Presi per la gola

Il vero miscuglio lo vedi a tavola, benché quello di tavola sia un concetto spesso molto vago. Nella via in cui abito – nell’East London meno elegante – puoi percorrere un paio di chilometri e mangiare indiano, cinese, turco, italiano, libanese, hamburger e fish’n chips. La qualità non è sempre di casa, è vero (non lo è nemmeno ai miei fornelli…). Però basta andare in qualsiasi altro angolo di questa enorme città e scoprire la propria tavola preferita. Spesso ciò significa incappare in una bancarella che, all’ora di punta, ti offre un buon take-away. A Exmouth Market, una viuzza fra le strade residenziali di Islington e gli uffici della City, a mezzogiorno puoi gustare (in piedi) un risotto con olio al tartufo, piatti brasiliani e indiani, salsicce cucinate da tre ragazzi italiani. Alle 11 scaricano il furgone, montano il gazebo e le griglie, poi inizia la distribuzione. In un paio d’ore si smonta tutto. E dire che intorno ci sono 4 ristoranti italiani, uno greco, una boulangerie francese, pubs e catene di caffé. Sfamare Londra è un’impresa che però richiede grande sforzo. E anche qui – pur non essendo nella campagna più tradizionale – capisci che la vera ricchezza che ciascuno può condividere con gli altri è il cibo. Se porti un buon piatto da qualsiasi parte del mondo hai conquistato il cuore di qualcuno. Il cibo può essere un lavoro. Per l’italiano immigrato qua può significare vendere forme di squisito pecorino o mozzarelle di bufala in un mercato, come a Borough Market. Esattamente come i turchi sotto casa mia ti preparano il kebab. Davanti al banco, nessuno verrà a obiettarti che questo non è il cibo tradizionale di Londra.

PCI- Piccola Comunità Italiana

Oppure se scambiamo le lettere: piccoli italiani crescono.

Piccoli non nel senso anagrafico ovviamente, ma forse ancora piccoli uomini e piccoli cittadini in questo mondo: la maturità la stiamo ancora ricercando.

Ogni volta che un italiano viaggia è destinato ad incotrarne altri, qualsiasi sia la sua meta, tralasciando i meandri più sperduti di questo mondo. Sembra che gli italiani siano ovunque, lontano dalla patria che amiamo e  odiamo, per ragioni tra le più diverse.

E qui il copione è lo stesso.

“Sei in Spagna. Devi conoscere gli spagnoli, parlare la loro la lingua e conoscere la loro cultura” mi ero detto appena arrivato. E lo penso tutt’ora. Voglio davvero essere curioso e conoscere. Ma troppo più facile è conoscere, conoscere per davvero, quelli che parlano la tua stessa lingua, quella lingua così musicale e ricca, con le sue mille sfaccettature. E così inizi a condividere la vita spagnola con loro, con gli altri italiani. E questa condivisione ti aiuta sicuramente.

C’è l’ex napoletano di Gassino Torinese; il cuneese doc, come il cioccolatino al rum; le ragazze fiorentine; il napoletano verace; il palermitano che studia a Perugia; la coppia di San Severo; i tanti romani. E c’è il varesotto, quello che viene da una città famosa perchè ci è nato Bossi (altri concittadini famosi non li abbiamo?) e che è bersaglio delle fiorentine per la sua dizione. A quanto pare le vocali non sono il mio forte: quando è chiusa la dico aperta e viceversa.

 C’è tutta Italia, l’italiano si sente spesso, anche troppo. Come dice un ragazzone  col suo spagnolo romanesco alla Verdone: “Holà chicos! Aò ma tutti italiani state?!” Più o meno sì, come lo è lui d’altronde.

Alcuni li sto conoscendo per davvero. Soprattutto i miei colleghi di medicina, col quale ne condivido gioie e soprattutto sofferenze.  E questa condivisione mi piace, la sento vera e non costretta. Ragazzi della stessa età in Erasmus, che per strane coincidenze si sono incontrati a Malaga. Chissà perchè tutti hanno deciso di andare in Erasmus, non gliel’ho ancora chiesto. Le ragioni possono essere molto diverse.

