Una vita parallela da costruire

Ciao a tutti, mi chiamo Sara. Qualche mese fa con Intercultura sono partita per la Danimarca. Vivo a Copenaghen e ho una famiglia numerosa: mamma, papà, due fratelli e una sorella. Qui sto costruendo una nuova vita, insomma una vita parallela. Riniziare una nuova vita non è uno scherzo, anzi, una delle cose più difficili da fare. Quando sono partita da Roma con i miei compagni di viaggio, durante il volo, ho pensato a tutto ciò che avevo costruito e vissuto in Italia per sedici anni, e proprio tutto ciò lo stavo abbandonando per costruire e vivere qualcosa di nuovo. Nella prima settimana di esperienza non ci si rende conto di ciò che sta succedendo, perchè sei bombardato da numerosissime novità e le giornate passano in un secondo. Per quando mi riguarda la seconda settimana è stata la più difficile fino ad adesso, perchè proprio in quel momento ho realizzato cosa mi stava accadendo, cosa stavo facendo, dove ero ecc. Passato questo piccolo momento di crisi, sono entrata nell’aroutine di tutti i giorni e pian piano ho iniziato a gettare le basi di questa vita parallela danese. Non è facile ricominciare da soli, ma, a parer mio, se ho fatto una scelta come questa e se mi hanno ritenuta idonea per questa esperienza, posso farcela!!!  Proprio questa espressione: POSSO FARCELA, me la ripeto tutte levolte che mi scoraggio, perchè magari non riesco ad esprimermi, perchè magari sento la mancanza di qualcuno, queste due paroline magiche mi fanno sempre andare avanti, andare avanti per me stessa, per la mia nuova famiglia. Dopo due mesi e mezzo di esperienza posso dire che le basi della mia nuova vita sono salde: famiglia, scuola, lingua, amici. Da qui ora si inizia a vivere un’esperienza unica ed irripetibile, che dona emozioni fortissime difficili a volte da controllare. Con questa lettera ho voluto raccontare ciò che un ragazzo/a di quindici, sedici, diciassette anni può provare a dover vivere una vita parallela con una cultura e una lingua diversa dalla propria. Jeg elsker Danmark og jeg elsker min Italien også.

Sara Perucconi, programma annuale 2011-2012 in Danimarca

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La bussola del viandante – Dott. R. Ruffino

Ciao a tutti,

inserisco con piacere questo link che vi permetterà di leggere la Lectio Doctoralis di Roberto Ruffino, Segretario Generale di Intercultura, pronunciata in occasione della cerimonia di assegnazione della laurea honoris causa da parte dell’università di Padova.

Si intitola “La bussola del viandante” e spero possa essere uno spunto di riflessione per tutti: sia per i ragazzi che stanno vivendo la loro esperienza che per coloro che si avvicinano ora a intercultura con la voglia di partire. Sicuramente queste pagine saranno apprezzate anche da tutti gli ex-borsisti e i volontari che con Roberto condividono lo spirito di Intercultura.

Un saluto

Ricccardo

 

Qui è riportata la versione in italiano, di seguito vi aggiungo il link di quella in inglese.

UNIVERSITA DI PADOVA

Cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in scienze dell’educazione

 Lectio doctoralis: La bussola del viandante

Magnifico Rettore                                                                                                                    Autorità accademiche                                                                                                                  Volontari e amici di intercultura

Signore e Signori,

Sessantatré anni fa, proprio in questi giorni, dalle valli dell’Appennino scendevano verso la pianura padana gli eserciti alleati che avevano vinto la guerra. Tra i soldati di tante nazioni e di tante lingue (inglesi, polacchi, neozelandesi, marocchini, francesi, greci, indiani, nepalesi, americani, che costituivano la 5° e l’8° Armata) avanzavano sulle loro ambulanze anche alcune centinaia di barellieri volontari dell’American Field Service, quasi tutti obiettori di coscienza o riformati alla visita di leva, che avevano cercato un  modo diverso di servire non tanto la causa di una  sola nazione, ma quella dell’umanità. Erano infatti gli eredi e i continuatori dei giovani che avevano militato nei corpi volontari ambulanzieri della prima guerra mondiale e in qualche caso ne avevano trasposto il ricordo in opere letterarie: parlo di Hemingway, Dos Passos, Julien Greene ed altri.

Con i loro fondi privati e con quelli di amici di famiglia all’inizio della guerra – la seconda  guerra mondiale – questi giovani avevano messo insieme un’associazione che andasse al fronte a soccorrere i feriti. E li avevano soccorsi: nel sud est asiatico, in medio oriente, in nord Africa ed anche  in Italia. Qui da noi sedici di loro erano morti saltando sulle mine e sono sepolti nei cimiteri militari di Nettuno e Firenze.

