Preparare un’intervista sul proprio taccuino, da giornalista coscienzioso, può essere talvolta una premura inutile, perché l’incontro con il soggetto scelto può andare oltre il semplice botta e risposta e anzi, spaziare a 360° sull’argomento della conversazione. La birra, in questo caso, e la birra di Extraomnes in particolare, visto che l’interlocutore è nientemeno che il “Birraio dell’anno 2013”, Luigi “Schigi” D’Amelio (foto di Marco Corso). C’è lui dietro le 17 diverse specialità prodotte – alcune di continuo, altre stagionalmente, altre ancora in collaborazione – a Marnate, in una delle realtà più brillanti del panorama artigianale italiano, che pure ha tante perle sulla propria collana.
«E visto che dicono che il 17 porti male, abbiamo quasi pronta la diciottesima» ride di gusto Schigi, quando va a prendere una bottiglietta – rigorosamente da 33cl., unico formato in vetro di Extraomnes per scelta e filosofia di vita – della Bloed («vuol dire “sangue”, si pronuncia Blùd»), l’ultima nata, dal colore rosso intenso e dal profumo di ciliegia dato proprio dall’utilizzo di quel frutto durante la lavorazione.
Prima però di passare alla degustazione della Bloed e delle altre specialità della casa, va raccontata brevemente la storia di Schigi, milanese trapiantato a Legnano ma di origini lucane, magari con le sue parole. «La birra mi appassiona da sempre perché amo conoscere quello che bevo. Negli anni Novanta però non c’erano corsi specifici e così iniziai ad accostarmi al vino. Sono diventato sommelier con l’Ais prima di accostarmi, finalmente, alla birra: era il ’99 e frequentai un corso da Baladin a Piozzo, tenuto da Teo Musso e Kuaska (Lorenzo Dabove, il massimo esperto italiano ndr). Con quest’ultimo si è sviluppata una grandissima amicizia: ho iniziato a seguirlo in Belgio, dove Kuaska è in grado di farti conoscere tutti i “dietro le quinte” del mondo brassicolo e dove è ben più famoso che in Italia. Una volta ci siamo persi nei dintorni di Mechelen, abbiamo chiesto aiuto a una passante e questa… lo ha riconosciuto!».
E così il Belgio le è entrato nel cuore.
«Sì, a colpi di visite, di rassegne come il Kerstbierfestival, di persone e di aziende del ramo: Cantillon, ma anche De Dolle che è in assoluto il mio produttore preferito. Tanti incontri che hanno avuto il merito di trasmettermi la grande tradizione della birra che purtroppo l’Italia non può dare; non vorrei essere frainteso: il nostro movimento è interessante, sa trasmettere la cultura della birra, ma lassù la producono da secoli e questa storia la si sente. In quelle occasioni inoltre ho avuto modo di carpire qualche segreto, che poi mi è tornato utile quando ho iniziato la carriera da birraio».
Questo è un altro capitolo interessante. Come è nata Extraomnes?
«Nel 2006 ho tenuto un corso di degustazione birra a Dairago al quale hanno partecipato i proprietari della Café El Mundo, l’azienda nella quale Extraomnes si è sviluppata e di cui fa ancora parte. Loro avevano già in mente a un progetto legato alla birra artigianale, e volevano una persona che partisse da zero, che non fosse né un homebrewer né un birraio, ma che conoscesse l’argomento. Io sono rimasto sorpreso, perché il mio lavoro era quello di descrivere e diffondere la birra, non di produrla. Però mi hanno convinto, e allora abbiamo iniziato a fare prove con un piccolo impianto pilota da 30 litri, che usiamo ancora quando dobbiamo inventare qualche nuovo prodotto».
Dal 2006 all’esordio sul mercato però sono passati circa quattro anni.