Sono convinto che gli amici bisogna saperseli fare e  l’amicizia vada costruita e coltivata. La condivisione sia uno dei valori più importanti. Trovare amici, tutti lontani da casa per provare una nuova esperienza, con dei sogni e magari addirittura  degli ideali, così rari, con dei principi, con voglia di godersi la vita e divertirsi ma anche consapevoli dei propri doveri. Preoccupati ma allo stesso tempo pronti ad affrontare il proprio futuro. Tutto ciò mi fa sentire bene. Mi dà speranza e voglia, per qualsiasi cosa io debba fare.

E ritrovarsi seduti a tavola, tutta italiana, con una piatto di pasta e una bottiglia di vino. E parlare. E discutere. E confrontarsi.  E bere e cantare insieme. E condividere idee e piccoli gesti. Mai come ora, lontano dall’Italia, lo avevo apprezzato.San Lucas 2009 B

Luci a Malaga

Anche da queste parti si festeggia il Natale.

Niente di più normale, non c’è dubbio.

Ma la sensazione rimane strana. Come quando si vedono le luci di Natale accese a metà novembre, che ti sembrano fuori luogo e fuori tempo, quel pensiero qui permane anche agli inizi di dicembre quando ormai realmente l’atmosfera natalizia si dovrebbe sentire.

Fondamentalmente fa troppo caldo, in Plaza de la Costituciòn ci sono le palme e una ragazza scozzese cammina pochi metri davanti a me in infradito quando sono le 9 del mattino del 4 dicembre ( va bene forse gli scozzesi non sono un buon termometro in quanto a percezione della temperatura esterna).

La città in pochi giorni si è riempita di luci, di decorazioni, di stelle di natale: lo spettacolo e l’atmosfera sarebbero fantastici. Ogni via e ogni angolo sono illuminati, l’albero e il presepe non mancano e qualche spagnolo addirittura tira fuori il piumino, i guanti e la sciarpa provando a farlo sembrare un clima più natalizio.

Ma senza quella sensazione di freddo che sempre vorresti evitare, che ti spinge a rintanarti in un bar del centro per bere una cioccolata bollente, che mai penseresti che possa mancare e per la quale sicuramente mi lamenterò non appena il mio aereo atterrerà a Malpensa quando tornerò.  Bè senza quella faccio fatica a pensare che sia davvero tempo di Natale.

Brick Lane

Quando parlo di vivacità, parlo anche di luoghi. Come Brick Lane, al confine fra i palazzi di vetro e acciaio della City e East London. E’ un luogo che amo. E’ dove vedo più spesso fotografi a caccia di immagini curiose, nascoste. C’è qualcosa che rende questo luogo apparentemente vecchio il crocevia della contemporaneità che si realizza. E’ qui che una Londra alternativa si ritrova nei locali meno convenzionali della città. Le modelle posano agli incroci per le riviste patinate. Alla domenica – ideale continuazione del più austero Spitalfields – un coloratissimo mercato offre di tutto, dal cibo di ogni parte del mondo alle t-shirt che solo qui trovi. Ci sono abiti, gioielli, quadri, libri, mobili usati, vecchie cartoline. Molto di questa mercanzia è frutto della creatività di giovani (ma non solo) che bazzicano Londra. Ci sono anche italiani, benché la maggior parte di quelli che vedi alle bancarelle abbiano volti asiatici. La vivacità di un luogo che attira i giovani in cerca di novità la vedi all’opera in angoli come questo, dove è difficile distinguere il bizzarro dal normale e proprio per questo senti di poter partecipare anche tu. Dove mai trovi locali pieni di gente in vecchie fabbriche in disuso? E le mostre d’arte al primo piano di una autosilo chiuso in certe giornate per lasciare entrare la gente e installare il mercato? E quel ristorante in un vecchio autobus a due piani ormai a riposo? E i negozi alla moda dove un giacca costa 300 pounds accanto ai negozi vintage dove puoi trovare e indossare con poco lo stile del passato? Brick Lane, of course.

Qualsiasi cosa può essere un ristorante

Qualsiasi cosa può essere un ristorante

Happy Thanksgiving.

Ho messo in pausa Tokyo per qualche giorno.

Allor scoccare del quinto mese la mia testa sembra sfiancata dal continuo switch linguistico, e ho avuto il bisogno di rifugiarmi nel più accogliente abbracio dell’ idoma inglese.

