totale sono 5000, ha partecipato quasi la metà della loro popolazione. Per maggiori informazioni rimando all’articolo e al video sul sito della Custodia . Qui attraggo la vostra attenzione sull’opera di inculturazione effettuata: la stella che vedete dietro la Madonna non è la stella cometa ma la cosiddetta “stella di Davide” (in realtà in ebraico sarebbe “scudo di Davide”), che è il simbolo dello stato di Israele; hanno dimenticato una punta, ma fa niente.
http://it.custodia.org/default.asp?id=4&id_n=15373&Pagina=1
http://it.custodia.org/default.asp?id=4&id_n=15408

Il colmo calcistico di Israele

Sai qual è il colmo (calcistico) per Isreale?

Il 23 agosto sono stati giocati i preliminari di Champions tra Maccabi Haifa (Israele) contro Gent (Belgio). Finisce ai rigori. I tiri degli israeliani vanno a sbattere contro il muro innalzato dal secondo portiere dei Belgi, László Köteles (pronuncia Kotel), che ne para due e fa vincere la sua squadra.

Ironia della sorte: Kotel è il nome ebraico del Muro del Pianto.

Come avrebbero potuto perforarlo? Con quale spirito i giocatori israeliani si saranno recati sul dischetto? Non a caso l’unica loro realizzazione dagli 11 metri è stata merito di un negretto riccioluto, tale Talb Twatha, nato in Israele nel 92, ma di sicuro non da famiglia Ahskenazita.