I sopravvissuti si preparavano a tornare a casa, in quell’aprile del 1945, ormai trasformati da una convivenza prolungata con commilitoni di tutte le etnie e con gli stessi nemici di guerra, riscoperti nella quotidianità banale della loro vita. Qualcuno rimase in Europa: Bill Congdon si fermò a Faenza a ricostruire il museo delle ceramiche, Bill Weaver tornò a Napoli dal suo amico Raffaele La Capria e apprese l’italiano così bene da diventare il traduttore di Eco e di Calvino, altri proseguirono per liberare i campi di concentramento tedeschi, alcuni più semplicemente trovarono casa e moglie in Italia e prepararono il terreno su cui nacque qualche anno dopo Intercultura.

Voglio associare oggi quei giovani degli anni quaranta – alcuni dei quali divenuti poi artisti o politici famosi, ma molti di più rimasti nell’anonimato – voglio associarli a questo giorno di festa che mi fate vivere nella vostra università, a riconoscimento di un’opera – la mia – che non sarebbe mai esistita senza la loro esistenza.

Bogdan  Suchodolski, che – per meriti ben maggiori dei miei – voi avete un tempo onorato del mio stesso titolo accademico in quest’aula, ricordava spesso l’Ode alla Gioventù di Adam  Mickiewicz, in cui il coraggio della gioventù disperde i pregiudizi e gli egoismi e fa sorgere il sole della libertà – ed aggiungeva che la gioventù di cui parla Mickievicz può appartenere a tutte le età ed è il contrario di un’accettazione passiva della vita, si oppone  alla noia ed a un’esistenza monotona, rifiuta l’indifferenza e l’egoismo, vive dove succedono cose importanti e dove le domande prevalgono sulle risposte scontate, dove c’è apertura verso il mondo  in un  dialogo continuo tra tradizioni, presente e futuro immaginato.  La gioventù così intesa comporta rischi ed invita all’azione responsabile in favore degli altri e si nutre dell’amicizia, con cui crea un ponte tra gruppi, età, progetti, sforzi, speranze. E può diventare il fondamento di un nuovo ordine del mondo, in cui – e qui cito testualmente Suchodolski – “l’amore tra gli essere umani che nasce dalle amicizie e dalla gioventù diventa fonte ed alimento di una conoscenza  reciproca, che influenzerà il grande dialogo in corso sui concetti di cultura e di vita”.

Nessuno dei nostri barellieri AFS aveva mai incontrato Bogdan Suchodolski, ma mi sembra che il suo pensiero esprima bene quella certa temperie culturale che sessant’anni fa portò al passaggio da un servizio umanitario attraverso le ambulanze di guerra a un servizio di pace e di formazione alla vita in un mondo multiculturale, attraverso l’incontro e il dialogo tra giovani di molti Paesi. Il passaggio avvenne non in ossequio a teorie pedagogiche – anche  se non mancavano già allora alcuni esempi interessanti di comunità scolastiche internazionali, soprattutto nel mondo anglosassone – ma sulla spinta di una sensibilità acquisita attraverso le amicizie degli anni di guerra e con la visione di un  ordine nuovo  da costruire nel mondo, che è proprio della gioventù.

Nascita e sviluppo di un progetto educativo

A me capitò la fortuna di partecipare ad uno  di questi scambi internazionali organizzati dagli ex barellieri dell’American Field Service e di andare a vivere per un anno con la famiglia McKay negli Stati Uniti, quando di anni ne avevo appena sedici. Da allora sempre più consapevolmente ho inseguito l’idea di un cosmopolitismo che non rinnega le proprie radici e di una visione multi-prospettica del mondo. Questa mi sembra essere la sfida vera della pedagogia contemporanea – e lo sosteneva lo stesso Suchodolski, quando diceva che “da noi (cioè in Polonia) il problema è restare un contadino polacco e diventare insieme un cittadino del mondo”. Ancora oggi devo molto a quella sua affermazione che abbiamo messo sul frontespizio del nostro documento programmatico in Intercultura.

Anch’io, come i barellieri del 1945, sono dunque approdato all’educazione interculturale non da chierico, ma da artigiano e praticante: un  praticante di incontri internazionali con ragazzi e famiglie e scuole e colleghi di cento Paesi all’interno di un’Associazione, che è stata la prima in Italia ad usare il nome “Intercultura”. Chi ne ha fatto parte è stato mio compagno di strada ed io non sarei qui oggi a ricevere questa laurea senza la voglia di navigare insieme controcorrente, che ci ha accomunato in tanti anni. Alcuni di questi volontari sono oggi in questa sala ed anche per loro ricevo il riconoscimento che mi attribuite.

Furono infatti questi scambi scolastici tra giovani di tutto il mondo  a stimolare le nostre prime riflessioni sulle differenze che corrono tra un’impostazione pedagogica monoculturale ed un’altra che aiuti a vivere in un  contesto pluriculturale, dove memorie, valori, credenze e comportamenti degli attori divergono senza che talvolta i diretti interessati ne abbiano la percezione esatta o ne conoscano la ragione profonda.

Fu un docente di questa vostra università, che oggi rimpiango di non poter salutare all’interno di quest’aula, Francesco De Vivo, allora vicepresidente nazionale di Intercultura, a guidarci verso una prima riflessione pedagogica, quando nel 1973  sembrò che il governo della Valle d’Aosta volesse istituire con noi una  scuola internazionale in quella regione.