Da qualche giorno sono nell’Illinois. In California. In Texas.

Ovunque, ma non a Tokyo. Ovviamente ci sono ancora, ma non mi va di rendermene conto.

Kyl mi ha invitato a passare la cena del ringraziamento nel suo appartamento a Senzoku.

Festa “nuova” (per me). Facce nuove, un melting pot inatteso. Americani, Canadesi, più qualche “intruso” peruviano, inglese, e non meglio identificati. Qualche giapponese, ma tutti parlano in un inglese perfetto, e non si azzardano a ferire le mie orecchie con i suoni cosi’ ingegnosamente vocalici della loro madre-lingua.

Un sottobosco di culture che si sono amalgamate in modo diverso al congestionato brulicare della capitale dell’est; molti di loro non parlano troppo bene il giapponese, se non zero del tutto. Anche avendo vissuto qui per anni. Un lusso che ti puoi permettere solo in una megalopoli così stratificata, ma difficilmente nelle altre città del Sol Levante.

Qui puoi trovare ogni ingrediente. Oggetto. Liquido. Libro. Rivista. Vestito. Tessuto. Spezia.

Basta pagare.

In effetti ero solo parzialmente, ma terribilmente, stupito  nel vedere il tacchino entrare in scena in tutto il suo grasso, tras-lucente splendore. Nessuno o quasi mangia il tacchino qui, e nessuno lo vende, specialmente intero. I cranberries. Ogni altra cosa difficilmente concepibile ad una mensa giapponese.

-E’ bastato pagare tutto a peso d’oro!-

Kyl scioglie ogni mio dubbio.

Domani torno a Tokyo, promesso.

zen

Una gran voglia di correre

Ci sarebbero tanti modi per replicare o aggiungere qualcosa alla lettera del direttore della Luiss, quanti almeno sono gli italiani che stanno all’estero. Ognuno, è chiaro, avrà il suo pezzetto di cammino da raccontare. A me, che certo non sono venuto a Londra per sfruttare i vantaggi di una laurea e non ho intenzione di rimanerci per sempre, vengono in mente molti aspetti quotidiani della vita (da immigrato) in questa metropoli, che valgano come possibili chiavi di lettura di una avventura lontano da casa. La prima è la ricerca di una vivacità che in Italia non trovi, al di là che tu sia laureato, ricercatore o semplice vagabondo. Spesso, a prescindere dal merito, è la paura di invecchiare giovane che mette le ali ai piedi. Quando qui cerchi un lavoro la prima cosa che vogliono sapere è: che cosa sai fare? Se lo sai fare, qualsiasi cosa sia, puoi trovare il tuo spazio, ti mettono alla prova. Anch’io ero in questa situazione un anno fa, mi ero messo in testa che avrei impiegato mesi a sistemarmi. Ci sono voluti 6 giorni. E quando in un’agenzia di lavoro mi hanno detto che potevo iniziare, era un venerdì, beh…il lunedì ho ricevuto la prima convocazione! Tutto in regola. Anzi ho fatto subito anche il National Insurance Number, di fatto il numero fiscale che ti fa esistere nel mercato del lavoro UK. Anche qui: pochi giorni e la tessera, gratuita, l’avevo in tasca. Per i lavori, generalmente, ti chiedono il curriculum e la lettera di presentazione. Devi dire chi sei, un po’ come il tema a scuola, solo che in questo caso ottieni spesso almeno un colloquio. Poi c’è la casa. Conosco persone che hanno cercato una stanza, l’hanno trovata e hanno traslocato da un punto all’altro di Londra in meno di una settimana. Nei musei ci vai gratis e ti raccontano una bella parte di storia artistica italiana, oltre a farti conoscere l’arte di oggi e di domani. Nei bar e nelle biblioteche trovi la connessione wi-fi gratuita. Intendiamoci: Londra non è il paradiso. E’ una vita spietata, le grandi opportunità che ti da’ possono essere al prezzo di una concorrenza sprezzante, di giornate a passo di marcia, amicizie spesso improvvisate, notti insonni per il rumore. In molti qui non trovano spazio e se ne vanno. Però penso che essere giovani richieda anche questo: se hai voglia di correre non puoi sempre tollerare che gli altri ti trattengano.