«È vero, ma lo abbiamo scelto noi. La mia popolarità nel mondo della birra poteva essere un’arma a doppio taglio: da un lato, durante i tanti mesi di prove, ho avuto l’occasione di far venire a Marnate produttori e homebrewers di livello che conoscevo, per provare l’impianto e confrontarmi con loro. Dall’altro però avevo di fronte i fucili spianati: se la birra fosse stata cattiva, sarebbe stato facile criticarmi. Tanto più (risata ndr) che abbiamo deciso di complicarci la vita scegliendo il nome “Extraomnes”, come a dire: “Fuori tutti, ora ci pensiamo noi a fare la birra”. Bene: abbiamo fatto qualche centinaio di cotte prima di iniziare la produzione ufficiale, appunto nel 2010. E visto che la birra piaceva, la mia notorietà è servita per farci conoscere».
L’iter che seguite quando preparate una nuova birra è ancora così meticoloso?
«In un certo senso sì: certo, non passano anni dall’idea alla commercializzazione, ma ogni nuova birra ha un’incubazione di due o tre mesi a seconda di quello che abbiamo in mente. Quadrupel, Hopbloem e ancor più la Donker nella quale impieghiamo il caffé, e che quindi non potevamo sbagliare per nulla al mondo, sono quelle per cui ci è voluto più tempo».
Non so se il termine giusto è “filosofia”, ma quali strade seguite per preparare le vostre birre?
«Io dico sempre che “le birre vanno solo bevute”, nel senso che non mi piace dare alla birra significati particolari, non voglio snaturarla. E per questo non mi piace considerarle bevande “da meditazione”. Così ritengo che i miei prodotti si debbano anzitutto bere: anche se hanno un tenore alcoolico elevato devono prima di tutto essere beverine (abbiamo testato la Quadrupel sul posto, confermiamo! ndr). Poi, mi piace produrre ciò che amo bere: non voglio copiare il Belgio, voglio semplicemente preparare birre che mi piacciono, e cioè simili alle loro. Non a caso il complimento più bello che posso ricevere è il sentirmi dire che una Extraomnes “sembra una birra belga”. A proposito, abbiamo iniziato a esportare anche in Fiandre e Vallonia: mi sento come un pizzaiolo giapponese che apre e viene apprezzato sulla costiera amalfitana…».
L’intervista si allunga inesorabilmente. Però siamo venuti anche per chiedere al “Birraio dell’anno” di predire il futuro del mondo brassicolo artigianale italiano.
«Fare previsioni valide per tutti non è facile. Iniziamo a essere in tanti, anche se ormai il 10/15% dei marchi è fatto da beer firm che è cosa diversa dall’avere un impianto proprio. In tanti ormai esportano all’estero e vivono soprattutto grazie a ciò; vedo però che le birre artigianali italiane iniziano anche a farsi largo in molti pub solitamente legati alle grandi marche e questa è una buona notizia. Diciamo che stiamo mettendo “un piedino nella porta” e forse, con quindici anni di ritardo, iniziamo a percorrere la strada che hanno fatto le craft breweries negli Usa dove oggi quelle produzioni coprono circa l’8% del mercato».
Gran finale: cosa ci racconta del premio di Birraio dell’Anno?
«Non sono uno che di solito partecipa ai concorsi, tanto che Extraomnes non invia mai le birre a queste manifestazioni. Il “Birraio dell’Anno” però è una cosa differente, avevo già sfiorato il premio due volte e speravo proprio di farcela. Tra l’altro il voto è segretissimo: vengono raccolte le preferenze di 70 esperti ma nessuno sa quali sono i risultati sino all’apertura della busta: neppure Kuaska, che ha presentato l’evento, sapeva quale nome ci fosse scritto. Io e Giovanni Campari eravamo gli unici candidati che non avevano ancora vinto, ci siamo ritrovati accanto, abbracciati, come le due finaliste di Miss Italia e per fortuna il verdetto è stato a mio favore. Insomma, un po’ di emozione mi è venuta, e in una notte ho ricevuto 130 messaggi di congratulazioni su Facebook, tanto per dire quanto questo premio si sia fatto conoscere. Poi sono iniziate le chiamate di giornali di ogni tipo per le interviste: è un bene ma anche una responsabilità a questo punto. E poi, ci toccherà lavorare di più!»
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pur non riconoscendole il titolo di mister simpatia, riconosco Lei essere bravo a fare le birre…………….