Fu invece Danilo Dolci, animatore di memorabili incontri a Trappeto, dove preparava l’allestimento della scuola di Mirto, a farci incontrare Johann Galtung e le esperienze educative della Fondazione Ford e gli studiosi di antropologia dell’educazione. Verso di lui conservo un debito di affetto e di intelligenza.

Negli stessi anni l’adesione alla SIETAR (la Society for Intercultural Educationa and Research) ci fece conoscere la ricerca interculturale di marca anglosassone, controbilanciata da quella dei ricercatori francesi della Sorbonne, e ci avvicinò al mondo  degli studiosi della comunicazione interculturale. Erano gli anni Settanta in cui il celebre antropologo olandese Geert  Hofstede studiava la cultura del lavoro nei 72 Paesi in cui l’IBM operava attraverso aziende consociate.

Il nostro tentativo – allora – fu quello di tradurre quelle lezioni, pensate soprattutto per il mondo degli affari e delle relazioni commerciali, in una pedagogia e metodologia dello scambio interculturale dei giovani e trovammo interlocutori attenti nella Commissione Europea di Bruxelles e contemporaneamente nel Consiglio d’Europa, che tra il 1978 e il 1985  ospitò una  serie di nostri colloqui incentrati sul tema dell’interculturalità.

Proprio a Strasburgo, nel 1980, proponemmo una definizione di apprendimento interculturale che il Consiglio utilizzò nell’atto conclusivo del primo convegno europeo sull’intolleranza. Parlavamo di “una nuova situazione di apprendimento, dove discenti che provengono da ambienti culturali diversi sono aiutati a vedere le loro differenze come risorse da utilizzare per conquistare una maggiore consapevolezza di sé, anziché come deviazioni da norme stabilite; una situazione, cioè, dove ogni cultura viene spiegata nel contesto delle altre, attraverso un processo che stimola dubbi su se stessi, curiosità per gli altri e comprensione delle interazioni reciproche e… deve coinvolgere i discenti sia intellettualmente sia emotivamente”.

L’anno internazionale della gioventù (1985) ci offrì infine l’occasione di incontrare i pedagogisti arabi ed africani che parteciparono ai convegni dell’UNESCO nelle loro regioni: tutti concordi nell’indicare la necessità di un’educazione interculturale per i giovani dei loro Paesi, divisi tra la riscoperta di valori autoctoni e l’influenza di una  scuola lasciata loro in eredità dalle potenze coloniali.

Culture e globalizzazione

Negli ultimi vent’anni le tensioni interculturali hanno conquistato le prime pagine dei giornali (sono di questi giorni non  solo l’eterno conflitto tra Israele e Palestina, ma quello tra serbi e kossovari, o tra cinesi e tibetani), ma soprattutto sono entrate nella nostra quotidianità con la forza delle migrazioni massicce, dell’allargamento dell’Europa e della globalizzazione della produzione e dei commerci.

La tecnologia delle comunicazioni e quella dei trasporti ci hanno dato la possibilità fisica e insieme illusoria di essere ovunque nel mondo, anche se il cuore e l’intelligenza restano spesso a casa e la memoria continua a inorgoglirsi dei particolarismi del passato. Proprio là dov’è più forte la memoria, è anche più forte la corteccia di identità locali che rifiutano il confronto con il mondo.

Eleonora Masini ricorda che oggi la cultura ha un ruolo preponderante nella costruzione della società mondiale: “I valori culturali sembrano emergere con più vigore in reazione alla società globalizzata; riappaiono differenze che sembravano superate… Per cui è lecito parlare di una cultura mondiale con crescenti priorità di valori e insieme di coesistenza di culture diverse”.

A questo proposito è interessante un’osservazione di Edgar Morin, che paragona la condizione umana contemporanea a quella di un ologramma:  “Non solo ogni parte del mondo  fa sempre più parte del mondo, ma il mondo  come un  tutto è sempre più presente in ciascuna delle sue parti. Questo si verifica non  soltanto per le nazioni e i popoli, ma anche  per gli individui.  Come ogni punto di un ologramma contiene l’informazione del tutto di cui fa parte, così ormai ogni individuo riceve o consuma le informazioni e le sostanze che vengono da tutto l’universo”.

Ma – aggiungo io – ne manca purtroppo una consapevolezza diffusa.

L’episodio che racconta Federico Rampini in uno dei suoi reportage sulla Cina è esemplare per il suo carattere estremo.

A Xi Zhuang, a sessanta chilometri dal centro di Pechino, c’è una fabbrica che produce in continuazione alberi di natale di plastica, Santa Claus di varie dimensioni, ghirlande di fiori sintetici, croci illuminate, ma anche divinità Indù, mezzelune islamiche di aghi di pino, ikebana luminosi per le feste giapponesi. “Babbo  Natale e la Befana, Capodanno e Pasqua, l’Islam e Vishnu, tutte le tradizioni e tutte le religioni del mondo, le corone floreali e le piante finte del pantheon di quattro continenti hanno in comune l’odore di cavolo di una periferia di Pechino e le dita rapide di operaie cinesi…che non immaginano a che cosa serviranno gli alberelli, i festoni, i personaggi colorati che escono dalle loro mani a migliaia ogni giorno: sono oggetti insensati, destinati a mondi lontani, per ubbidire ad usanze misteriose”.

Ma lo stesso quotidiano che contiene il reportage sulla Cina, lo stesso giorno dava in prima pagina la notizia dell’esecuzione di Saddam Hussein, chiosata da molti commenti: è ancora lecito uccidere un tiranno? all’interno di quale logica giuridica e di quale morale va inserito questo concetto di “lecito”? quale valenza assume  la data scelta per l’esecuzione (il giorno del sacrificio di Abramo, Aid al Adha)  nel mondo  islamico sunnita rispetto al resto del mondo?   Qui l’evento storico assurge ad elemento simbolico, che evoca connessioni diverse e marca confini culturali all’interno del nostro “occidente”, ma anche all’interno della stessa cultura islamica.

Sono due storie diversamente emblematiche della nostra condizione umana attuale.

La prima storia, quella delle operaie cinesi che fabbricano simboli di feste e divinità incomprensibili, ci propone un caso limite ma non infrequente di globalizzazione alienata, resa possibile dalla tecnologia, ma priva di strumenti interpretativi.

La seconda storia ci propone un problema anche  più impegnativo – quello dei codici comportamentali di un  mondo  globalizzato e conseguentemente quello dei valori e delle competenze che devono ispirare l’educazione degli uomini nel XXI secolo

Sono storie che evidenziano due difficoltà del discorso sull’educazione interculturale in un mondo interdipendente: la trasferibilità dei simboli per una comunicazione efficace e la condivisione di un’etica per una convivenza planetaria.

Le istituzioni internazionali hanno mosso alcuni passi sul piano dei diritti umani e della loro traduzione in istituzioni politiche; molto meno è stato fatto sul piano di una  comunicazione globale e di una  pedagogia della convivenza: lo stesso nobile ideale della conservazione di tutte le culture proposto dall’UNESCO contrasta con le differenze di povertà e ricchezza, con l’egemonia delle lingue internazionali e dei monopoli tecnologici, con le sudditanze o le prepotenze politiche, che ostacolano quell’ideale dialogo ugualitario tra le culture che ne garantirebbe il rispetto, la sopravvivenza e una  bilanciate distribuzione di influenze.

Il modello di Intercultura

Il campo della sperimentazione nel settore della pedagogia interculturale è vasto e diversificato. Noi di Intercultura proponiamo un modello di apprendimento attraverso gli scambi internazionali di studenti, nella convinzione – fondata sull’esperienza ma convalidata dalla ricerca – che un soggiorno prolungato all’estero in età adolescenziale avvii un processo di decostruzione di certezze acquisite, spesso inconsapevolmente, e induca un  “cambio di occhiali” che aiuta a cogliere la complessità del mondo.

Perché questa convinzione?

Perché non si percepiscono i confini della propria cultura se non la si vede dall’esterno e non  se ne soffre la relatività. Quando un giovane è tolto dall’ambiente che gli è familiare e collocato in un ambiente nuovo, viene a trovarsi in una situazione “minoritaria” o “marginale” (minoritaria o marginale rispetto alla cultura del paese ospitante): una situazione in cui mette in gioco emozioni ed intelligenza per farsi accettare e sentirsi adeguato.  E’ un processo che stimola sensibilità nuove, esplorazione di atteggiamenti sconosciuti, capacità di interagire sul piano sociale – e che studi recenti hanno cercato di definire in termini di competenze e di indicatori di multi-prospettiva, ancora difficili da omologare e da misurare.

Molti in Europa non condividono questa visione radicale e tendono a guardare all’educazione interculturale come a una nuova “materia di studio” da aggiungere al curriculum scolastico. Ma le competenze interculturali non sono un’area nuova di apprendimento. Sono un cambio di prospettiva e postulano un nuovo modo di essere e di vedere il mondo: ciò che i Greci chiamavano una “metanoia”, una  conversione della mente.

Nei nostri corsi di preparazione alla vita all’estero per i borsisti di Intercultura, insistiamo su tre requisiti che predispongono al dialogo e alla comprensione dell’altro.

Il primo è sapere da dove si viene: è il requisito dell’identità e della memoria, della conoscenza di sé e dei propri valori, non intesi come assoluti, ma come frutto di un processo storico, di cui siamo parte e prodotto.

Il secondo è l’accettazione delle emozioni come mezzo di conoscenza: affezionarsi a qualcuno o a qualcosa che ancora non si conosce è il primo passo verso la sua comprensione e verso la relativizzazione delle proprie certezze.

Il terzo è la tolleranza dell’ambiguità, che va di pari passo con il contenimento dell’ansia di fronte al nuovo e al diverso, con la capacità di rinviare il giudizio a una  fase più avanzata di conoscenza, con il rifiuto di vedere il mondo  in bianco e nero a svantaggio delle molte sfumature di grigio.

La metodologia che modestamente utilizziamo parte da un’analisi di situazioni famigliari, di abitudini quotidiane, di organizzazione della vita, di tradizioni religiose, di manufatti e produzioni artistiche, di consuetudini alimentari, di celebrità locali e nazionali – osservate dal di dentro  e dal di fuori, grazie a quel laboratorio privilegiato che sono i nostri gruppi locali, in cui convivono sempre persone di tradizioni culturali diverse.

Lo sguardo dall’esterno è essenziale. Lo ricorda Umberto Eco nell’introduzione all’indagine condotta da Transcultura a Bologna nel 1988: “Forse il progetto di una  conoscenza  e descrizione reciproca arriva nel momento in cui essa è veramente possibile… quando tutti gli abitanti del mondo  sono abbastanza vicini da poter davvero capire la loro reciproca diversità. Questi sguardi venuti da lontananze ormai mitigate da molte informazioni… lasciano sperare che in futuro questo gioco di descrizioni reciproche possa produrre, nel rispetto delle differenze, una prossimità meno dolorosa”.

Agli studenti e alle famiglie che aderiscono ai nostri programmi noi proponiamo un esercizio in cui la cultura viene rappresentata graficamente come un  iceberg: la piccola parte emersa è la cultura visibile (dei manufatti, della lingua e dell’arte); la gran parte sommersa è la cultura invisibile e spesso inconscia dei valori e delle norme. Lo scontro con un iceberg diverso – un’altra cultura – crea spaesamento ma è anche uno  stimolo a guardare sotto il pelo dell’acqua ed a capire le proprie ragioni nascoste e quelle degli altri.  Dall’analisi del proprio iceberg sommerso, condotta con gente di altri paesi e di altre culture, nasce un doppio processo di rivisitazione e di intuizione:

•         una rivisitazione della nostra storia individuale e culturale: memorie, modelli, eroi, canoni di bellezza e di giustizia, schemi di organizzazione sociale;

•         un’intuizione diversa del futuro, non più semplice estrapolazione del nostro vissuto, ma riflessione su ciò che è sostenibile e compatibile in un  contesto pluriculturale.

La bussola che non c’è

Lavoriamo infatti lungo un  confine sottile che divide identità personali e culturali, spesso misconosciute dai diretti interessati,  affinché emergano dall’inconsapevolezza ed imparino a dialogare,  per poi costruire – insieme agli altri – la casa comune del futuro. E qui sta un limite grave, perché agli uomini del nostro tempo manca il sostegno di una bussola che indichi ethos e organizzazione della città mondiale, per la quale vorremmo preparare i nuovi cittadini. Questa mancanza trasforma anche il nostro lavoro in un esercizio di tolleranza dell’ambiguità.

Eppure oggi c’è un desiderio diffuso – tra gli uomini di buona volontà – di “traghettare l’umanità dal modus  vivendi al modus cum-vivendi”. L’espressione è di Zygmunt Baumann il quale altrove chiarisce: “Da maledizione, la globalizzazione può perfino trasformarsi in una benedizione: non abbiamo mai avuto un’occasione migliore per…dimostrare di essere capaci di innalzare la nostra identità a livello planetario, al livello dell’umanità..”

Condivido questa speranza: che le identità incerte e frammentate, le lealtà multiple o disperse, le memorie indebolite o esaltate, attraverso l’inevitabile confronto tra gente di culture diverse, possano diventare passaggi di un cammino verso aggregazioni e solidarietà più vaste. “Dobbiamo aiutarci reciprocamente – diceva pochi mesi fa a Milano

Raimon Panikkar – ed essere consapevoli….che la verità non è possesso personale … Abbiamo la necessità di comprendere che la verità, quando cade dal cielo sulla terra, si rompe in cento pezzi, un pezzetto a disposizione di ciascuno”.

Può essere allora l’etica del dubbio, la nostra bussola di educatori interculturali?  quella di cui parla Gustavo Zagrebelsky riprendendo alcuni temi cari a Norberto Bobbio, che immaginava un’etica del labirinto, in cui si coltiva la speranza “adattando i mezzi al fine, riconoscendo le vie sbagliate e abbandonandole una  volta riconosciute”.

E’ un’etica che Umberto Galimberti chiama l’etica del viandante: “la fine dell’uomo come lo abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della legge, e la nascita dell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno  spazio che non è garantito… Se noi adulti – dice Galimberti – siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non  ha altra profondità che non  sia quella della vecchia abitudine, allora l’etica del viandante può offrire ai giovani un  modello di cultura che educa perché non  immobilizza, perché desitua, perché non  offre mai un  terreno stabile e sicuro su cui edificare le loro costruzioni, perché l’apertura che chiede… non ha nulla di rassicurante, ma scongiura  la monotonia della ripetizione che i giovani aborrono…”.

Ritrovo in questa pagina la visione della gioventù di Suchodolski e di Mickievicz ed un  pensiero che mi accompagna da trent’anni, da quando (giovane anch’io) organizzavo a Strasburgo i primi convegni sull’educazione interculturale: un  pensiero che vi offro a conclusione di questa mattinata in cui avete aperto le porte dell’università al dialogo interculturale. Dicevo dunque allora e ripeto oggi a voi:

Le nostre antiche culture sono cemento che tiene insieme l’edificio                                       Ma gli impedisce di essere altro da quel che è

Forse è venuto il momento di smontare l’edificio                                                                      Per conoscerne i pezzi                                                                                                                    Che sono pezzi della nostra vita                                                                                                       E trasformarli in pali e in travi
Da trasportare per il mondo

Per farne tende e capanne                                                                                                          Facili da comporre e da scomporre                                                                                               Quando sostiamo un  poco su terreni che cambiano

Come i Tuareg del deserto                                                                                                             Che uniscono i popoli del mare e del verde                                                                                  Continuamente                                                                                                                            Senza muri.

Roberto Ruffino

Università di Padova, 21 aprile 2008

 

http://www.afsfoundation.org/PDF/La%20bussola%20del%20viandante_%20en.pdf

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Sveiki !! kā tev iet?

“Oddio!! Guarda!!! E’ fantastico!”
“Sì! Me lo avevano detto che saremmo rimasti a bocca aperta…”
“Già…ma visto con i tuoi occhi è tutta un’altra cosa…”
Questa è stata la prima impressione quando dal finestrino dell’aereo abbiamo iniziato ad atterrare, finalmente avevamo visto cosa da mesi avevamo solo immaginato: boschi, campi, qualche casa ed un fiume.
Lo spettacolo è stato meraviglioso.
Atterrati eravamo in fibrillazione, parlavamo sì e no quattro parole in Lettone, e ci trovavamo da soli all’aereoporto di Riga e dovevamo trovare i nostri bagagli; quattro ragazzi Italiani con una fantastica maglietta gialla supercolorata, il sorriso sulle labbra e la macchina fotografica in mano.
Prese le valigie abbiamo incontrato due volontarie che sono state in Italia, che ci hanno portati con gli altri ragazzi qui ospitati a cenare. Cosa c’era per cena? Zuppa ovviamente!
Il giorno successivo abbiamo incontrato le famiglie, e consegnato un girasole, ognuno andava per la propria strada con una nuova famiglia verso una nuova casa.
E’ stato  molto emozionante.
E pensare che è passato già un mese.
Il primo settembre è iniziata la scuola, mi sentivo a disagio ad andare in giacca e cravatta, ma qui è così, tutti eleganti per dimostrare di essere intelligenti e veramente vogliosi di imparare!
Alla fine mi sono divertito! A fare foto e ascoltare la musica di sottofondo, o qualche ragazzo cantare. Poi ci siamo tutti riuniti, e la preside ha incominciato a parlare, a presentare i nuovi insegnanti, le nuove classi, e me! Quando mi ha chiamato davanti a tutti per andare a ritirare i miei regali di benvenuto ( una tazza e una penna col nome della scuola) sono diventato rosso come un pomodoro con tutte quelle persone che mi guardavano!
All’inizio non è stato facile socializzare, ma pian piano qualcuno a cominciato a fare domande e ad invitarmi a mensa, e tutto è stato più facile!
Non ho una classe fissa,  anche se una per più ore alla settimana, e in questo modo girando incontro più persone e faccio più amicizia.
La Lettonia ha tanto da raccontare, le persone hanno tutte una storia affascinante che vogliono raccontare a qualcuno, ma non c’è mai tempo, tutti vanno sempre veloci, come se stessero per perdere qualcosa di molto importante e allora sono costrette a tenersi la storia per sè. La Lettonia non si può descrivere facilmente, bisogna osservarla, bisogna capire i suoi perchè, bisogna raggiungere il suo cuore, bisogna viverla!
Bisogna riscaldarla nei mesi freddi, e giocarci insieme in estate nelle sue fantastiche spiaggie, bisogna assaggiare la sua cucina, parlare con la sua gente, ballare i suoi balli e cantare i suoi canti!
Bisogna gridare il suo nome al vento freddo del nord, chiudere gli occhi ed essere trasportati tra le sue pianure, le sue spiaggie e le sue città,  bisogna incontrarla di nuovo  e farla entrare nel proprio cuore, sapendo che da lì non potrà più scappare via, e ascoltare finalmente così  la sua storia.

Sveiciens no Latvijas!             Samuele

Samuele Messina, classe IV del Liceo “Marie Curie” di Tradate, ha lasciato l’Italia lo scorso 19 agosto per trascorrere 10 mesi a Cesis, in Lettonia.

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Incontri che cambiano il mondo

Mi chiamo Simone Whale e ho fatto un programma di dieci mesi con AFS Intercultura nel periodo 2008-2009. É stato uno degli anni piú importanti della mia vita. Sicuramente quell’esperienza ha segnato il mio futuro. Grazie ad Intercultura a settembre comincio un corso d’italiano e storia dell’arte all’università di Edimburgo.
Oltre a cambiare come persona, grazie a quell’esperienza posso dire di avere una seconda famiglia e amici da ogni parte del mondo. Secondo me, i ragazzi d’Intercultura all’inizio rappresentano il loro paese, ma alla fine sono cittadini del mondo.

Simone (USA) ha frequentato il terzo anno al Liceo Classico “Cairoli” di Varese nel 2008/09

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Italia

Italia

Quante persone sognano di  scoprire il mondo? Di vedere cose nuove? Di imparare una nuova lingua?

Era il mio sogno fin a circa due anni fa e grazie a Intercultura è diventato realtà! Avevo sete di novità e volevo assolutamente imparare l’italiano perché è la lingua più bella che io conosca. Così mi sono iscritta al programma di Intercultura per andare in Italia.

Sono arrivata in Sardegna a settembre. Andavo a scuola con mia sorella ospitante (aveva 15 anni). Lei e tutta la mia famiglia ospitante mi hanno aiutata davvero tanto nel fare i miei compiti, nell’imparare la lingua e soprattutto ad essere in grado di capire le differenze che ci sono tra la mia cultura e quella italiana. Li sono davvero molto grata. Secondo me, è il fatto di vivere con una famiglia del posto che rende l’esperienza ancora più gradevole!

Ci sono state lezioni di italiano all’inizio dell’anno che ci hanno aiutati a comunicare più facilmente. Poi, ci sono stati tre campi che ci hanno aiutati, prima ad adattarci meglio, poi a prepararci al ritorno nel paese di origine.

Sono tornate in Canada all’inizio di luglio. Non è stato molto facile. Stranamente, mi sembra che sia stato il rientro la cosa più difficile per me. Ero ovviamente felicissima di ritrovare la mia famiglia e i miei amici, ma avevo paura che mi mancassero troppo l’Italia, la mia famiglia ospitante e i miei amici! Infatti, il primo mese è stato un po’ difficile, ma poi mi sono riambientata e adesso va tutto bene.

Non solo ho avuto la fortuna di farmi amici italiani, ma anche amici che vengono da tutte le parti del mondo. Una mia amica indiana, che ho conosciuto in Italia, dice spesso che siamo fratelli del mondo. Quest’esperienza mi ha fatto realizzare quanto è vero! Non importano le differenze tra noi; al contrario, rendono il mondo più bello da scoprire.

Poi, è grazie al mio soggiorno in Italia che oggi so apprezzare più persone. Cioè che prima non ero consapevole di quanto mi stessi privando di certe amicizie. Ho imparato che è importante di conoscere una persona prima di esprimere un parere su di quella persona. Può sembrare ovvio, ma non è sempre facile.

Adesso, ho ancora più voglia di scoprire cose nuove, nuove culture; di viaggiare insomma! Rifarei un’esperienza del genere a qualsiasi momento, senza nessuna esitazione! Però, mi ha anche dato voglia di vivere l’esperienza al contrario; cioè di ospitare uno studente straniero! Non vedo l’ora di scoprirne di più su di un’altra parte del mondo!

Emma, dal Canada in Italia, 2009-10, ha vissuto per un anno a Las Plassas e per una settimana a Venegono Superiore

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La moneta

La moneta

Che cosa è una settimana di scambio? Che cosa si intende con la parola “scambio”? E’ la parola che sentiamo noi – i ragazzi di Intercultura – più di tutte le altre parole. Per me, “scambio” significa vedere e anche guardare per capire senza pregiudizi. Io credo di averlo fatto perché con la settimana che ho vissuto, sento i miei occhi aperti, più aperti di prima.

Anche se prima ho detto senza pregiudizi, è inevitabile, secondo me, di non sentire le cose che si dicono fra uno e l’altro. E anch’io, come tanti, prima di fare qualcosa, mi ero informata sul paese in cui andavo, ossia Varese. Avevo sentito che lì erano freddi, lontani, ricchi e fortemente attenti ai vestiti e al look. Dove andavo era in Italia, sì, ma mi hanno raccontato così tante differenze che non riuscivo a mettere insieme il Sud col Nord. Ma ormai avevo comprato i biglietti per andarci e con quel mio coraggio che mi ci fa buttare, ho preparato la mia valigia e sono salita sull’aereo con la testa alta e i miei tanti pregiudizi che portavo addosso. Ma appena che sono scesa dall’aereo ero una persona pulita, senza nessun pensiero nella testa su quello che ancora non era successo. Non so ancora come ho fatto ma con ogni piede che mettevo per terra, aprivo una pagina nuova nella mia vita.

Da un punto di vista, la settimana era come aspettavo. Dall’altro punto di vista, era un altro mondo. Per esempio le persone. Sì, erano più freddi, avevano dei movimenti più distanti, staccati e col meno contatto possibile. Ma erano quelli italiani che avevo conosciuto io. Erano sempre in ritardo. E’ anche vero che al Sud, tutti sono in ritardo di un’ora, al Nord; massimo mezz’ora o tre quarti d’ora. Ma al contrario di quelli che pensano loro, anche se si considerano più puntuali o più stressati per essere puntuali al Nord, dal mio punto di vista non è tanto vero. Anche al Nord sono rilassati. L’unica differenza è che al Nord, in qualche modo, riescono ad essere in tempo ma al Sud se qualcuno nota che è in tempo, si ferma per prendere un caffè e ad essere alle fine in ritardo come sempre.

Il concetto di libertà è variabile. Al Nord, si guadagna di più, si compra di più, si divorzia di più e ci si mette insieme di più. Si può dire che si fanno le cose con molta frenesia. Alcuni possono dire che vivono di più ma alcuni sicuramente diranno che al Sud si gusta più la vita. Al Sud, toccano, vedono, hanno dei momenti di felicità e dei momenti di profonda tristezza. Respirano l’aria, aspettano per sentire freschezza nei loro polmoni e dopo espirano. La vita va avanti piano piano. Non hanno il concetto di tempo. Il tempo non significa tanto al Sud. Fanno le cose senza sbrigarsi, assaporandole, vivendole con pazienza.

Dopo aver visto tutt’e due i lati della moneta non so dire quale è meglio o quale sceglierei perché alle fine la cosa essenziale che fa diventare una moneta quella che è, è di avere due lati diversi. Anche se ci sono tante persone che dicono che queste due parti non possono stare insieme, io credo che loro esistono insieme e che non avranno più nessun valore senza uno e l’altro.

Perin, dalla Turchia in Italia, 2008/09
Ospitata da una famiglia della provincia di Catania, è stata a Varese per una settimana “di scambio”

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At rejse er at leve – Viaggiare è vivere

At rejse er at leve – Viaggiare è vivere

L’altro giorno sono stata a Firenze a trovare la mia classe danese, che era là in gita: è stato stupendo, dopo dieci minuti era come se non fossi mai partita. Il prof di musica mi ha promesso che mi manda delle note via mail, così mi esercito e a fine gennaio posso andare a suonare nell’orchestra – come l’anno scorso – per la loro “Festa di Maturità”, la festa tradizionale di ogni scuola danese. E’ rassicurante sapere di poter tornare, sapere che tanta gente mi aspetta.

Io mi sono innamorata della Danimarca, a poco a poco, l’anno scorso: in Danimarca ho imparato che bisogna darsi tempo, nelle cose; all’inizio ho odiato la cultura danese, poi l’ho capita e adesso non smetterò mai di ammirarla, per la loro attenzione all’equità tra i cittadini (ne sono molto orgogliosi), la loro sensibilità verso i problemi sociali e ambientali, il loro sistema scolastico, così rilassato e insieme serio, dove la scuola insegna a riflettere su quello che sta succedendo nel mondo, discutendone. Amo la loro ignoranza in fatto di vestiti di marca, il loro andare in bicicletta sotto la tempesta (non fa freddo, sei tu che non sei vestito abbastanza!!).

Avevo una grande famiglia in Danimarca, una nonna che – come ogni nonna che si rispetti – si preoccupava che non mangiassi abbastanza, un papà che mi prendeva in giro perennemente e si lamentava quando suonavo l’oboe nella stalla di fianco a casa, dicendo che secondo lui era dannoso per le mucche suonavo troppo male! – e mi faceva morire dal ridere; una mamma che amava stare a chiacchierare davanti a un falò sulla spiaggia, e allora stavamo lì tutti insieme a mangiare le torte di mia sorella, parlando.

Ci sono stati anche momenti difficili, quando non capivo niente né del Danese né dei Danesi, perché si comportavano come si comportavano, perché tutto quello che facevo sembrava fosse sbagliato. Ho fatto fatica a stringere amicizie, all’inizio, perché i Danesi ci mettono del tempo per aprirsi alle persone nuove, ma quando ripenso alla mia partenza, alla festa a sorpresa che la mia classe aveva organizzato, o a come si erano preoccupati perchè io passassi un bel diciottesimo compleanno, o forse alle cose ancora più banali, alle serate passate a guardare un film, alle feste della scuola, ai concerti con la classe di musica…mi rendo conto che per i Danesi, come per noi, l’amicizia ha un valore altissimo, e i miei amici danesi mi mancano.

Forse, più di tutto, mi manca l’intensità con cui vivevo ogni giorno, il fatto che frasi o gesti a cui qui nemmeno farei caso mi facessero stare malissimo, oppure, al contrario, mi rendessero felicissima: non c’erano molte vie di mezzo. E adesso, quando ho paura o sono agitata per qualcosa, ripenso alla Danimarca e mi tranquillizzo subito: lì sì che qualche volta ho pensato sul serio “non ce la farò mai”, e invece non è vero, si riesce sempre a fare quello che si vuole davvero.

H.C. Andersen, altro grande orgoglio danese, diceva: “At rejse er at leve”: viaggiare è vivere. E’ vero. E’ vivere insieme agli altri, sforzarsi di capire senza presunzione come funzionano ambienti nuovi, diventare più attenti e rispettosi: quando ci si sente ‘diversi’ una volta, si starà attenti a usare il vocabolo ‘diverso’, si cercherà di capire invece che etichettare.

E poi il Natale danese vale la pena di essere vissuto, con il buio e le candele e le danze intorno all’albero e la hygge, l’atmosfera calda e accogliente, per loro fondamentale, stupenda nei lunghi mesi invernali.

Erica, con Intercultura in Danimarca, 2006-07

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